27 agosto 18…
La fatica è stata molta, quest'oggi, per condurre a buon fine l'impresa, come in questi ultimi giorni per prepararla. Diceva bene iersera il commendator Matteini, mettendo gli ultimi numeri arrotolati nella gran ruota della fortuna, che il fare della beneficenza non è come sorbire un uovo fresco. Il degno uomo confessava candidamente di non aver lavorato mai tanto, nella bellezza dei trentacinque anni della sua vita ipotecaria. Anch'io, colla cura del concerto musicale, con quell'altra del prologo, e poi con cento piccole cose dell'alta direzione, sono stato occupato la parte mia; ed oggi, finalmente, alla stanchezza intellettuale si è aggiunta la stanchezza fisica, che m'ha fatto rimanere due ore a tavola, quantunque senza voglia di mangiare o di bere. Stasera ho ricusato di muovermi da casa, ed ho lasciato andar solo il mio ospite. Che uomo d'acciaio, quello! Pare, a vederlo, che sia stato a veder gli altri, mentre ha lavorato anche lui come un negro.
Consoliamoci, perchè le cose sono andate a quel dio. La sala era parata benissimo, e il divo Terenzio ha meritati davvero gli elogi di tutta la colonia villeggiante. I ritratti del re e della regina, tolti per l'occasione dalla sala dell'Asilo, sono stati appesi nel fondo del palco improvvisato, sotto un baldacchino di drappelloni rossi (due tappeti della contessa Quarneri) tra corone di quercia e festoncini di fiori. E di mazzi di fiori disposti a losanghe si abbellivano le pareti della sala, che erano tutte inverdite con frasche di castagno. Dio, quanti chiodi ci son voluti, per fissare tutta quella roba, che aveva poi da durare una mezza giornata! Non fu così facile, del resto, dissimulare la bruttezza del pavimento; ma su quello erano tante file di sedie, che quando la gente ebbe preso posto, l'ammattonato scomparve per due terzi della sua superficie; un terzo, nel mezzo della sala, era coperto dal tavolato, messo là per le prove di scherma.
Si fece porta alle dieci del mattino. Avevamo preparato cinquecento biglietti d'ingresso, a cinquanta centesimi l'uno; e s'intende che, salvo i venduti a chi ne faceva richiesta, ce ne spartivamo il grosso tra noi. Una cinquantina erano già necessarii per noi villeggianti e per la gente di casa; un centinaio furono presi dai naturali di Corsenna; il resto fu distribuito da noi, all'ultim'ora, e gratis, per fare una piena spettacolosa. I Corsennati, che stavano per istrada a guardare verso l'uscio della filanda, gradirono assai quest'atto di generosità; forse lo avrebbero gradito, mezz'ora prima, anche quelli che erano dentro, e che avevano dovuto pagare il biglietto, la più parte per onor della firma. I Corsennati son gente savia, tanto che si potrebbero dire più esattamente assennati; e pensano che se i signori vogliono fare del bene, farebbero anche meglio a farlo intiero. Nondimeno, e paganti e non paganti si son mostrati soddisfatti ad un modo, e non ci hanno lesinati gli applausi.
La banda di Dusiana aperse il fuoco, assordandoci con la più rumorosa delle sue marce guerriere. Fu applaudita a furore, e si gridò viva Dusiana; il che non è mai male tra popoli contermini, che hanno di tanto in tanto i loro piccoli screzi e dissapori. Già si voleva il bis; ma il capobanda fece un gesto che voleva dire: "abbiate fede; ci sentirete anche più del bisogno." Frattanto otteneva silenzio la contessa Quarneri, apparendo sul palco. Era diventata bianca bianca, non potendo impallidire del tutto; la rianimarono gli applausi della colonia e quelli anche più rumorosi, che seguirono, del buon popolo Corsennate. Incominciò essa allora il suo prologo, tremandole un pochino la voce ai primi versi. Io tremavo più di lei. Temevo che intaccasse; e in quella vece tirò via, forse un po' troppo veloce, ma tanto più sicura del fatto suo, quanto più correva verso la fine. Trascurò, si capisce, molte sfumature, perdè molti effetti; ma non dimenticò il suo tuono predicatorio, la sua cantilena, le sue inflessioni nasali. Niente paura, dopo tutto; si era in Corsenna, e Corsenna applaudì tutta come un uomo solo. Credo che sia volata anche qualche spalliera di seggiola. I miei Corsennati, questa volta si tramutarono in forsennati.
—Che talento!—esclamò la sindachessa, stimando necessario di dar lei l'intonazione ai giudizi dei suoi amministrati, o di suo marito, che poi è tutt'uno.—Per il possesso di scena, par proprio un'attrice.
