12 agosto 18…
La gloria è a buon mercato in Corsenna. Per quindici lire buttate via, son salito in grande estimazione presso le signore. Che buona occasione ha perduta Terenzio Spazzòli, di apparire un uomo perfetto! Ora egli ha una macchia nel suo blasone, un'ombra nella sua luce. La contessa Quarneri non è rimasta ingannata dalla supposizione che alla signora Berti era piaciuto di fare, e non crede affatto che il divo Terenzio sia stato il protettore del povero burattinaio, il Mecenate delle arti, il dator di spettacoli in piazza. Me lo ha detto ella stessa, la luminosa contessa; e in quella occasione, con bel garbo di confidenza signorile, ha preso a darmi del voi. Cosa che mi piace, e non mi piace ad un tempo. Mi piace perchè suona bene; non mi piace perchè farà credere Dio sa che cosa, quando gli altri osserveranno la novità del trattamento, che sembrerà un abbandono delle antiche cerimonie. Ma così voglion le belle, e non c'è da resistere; diamoci pure del voi.
—Non siamo amici, forse?—mi ha detto.—Specie dopo che come amico mi avete dato dei versi?—
Ah sì; mi ricordo benissimo che come tale sono stato ammesso nell'albo, e come tale anche difeso da lei. È infine una gentile signora. Possiede una cultura molto superficiale, tanto da non sapere, due settimane fa, che il Leopardi è morto. Ma che? per gustar le bellezze d'un poeta è forse necessario di conoscerne la vita? Quella è scritta in prosa, e la contessa non si rovina gli occhi nella prosa; ecco tutto. Le donne, di solito, non sanno niente di storia letteraria. Dio buono! e chi ne sa, intorno a loro! Terenzio Spazzòli conosce la letteratura francese modernissima, per aver letto dei titoli e qualche pagina dei libri parigini; conosce la russa, per sentita dire, e solo perchè i romanzi russi son passati dallo staccio di Parigi. Vuole oggi psicologia nei libri, come qualche anno fa avrà voluto fisiologia e patologia, psicopatia, patopsichia, od altra consimile tautologia, senza sapere da dove si cominci. Se nel romanzo è russo, nel teatro è scandinavo, per moda; deve averglielo suggerito quel po' di testo che accompagna il suo figurino nel giornale dei sarti. Ne sanno più addentro, o pretendono a saperne, i tre satelliti della contessa; uno dei quali è "decadente" e fa delle rime impossibili. Ha perfino stampato un volumino ino ino, ma di gran margine, che nessuno ha letto; anzi no, dico male, lo han letto moltissimi, ma non lo ha comprato nessuno. onde un'ira feroce, dissimulata sotto un olimpico disprezzo, contro la letteratura "alimentare". Che cosa ha veduto di alimentare nel mio Cigno, per dirne tanto male nel salotto della contessa? Se fosse stata un'oca, pazienza, capirei; ma un povero cigno tiglioso e stoppone, via, non meritava tanta durezza di giudizio.
La contessa ha dovuto riprenderlo, e so che l'ha fatto con una grazia tutta sua, che non escludeva la forza. La contessa ha buon gusto; e se non sa certe cose, che importa! È tanto bella, che avrebbe perfino il diritto di non saper nulla al mondo. Mi ha invitato da capo al suo villino, ma non mi sono lasciato prendere. Galatea direbbe, e con ragione, che mi adatto a fare il quarto. Poi, quei tre compagni mi annoierebbero. So far bocca da ridere anche ai nemici, ma non sopporto i noiosi. In larga compagnia, all'aperto, son gocce d'inchiostro che s'affogano in un secchio d'acqua e non la tingono troppo: in un salotto, loro tre, su cinque presenti e sedenti, dovrebbero essere una morte sola, e continua.