—Pare la Madonna;—diceva più in là una ragazza modestamente vestita.—Ce ne saran voluti, dei biglietti da cento, per coprirla di merletti a quel modo!
—Che fior di farina!—gridava anche più in là, nella calca, il mugnaio del paese.—Di quella roba lì non se ne trova mica a sacchi. Che cosa ne dite voi, Giacomino?
—State zitto; la mangerei;—rispondeva Giacomino, il panattiere.
Insomma, tutto è bene quel che finisce bene. Tra il talento di attrice scoperto dalla sindachessa, l'effetto di una ricca abbigliatura che faceva morir d'invidia le ragazze del paese, e quello d'una bellezza innegabile che destava istinti d'antropofago perfino nel più interessato apostolo della nutrizione vegetale, il prologo andò a vele gonfie. Seguì ancora una suonata della banda, con assòlo di tromba a pistoni; chetato il quale, si ebbe una mandolinata delle tre Berti, tanto carine e meritamente applaudite, colla domanda del bis: domanda che fu tosto esaudita, ma variando il pezzo, secondo l'uso dei concertisti che si rispettano. Da capo, finito il terzetto delle mandoliniste, volle rumoreggiare la banda, con un centone di pezzi della Norma, dove non mancò la "Casta diva" nè il suo contrapposto del "Guerra, guerra". Quello era il momento buono per metter mano all'armi. Discese Filippo Ferri sul tavolato, e lo seguì Enrico Dal Ciotto. Terenzio Spazzòli, uomo tagliato a tutti i grandi uffici, con molta dignità prese a tenere la smarra. L'assalto è, per consenso universale, assai bello; non già perchè i Corsennati siano intendenti in materia, ma perchè assistono per la prima volta ad uno spettacolo di quella fatta. Il povero Dal Ciotto ha più audacia che perizia di schermitore: ha preso una bottonata, due, tre, senza collocarne una delle sue; quattro, cinque e sei, con eguale risultato. Ma qui Filippo Ferri si è mosso a compassione; ha un po' rallentato il suo giuoco, e si è fatto toccare ad un braccio; più di striscio, in verità, che di punta; ma s'è affrettato ad accusar ricevuta. Pare ad Enrico Dal Ciotto di potersi rifare; ne busca una settima, e si dà allora per vinto.
—Son proprio fuori d'esercizio;—conchiude, rivolgendosi alle signore.—Ma sono felice ad ogni modo di aver fatto brillare il giuoco del signor Ferri; un giuoco veramente magistrale.—
Bravo satellite! Così mi piaci; senza rancore, con un granellino di spirito, che non avrei immaginato mai, e che son lieto di riconoscere.
Si domanda il bis; ma Enrico Dal Ciotto è stando, e non lo concede.
—Si provi Lei;—mi dice la signorina Wilson, che è seduta ai primi posti, e che non dubita di rivolgermi il discorso, quando c'è gente.
—Volentieri;—le rispondo;—per farmi battere.—
E m'avanzo sul tavolato, per calzare il guanto o metter la maschera.
—Animo!—mi bisbiglia Filippo, mentre mi aiuta fraternamente nell'opera.—Qui si parrà la tua nobilitate.—
Lo spero bene. È chiaro come il sole, che ne buscherò parecchie, anzi molte; ma non farò la figura di Enrico Dal Ciotto, e ne restituirò più d'una.
Incominciamo guardinghi, studiandoci l'un l'altro, facendo di passata un po' di fioriture accademiche. Filippo Ferri ama i principii a tavola; li ama ancora sul tavolato. S'impegna un giuoco serrato di finte, di parate, di attacchi e di contrattacchi, d'intrecci e di sparizioni, che diverte un mondo, come al giuoco del pallone una lunga sequela di colpi senza lasciar ruzzolare il pallone per terra. Quella prima messa in guardia è senza bottonate; la folla degli spettatori va tutta in visibilio. "Come fanno a non toccarsi mai?" gridano di qua e di là; "come fanno?" E si applaude furiosamente al prodigio.