L'altra sera la signora contessa ha invitata tutta la comitiva di San Donato a prendere il tè in casa sua. Anche qui mi sono scusato. Ma qui ci avevo almeno un'altra ragione, abbastanza ridicola; e imperiosa, nondimeno, ineluttabile, perentoria. Figurarsi; non avevo ricevuto ancora dal mio sarto un tutto-vestito di stoffa inglese, che mi è necessario, e che io ho dimenticato di portare per le mezze parate, non prevedendo tutti questi perditempi quotidiani. Gli abiti che ho con me in Corsenna vanno mattamente da un estremo all'altro: o di gran parata, e non è il luogo, nè l'uso di questi giovanotti; o di tela d'alpaca e che so io, fatti a giacca, e non possono andare che all'aperta campagna. Miserie, lo so; ma di queste si vive. E il tutto-vestito grigio non m'è arrivato che ieri, quando l'occasione era passata.
Alla signora, per altro, non era passata la collera, per la mia diserzione, per il mio tradimento, come ha voluto chiamare una semplice assenza. Ha scoperto anche lei il mio dolce rifugio dell'Acqua Ascosa. Senza averne la topografia esatta, ci s'è accostata di molto; e ad un'ora insolita, andando a diporto tutta sola, ha presa la via del mulino, dove mi ha combinato. Proprio allora, col mio Teocrito in tasca, andavo a cercare il mio covo. E qui complimenti, si capisce, maraviglie ed ossequii da parte mia, che non potevo far altro; qualche bottata da parte sua; finalmente la pace.
—M'hanno detto,—incominciò essa allora con la sua vocina insidiosa di sirena,—che di là dal mulino c'è un luogo ombroso stupendo, e che Voi lo conoscete. Volete farne parte anche a me?—
Come dire di no? M'inchino, e l'accompagno. Si risale la strada a fianco del mulino e della sua ruota, immane mostro che dorme in quest'ora, mezzo al sole e mezzo all'ombra della sua buca, tutto vestito d'erba viscida lungo le pale nerastre. Là dietro si passa sopra un ponticello di legno, che corre tra la ruota e la gola del bottaccio, mettendoci dall'altra banda su d'un robustissimo terrapieno a scarpa, levato ad argine tra l'acqua alta e la prateria che va giù a conca, scendendo sempre e dilungandosi verso il gran viale dei pioppi. Per un tratto, dove è più profondo il serbatoio, l'argine ha così larga la cima, che ci si passa comodamente in due; ma più in là, dove il bottaccio incomincia a restringersi, la ripa si restringe anch'essa via via; non si può andare tutt'e due di fronte, ed ella è costretta ad appoggiarsi sulla mia spalla. Ma che dico, appoggiarsi? Vi s'aggrappa per disperata, come una bella spericolona al braccio del robusto bagnaiuolo che l'ha in custodia, sulla spiaggia di Livorno o di Rimini.
Già aveva tremato un pochino al passaggio d'un secondo ponticello che cavalca la chiusa, donde il bottaccio si scarica quando non lavora il mulino. Ma qui è un tremar continuo, dovendo andar noi sulla ripa alta e stretta, coll'acqua profonda a manca e la prateria molto bassa a diritta.
—Volete forse tornare indietro?—le dico.
—No,—mi risponde, con un brivido che parrebbe far contro alle parole,—il pericolo ha le sue attrattive.—
Avanti dunque con le attrattive. Ma la impaccia il suo ombrellino da sole e da pioggia, il suo en-tout-cas, com'ella lo chiama, e che prendo io in governo; la impaccia il suo gran ventaglio, che le ballonzola sulle ginocchia, e che io metto accanto all'ombrellino, facendone tutta una manciata; la impaccia la gonna troppo lunga, di cui non posso io egualmente raccogliere i lembi, e che bisogna lasciar strascicare sull'erba. Si va a passi lenti e corti, inframmezzati da lei di piccole strida, e di larghe risate da me per farle coraggio; mentre ella, così serrata sulla mia spalla, m'involge tutto in un profumo di pelle di Spagna, soave, delicato, inebbriante davvero.
Basta; come Dio vuole, eccola in salvo. La ripa, su cui si procede, è sempre angusta per due; ma siamo giunti dove la prateria sottostante risale, risale sempre più, per venir quasi a filo dell'argine, e non c'è più pericolo di capogiri. Il sentieruolo, lasciando lo scoperto, si ficca dentro alla piantata delle carpinelle; ed eccoci inselvati, coll'acqua susurrona che ci corre daccanto, e, di là dall'acqua, le falde del monte che salgono, vestite di borraccina e d'eriche nane, sotto la guardia e l'ombra dei vecchi castagni.
—Com'è folto qua sotto!—esclama la contessa.—Chi sa trovarci è bravo.
—Non dubitate; ancora pochi passi, e si riesce al chiaro.
—Oh, non mi dolgo già di quest'ombra; c'è così fresco!
—Voglio dire che troveremo più rado il fogliame, e d'ombra ce ne sarà ancora abbastanza. Queste carpinelle girano tutto intorno, fino al punto dove la montagna fa uno sprone sull'acqua; laggiù saremo più al largo, e vi parrà di respirare un po' meglio.—
Eccoci infatti allo sprone. La balza vien giù tagliata a picco, e sarebbe troppo brulla, come una cava di pietre, se due o tre semi di fràssino non fossero volati ad allogarsi tra i crepacci, per venir fuori in giovani piante, che sporgono ad ombrello, e rompono pittorescamente la nudità della roccia. Il luogo è bello, e le piace; disgraziatamente non c'è da sedere. Eh, lo so ben io dove c'è da sedere; ma mi secca un pochino di doverla guidare fin là. Nondimeno, poichè io non son più padrone di tornare indietro, si prosegue lungo la sponda del rivo, si scende ancora un poco, dove l'acqua ritorna a mostrarsi arginata, Eccolo lì, il mio rifugio; passo davanti al mio arginello erboso e fiorito, ma senza guardarlo, per timore che gli occhi tradiscano le mie tenerezze.
—O Teocrito!—esclamo dentro di me.—Qui volevo venire, per leggerti. Pazienza, non è vero? pazienza per me. Quanto a te, vecchio Siracusano andato ad ammorbidirti fra le graziette Alessandrine, scommetto che se tu potessi uscir vivo e sano dalle pagine del tuo signor Teubner, vorresti essere al mio posto e filar qui un graziosissimo idilio.—
Frattanto la contessa ha trovato da sedere. E lì, proprio lì, si ferma sui due piedi, gridando:
—Ecco un buon posto. Non è forse il vostro, Morelli?—
Io non ho mai saputo mentire senza farmici rosso. E perchè ella mi guarda, ed io non voglio arrossire, rispondo:
—Sì, è questo per l'appunto.
—Bene; sediamoci dunque. E datemi il ventaglio, vi prego. Se volete, vi lascerò l'en-tout-cas.—
Sorrido dentro di me, parendomi d'essere il quarto satellite, e mi siedo accanto a lei, col suo ombrellino tra mani.
—È veramente un bel luogo, e molto poetico;—diss'ella, dopo aver guardato in giro con aria di somma compiacenza.—Ma non da venirci da soli. Io ci avrei paura, da sola.
—È sicurissimo;—risposi.—Corsenna non è un nido d'aquile; ma non ci sono neanche avvoltoi, nò sparvieri. Poi, qui dietro, a cento passi, c'è un casale, con quattro o cinque famiglie di contadini, tutta bravissima gente.
—Dio sa,—ripigliò la contessa, seguendo il suo filo e non il mio,—quante coppie felici saran venute qui a dirsi tante belle cose! Peccato che non ce ne rimanga l'eco.
—Possiamo immaginarcele, contessa. Del resto, si può domandarne a quelle farfalle che passano, o a quegli uccellini che si rincorrono tra gli alberi….
—Pensando che noi siamo una di quelle coppie felici, non è così? Disingannatevi, uccellini del bosco;—soggiunse la contessa, con accento tra comico e patetico;—il signor Morelli è un solitario, che si ritrova qui accompagnato per caso.—
E rideva; e risi ancor io.
—Oh, non ci sarebbe da ridere;—soggiunse ella, sforzandosi di far cipiglio.—Che cos'è questa vostra maniera di fare, Morelli? Perchè non avete voluto venire a prendere il tè, l'altra sera, e in compagnia di tutti i nostri buoni amici? Perchè non volete mai rifar la salita del Roccolo? È tanto breve, lo sapete, essendoci stato una volta. Vi spiace il nome? Spiace anche a me; lo cambieremo. Anzi, studiateci, e datelo voi; non ho fantasia, io, e ne sarò felicissima.