Ma eccoci da capo impegnati. Filippo è un gran cavaliere; mi lascia l'onore della prima bottonata, e ne accusa ricevuta colla solita cortesia. Ma non vuol neanche parer troppo generoso, e finge di essere in collera con sè medesimo; ripiglia, attacca vigoroso, mi obbliga a fare un salto indietro; m'invita fieramente col piede, e appena son ritornato in misura, mi sferra in pieno petto la sua botta diritta. È allora un furore d'applausi. Evidentemente io sono simpatico ai Corsennati; ma la passione del maggior numero è in questo momento per lui. Non me ne dolgo; mi basta di aver sostenuto quel primo assalto così lungo, tenendogli testa senza esser colpito, scherzando, giuocherellando col ferro quanto lui; m'è più che bastante l'onore della prima bottonata, che egli mi ha tanto cortesemente lasciato. E vorrei, dopo la prima sua, lasciarmene dare una seconda e una terza, che mi parrebbe sempre di aver fatto una buona figura. Ma egli non è del mio parere; mi batte la campagna, non approfitta del suo vantaggio; seguita a descrivere, a distanza di otto centimetri dal mio costato, i suoi elegantissimi otto, in piedi o coricati, come gli pare, senza toccarmi mai. Va bene che molte io ne paro, e potrà anche sembrare agli astanti che io le pari tutte; ma dentro di me sento che egli potrebbe entrare più d'una volta. Perchè non lo fa? Mi scaldo al giuoco, rompo uno di quegli elegantissimi otto, ed entro io con una seconda bottonata. Egli accenna del capo, e sembra volermi dire sotto la maschera: "finalmente! è mezz'ora che l'aspetto." Poi me ne dà una a sua volta, un'altra se ne lascia dare; e così via, un po' per uno, giungiamo al punto che io ne ho date sei, quante lui, nè più nè meno. Facciamo la bella? Facciamola. E la dà lui, dopo un maraviglioso sfoggio di finte e di attacchi; la dà lui, imperiosa, gloriosa, solenne. Ed è piena giustizia, che mi rende felice, mentre egli, tra uno scroscio di applausi, è dichiarato il campione della spada.
—Signori,—dice modestamente il mio avversario agli astanti di prima fila, dopo avermi dato, a maschere levate, un abbraccio fraterno,—il nostro poeta è di prima forza; non lo sapevano? Bisognerebbe ancora vederlo alla sciabola.
—Sì, sì, un assalto di sciabola;—si grida.
—Non già con me;—risponde Filippo Ferri.—Io sono ora un po' stanco.—
Si fa invito coi gesti; ma nessuno dei sedenti risponde. Terenzio Spazzòli è un fior di cortesia; si offre lui, cede la smarra a Filippo, mette la maschera e il guantone, impugna la sciabola, e in guardia. Son largo con lui, come Filippo è stato largo con me, e mi lascio far volontieri il solito manichino di controtaglio, e di primo appetito; poi, serrandolo al mio giuoco, gli dò una puntata, guizzando subito fuori e rimettendomi in guardia. Seguono gli assalti, e non mi lascio toccar più; un altro suo tentativo di manichino è rotto da un guadagno di lama, seguito a volo da un colpo alla faccia.
—Ho il mio conto;—dice Terenzio, levandosi la maschera ed asciugando il sudore.—E questa poi me la son meritata, col mio ritorno al controtaglio. Piuttosto mi par duro essermi lasciato colpire di punta.
—E a me ne duole moltissimo;—rispondo.—È un vizio di metodo. Anche colla sciabola faccio, senza volerlo, il giuoco della spada; rischiando poi, se non mi vien bene il colpo, di farmi affettare una spalla.
—Non temo che ciò le succeda, se ha tanto sicuro l'atto di portare il taglio in su, e così veloce l'attacco. Quanto al vizio di metodo, glielo invidio. L'ho sempre detto io, che il giuoco di sciabola va fatto più serrato, sì, più serrato, come quel della spada in certi casi; e in tutti gli altri, non troppo distante di lì.—
La dottrina e l'asseveranza compensano nel divo Terenzio il difetto di pratica; ed egli rimane agli occhi di tutti un gran cavaliere. La mia gloria, nondimeno, è al colmo. La contessa Adriana, nel farmi le sue vivissime congratulazioni, mi offre perfino dei fiori. Oh Dio! e Galatea, che vede, che cosa penserà del fatto? che cosa dei ringraziamenti, che son pur costretto a fare? Cerco di rimediare, rivolgendomi alle altre signore, alle Berti, da principio.
—Non avrò i loro fiori, signorine?—
Le tre fanciulle son ben liete di appagare il mio desiderio; mi danno tre bei garofani dei loro mazzolini. Anche le mamme mi fioriscono alla lor volta; e così posso chiedere il suo fiore alla signorina Wilson.
—Ne ha già troppi;—mi risponde.—Ed io, del resto, non ne ho…. devo averli smarriti.—
O lasciati cadere, birichina; lasciati cadere a bella posta dietro la sedia, a mala pena mi hai veduto in giro, col manifesto proposito di finire da te.