—Ci penserò.
—Ah bene. Ma ci verrete, non è vero? Per carità, non mi condannate a questa condizione spiacevolissima, di vedere in casa mia solamente i noiosi.
—Scusate, signora; ma se io avessi proprio temuto di far numero con questi?
—Sarebbe stato un timore indegno di voi;—replicò la contessa.—Confessate piuttosto, tanto mi ripugna di ammettere che potesse spiacervi la padrona di casa, confessate piuttosto che i suoi eterni visitatori vi seccano.
—Ah, quelli poi…. se mi date licenza, mi sfogo. Quelli, poi, mi fanno perder le staffe. Non ho mai visto più molesti…. come chiamarli? Lasciamo il sostantivo; certo l'Alighieri non li avrebbe chiamati mai graziosi nè benigni.
—Bene, bene! Così mi piacete; sincero. Ancor io, son tutta impastata di sincerità. E vi seccano dunque, come seccano me? Un momento mi è parso di avervi capito, quell'unica volta che siete venuto a vedermi. Siete rimasto un'ora, e nessuno di quei signori, che c'erano già da due ore, si è mosso, tanto che voi ve ne siete andato prima di loro. Già, fanno sempre così; sospettosi con tutti, ed anche peggio tra loro. Se resto la sera a casa, suonano le dieci, suonano le undici, e nessuno si vuol muovere per il primo; cosicchè io sono costretta a congedarli in massa. È una persecuzione. Qualche volta casco dal sonno, e non se ne vogliono accorgere. Molesti animali; avete detto bene, Morelli.
—Veramente, non avevo osato di proferirlo, il sostantivo che li definisce. Di solito, e senza cercare molto addentro nel sentimento che destano, io li chiamo tra me e me i vostri satelliti. Se Giove in cielo ne ha quattro, perchè non ne avrebbe tre l'astro luminoso di Venere? Non badate, signora; m'è venuto così spontaneo, che avreste torto a non lasciarlo passare. Il vostro caso, del resto, non è nuovo nella storia; si è dato il simile, tremila e più anni fa, nell'isola d'Itaca, ed è toccato alla regina Penelope. Ce ne aveva un bel numero anche lei, che non le davano tregua. Ma un giorno capitò Ulisse a casa, e li conciò per le feste. Se uno di questi giorni, imitando Ulisse, il savio conte Quarneri….—
La contessa mi mozzò le parole in bocca con una matta risata.
—Ah sì, proprio; credereste che bisognasse ricorrere a questa estremità!
—Non so; siete giudice voi;—risposi, un tantino mortificato.—Del resto, anche senza chiamarlo, e volendo pure liberarsi dai satelliti seccatori, si potrebbe annunciarlo come prossimo ad arrivare, e si vedrebbe l'effetto che fa.
—Resterebbero male, lo capisco;—replicò la contessa;—ma intanto resterebbero fino all'arrivo; e non arrivando lui, seguiterebbero a non muoversi.—
Capisco, o mi par di capire, che la luminosa contessa mi faccia questi sfoghi per chiasso, e che nel fondo sia molto contenta d'esser seccata. Questi assedii ostinati piacciono alle donne belle, come, se si leggono bene le storie, dovevano piacere alle antiche città, quando avevano buone mura e viveri dentro, per durare anche a dieci e vent'anni d'investimento. Ma la contessa non è ancor sazia di ciance, e vuol proprio che io pensi al caso suo.
—Non avete altro consiglio da darmi?—soggiunge.—Con tutta la vostra fantasìa!…
—Ecco, signora, la mia fantasia è una povera cosa, e di consigli non può offrirvene che due. Il primo, che v'ha dato, era il consiglio classico; ma non vi è parso buono. Passiamo al consiglio romantico; ma vi avverto che, dopo questo, io non saprei più che cosa trovare per il vostro bisogno.
—Sentiamo, sentiamo il consiglio romantico;—gridò ella, battendo le palme con gioia infantile.—Son veramente curiosa.
—Ci ho gusto, contessa, e spero che questa volta sarete anche persuasa. Incominciate dal figurarvi che io sia voi; ciò sarà molto stravagante, e per conseguenza molto romantico. Ho il vostro en-tout-cas; se aggiungeste per grazia somma il vostro ventaglio…. Così, facendomi vento, parlerei in questa forma ai miei satelliti: "Signori miei dilettissimi, sapete voi che stanotte non ho potuto dormire? Ho passato il mio tempo pensando a voi altri. Quei cari giovani! dicevo tra me e me. Perchè, veramente, siete cari, tanto cari, che io non so quale sia il più caro tra voi….
—Oh, questo, poi!—gridò la contessa.
—O questo, od altro;—ripresi.—Il proemio sia pure a vostra scelta; purchè ci sia l'essenziale, secondo il parer mio. E l'essenziale è di dire ai satelliti: "Signori miei, perchè non pensate ad accasarvi? È un ottimo stato, il matrimoniale. Io l'ho scelto, e me ne trovo felicissima. Imitate l'esempio mio, e sarà una prova di bella amicizia. Anzi, vedete, avevo stanotte pensato anche a trovarvi la sposa. Ci sono tre Berti, in Corsenna, una per uno, e tutte e tre molto carine, tanto carine, che io veramente non so qual sia la più carina delle tre. Volete? Faccio io la domanda per voi."
—Ah, bello, bello, magnifico, stupendo! ed anche romantico, sì, molto romantico!—gridò la contessa, arrovesciando le spalle sull'argine e ridendo a più non posso.—Ma se non accettano?
—Oh Dio! se non accettano, tanto peggio per loro;—risposi.—Del resto, io faccio un dilemma: O sono giovani di cuore e di spirito, o solamente di spirito. Mi ripugna di aggiungere un corno all'argomentazione, e di crederli sciocchi. Se hanno spirito e cuore, accetteranno il vostro consiglio, perchè in verità le tre Berti sono molto carine, e possono far la felicità di altrettanti figli d'Adamo in questa valle di lacrime. Se sono solamente o niente affatto di spirito, tutti e tre prendono ventiquattr'ore di tempo a rispondervi; ma in quelle ventiquattr'ore fanno le valigie, prendono un biglietto alla prima stazione di strada ferrata, e vanno a farsi impiccare altrove. Vi torna?
—Sì, sì, ottima idea; quantunque io non voglia fare l'esperienza precisamente nella forma che voi proponete, e per cui ci vorreste voi, signor Rinaldo, col vostro modo curioso di farvi vento. Ma vi son grata, sapete? vi sono gratissima, e qualche cosa di simile a ciò che voi avete immaginato, certamente farò.—
Mi stese la mano, così dicendo, e strinse forte la mia. Era contenta di me; ed io incominciavo ad esser contento di lei, tanto che dimenticavo perfino la storia del povero Leopardi a Recanati. Quand'ecco (il quand'ecco è di rito in questi casi) si sente un fruscio tra i rami bassi delle carpinelle, e un cane mi sbuca di là, Buci, l'eterno Buci, il mio satellite, che ride e mi fa impallidire e tremare.
Quella mattina non avevo badato a lui, che non era in casa, ed io non mi ero dato il pensiero di cercarlo. Buci aveva saltata la siepe dell'orto, secondo l'uso suo e dei suoi pari. Benedetti cani! Prima era sempre con me, e per venire con me, per essermi alle calcagna dovunque andassi, risicava le busse del suo padrone ogni sera: adesso che sta con me, va sempre con gli altri, e quando è con gli altri, non ha pace finchè non li guida sulle mie tracce. Da tanti giorni non venivo al rifugio dell'Acqua Ascosa; ed ecco, proprio la prima volta che ci torno, Buci mi viene a scovare, e sicuramente porta qualcheduno con sè.
Tutte queste cose pensai, o piuttosto vidi in un attimo; e il pensarle e il vederle mi alterarono in faccia.
—Che c'è!—disse lei.
—Nulla; vi prego, alzatevi e venite via.
—Perchè?
—Ve lo dirò poi; venite via.
—Dove?
—Lo saprete; ma venite, senza perdere un minuto secondo.
—Ma che debbo temere? che mi trovino qui?—diss'ella, avviandosi.
—Ebbene, non sarebbe già bello;—risposi, trascinandola.
—Ma io non ho paura, ad esser trovata con voi, con un gentiluomo, con un cavaliere.
—Grazie; ma venite più svelta, vi supplico.
—Comandate, obbedisco.—
E prese il mio braccio, per correre più spedita. Io avevo fatto un gesto a Buci, come per dirgli che andasse all'inferno; ma egli non lo capì. Gliene feci un altro per accennargli che mi precedesse; ed egli capì quello, finalmente!
La contessa muoveva frettolosa al mio braccio. Si giunse ad un punto del sentiero, donde, o pel fogliame degli alberi, o per la piega del monte, non si vedeva più il posto dove eravamo stati a sedere. Laggiù incominciai a riprendere il fiato.
—Che uomo siete voi!—mormorò la luminosa contessa.—Un altro al vostro posto….
—Un altro,—interruppi,—sarebbe uno sciocco, o un mascalzone; io non sono nè l'uno nè l'altro. Venite; ancora pochi passi, e saremo fuori del tiro.—
Si costeggiava la sponda del canale, sempre in mezzo alle piante. Ad un certo punto incontrammo l'ostacolo che io già conoscevo, una casa di contadini che cavalcava il ruscello. E qui, una delle due: o passar l'acqua, inerpicandoci tosto per un orto a scaglioni, risalire di là ai casali di Santa Giustina, e sparire di là, per riapparire al bisogno donde ci paresse meglio, con aria di persone a diporto su d'una strada scoperta; o scendere dall'altra parte della pescaia e arrivare al greto del fiume, dove ci avrebbero veduti, indovinando anche come e perchè ci trovassimo là. No, niente al fiume; piuttosto ai casali di Santa Giustina.
—Vi sentite,—dissi alla contessa,—di saltare quest'acqua?—
Ella guardò un poco il ruscello, misurandone a occhio l'ampiezza.
—No, vi confesso;—rispose.—Coll'impiccio della gonna!
—Permettete, allora; qui non c'è tempo da perdere; vi rapisco senz'altro.—
Le prendo ventaglio e ombrellino, e getto i due arnesi sull'altra sponda, ma un po' lontani, che non m'impaccino il passo. Poi prendo lei nelle braccia, mi assicuro di averla bene in equilibrio sul petto, e spicco il salto. Il rivo non era largo più di sei palmi, e non facevo poi un miracolo di destrezza; ma il peso che avevo sulle braccia, e la cura che richiedeva, non mi lasciarono veder bene davanti a me, nò pensare che la sponda di là era in un certo punto assai molle per l'avanzarsi dell'acqua sotto l'erba traditrice. Così immollai un piede fino alla caviglia; ma la contessa era in salvo. La deposi sul sodo terreno, raccolsi l'ombrellino e il ventaglio, feci un altro gesto rabbioso a Buci, che si era fermato davanti a me, non intendendo una saetta di tutte quelle novità; e su per la salita a gran passi.
—Siete forte come un Turco;—mi diss'ella, ridendo.—Ecco un ratto in piena forma.
—Zitta, con quella voce, per carità!—
E via, senza posarci un minuto. Si passa davanti ad un casale, e per fortuna non si vede anima viva, nè alle finestre nè agli usci. Avevo pensato di far sosta ad una di quelle casupole, fingendo di esser capitati là dalla strada alta; ma il non esser visti da nessuno e il trovar lì, sotto la mano, anzi meglio, sotto il piede, un sentiero che mette nel bosco dei castagni, mi fa cambiare d'idea. La conduco da quella banda, ed ho il conforto di vedere che il sentiero pianeggia abbastanza. Così ella non si affaticherà troppo a salire.
—Sentite?—dice ella ad un certo punto, tendendo l'orecchio.—Ci chiamano.—
Avevo sentito ancor io, anzi prima di lei. Di laggiù commettevano a tutti gli echi, a tutti i punti cardinali, i nomi di Adriana e di Rinaldo. Riconoscevo la voce delle giovani Berti, di Terenzio Spazzòli, di Enrico Dal Ciotto, uno dei satelliti; il che mi lasciava supporre che ci fossero anche gli altri due. Ma il guaio più grosso, e che mi metteva le ali alle calcagna, era quello di aver riconosciuta fra l'altre la voce della signorina Wilson. Fortunatamente la comitiva si era fermata al punto dove noi eravamo stati a sedere, e di là si sentivano venire le voci; mentre noi, avviati nel sentiero alto a mezza costa, eravamo celati a tutti dallo sprone del monte, che già avevamo oltrepassato, per muovere verso il mulino. Per poco che fossero rimasti a cercare di noi laggiù, e ad invocare i nostri nomi invano, saremmo arrivati a salvamento, e sempre benissimo nascosti tra i castagni, fino al punto della strada battuta, dove ci eravamo due ore prima incontrati.
La contessa avrebbe voluto fermarsi al mulino. Secondo lei, si doveva restarci fino a tanto ritornasse indietro la comitiva, e aver l'aria di essere entrati là dentro a vedere le macchine; donde la possibilità del non esserci incontrati prima coi nostri cercatori importuni.
—Sì;—risposi;—ma se anch'essi, venendo, fossero entrati al mulino? o solo avessero attaccato discorso con qualcheduno della casa?
—Ebbene,—replicò lei,—tanto peggio per loro. Poichè tra quei curiosi ci ho i miei tre satelliti, sarebbe il terzo modo, non classico nè romantico, ma egualmente sbrigativo, per liberarmi di loro.—
La ringraziai con un inchino della bellissima idea, che poteva lusingare benissimo la mia vanità mascolina, ma che non conferiva punto alla mia quiete. La voce di Galatea, udita laggiù dall'Acqua Ascosa, mi aveva dato un gran rimescolo al sangue.
—Sentite, signora;—le dissi gravemente;—il meglio è di non dover dare spiegazioni, siano esse trovate buone o cattive. Son venuti a cercare di noi, e non ci hanno trovato; segno che non c'eravamo, o che essi non hanno saputo scovarci. A buon conto, non eravamo là, dove sono andati a far capo. Voi a casa vostra, quest'oggi, non avete da dar ragione dei vostri passi, e nessuno sarà tanto ineducato da farvi domande in proposito. Con me nessuno ha tanta confidenza da entrare in simili inchieste. Pensino quel che vorranno; dal canto nostro, come saremo laggiù al crocicchio, in vicinanza della nobil Corsenna, ci divideremo da buoni amici, per rivederci più tardi.
—Avete ragione;—rispose la contessa.—Poichè siamo fuggiti, tanto vale approfittar della fuga.—
Quella sera ci fu un pochettino di musoneria nella colonia villeggiante di Corsenna. I satelliti avevano le facce scure; Terenzio Spazzòli non si degnò di mostrare i denti più d'una volta. Le Berti, amabili innocenti, accennarono soltanto di essere andate il mattino a passeggio di là dal mulino, avendo sentito che Adriana era andata a passeggio anche lei, traversando il paese e girando da quella parte; ma certamente s'erano ingannati gl'informatori, poichè non l'avevano trovata.
—No,—rispose la contessa, con la sua bella tranquillità di signora accorta,—non s'erano ingannati. Ero uscita fuor d'ora, avendo l'emicrania e non potendo star ferma in casa; ero anche andata di là dal ponte, coll'idea di salire a Santa Giustina; ma ad un certo punto, vedendo due strade, ho temuto di smarrirmi, e son ritornata.—
A me non si disse nulla, che avrei saputo rispondere; a Buci nemmeno, che avrebbe potuto cavarsela ridendo. Per me, soltanto, ci fu a quattr'occhi una bottata di Galatea.
—Che odore, questa mattina, all'Acqua Ascosa! un odore acuto… come di pelle di Spagna.
—Ah sì?—risposi, colpito in pieno petto, ma non volendo parere.—È poi l'odore delle rose canine e dei fiori di rovo. Ce n'è tanti laggiù!—