La banda di Dusiana rumoreggia da capo, con un centone di motivi dell'Attila. Sarà mediocre, la banda di Dusiana; ma non è certamente peggiore di tante e tante altre. Poi, viva la faccia dei popoli campestri, che amano la musica, e preferiscono questo passatempo a quello della morra e della politica d'osteria. Finalmente, la banda di Dusiana suona una musica che mi piace per tante ragioni, non ultima quella del gran bene che ha fatto ai suoi tempi. Ancor caldo delle mie sciabolate, canticchio in cadenza coi suonatori il "Cara patria, già madre e reina" e l'"Empia lama, or l'indovina", non dispiacendo neanche al trombone, a cui è affidata la frase melodica in discorso.
Ma una voce più graziosa, sopra tutto più intonata della mia, rallegra l'uditorio. È la voce della signorina Virginia Berti, che arpeggiando sulla sua mandòla canta due belle canzoncine spagnuole. Anche a lei, molti applausi: i Corsennati, sicuramente, dal continuo picchiare, hanno già le bollicine alle mani. E ancora non abbiamo finito; ecco il bello che viene, con una fila di bambini, tutti vestiti ad un modo, che si schierano sul tavolato e cantano una strofetta di ringraziamento. Il bello, ho detto: ma a me non piace, essendomi sempre parso un rompere il turibolo sul naso ai così detti benefattori, e un profanare la onesta dignità dei così detti beneficati, il far cantare una filza di complimenti smaccati, da quelle care bocche innocenti. Non piace a me, ripeto; piace nondimeno agli altri, e perfino ai parenti di quelle tenere vite; passi dunque il ringraziamento cantato. C'è poi una bella tombolina che si presenta sul palco, e recita un paio d'ottave: non si capisce niente di ciò ch'ella balbetta; ma la tombolina balbetta con tanta grazia, che ne son tutti inteneriti, e la levano di lassù a braccia tese, le fanno carezze, la divorano coi baci. Il concerto è finito; si dispongono le mense pei bambini, ai quali è dedicata la festa. La banda di Dusiana intuona la marcia reale, e questo mi piace; ma che dico, mi piace? È una vera trovata. Non sono quei bambini i re dell'avvenire? Godete, bambini, il vostro primo giorno di regno; e non vi manchi corte bandita a tutti gli altri che seguiranno. Noi vi lasciamo alla vostra dolce occupazione, per prendere una boccata d'aria, ed anche uno spuntino, che la cortesia di Terenzio Spazzòli ha fatto servire a noi in un'altra sala della filanda. Finito lo spuntino degli "artisti" e il desinare dei fanciulli, si va nel cortile ad aprire il tiro al bersaglio; tiro di pistola, s'intende. Lo inauguro io, con un centro tanto fatto.
—Ma voi siete un mago!—mi grida la contessa Adriana.—Chi vi potrebbe resistere?
—Oh povero me! per un po' di fortuna!—rispondo umilmente.—Certo, mi sono sempre esercitato, per avere un colpo abbastanza sicuro contro chi mi vuol male.—
Spara a sua volta Filippo, e non fa che centri, puntando a mala pena. Spara anche il divo Terenzio, discretamente bene, cogliendo sempre il bersaglio in vicinanza del centro. Enrico Dal Ciotto, invitato a sparare, si scusa col braccio stanco; del resto, è un po' fuori d'esercizio. Meno geloso dell'arte sua, si prova il Cerinelli, e qualcuna ne indovina. Quanto al Martorana, è una sbercia senz'altro, ed ha il buon gusto di convenirne. Tastato anche quello, e risponde picche. Insomma, sconfitti tutti e tre, i miei fieri satelliti faranno molto a potersi ritirare in disordine.
Enrico Dal Ciotto si rifà un pochettino alla ruota di fortuna, guadagnando al primo numero un servizio da tavola per venticinque persone. È la solita canzonatura di tutte le lotterie; un mazzo di venticinque stecchini. Questo dei premi umoristici, è il caval di battaglia del divo Terenzio, che fa stupendamente da segretario alle signore venditrici. La ruota gira, rigira, senza fermarsi mai, ma non fruttando che premi di pochissimo conto. Delle cose migliori si fanno lotterie particolari, a mezza lira, a una lira al numero. A quella e a queste, poco alla volta, tutta Corsenna si scalda; e mentre qualche bel capo, qualche utile arnese è portato via, i ragazzi del paese fanno bottino di trombette, di zufoli, di tutte le piccole carabattole che i grandi hanno guadagnate, ma regalano loro, non sapendo che farsene.
A me, tra le risate universali, tocca un bavaglino; e dopo una diecina di polizzini bianchi, un altro arnese da bimbi, una cuffina. Son destinato; me lo dicono tutti, ridendo alle mie spalle: ma io non mi spavento per così poco, e inalbero arditamente i miei piccoli trofei. Enrico Dal Ciotto riesce finalmente a vendicarsi della mala fortuna, guadagnando una sveglia, niente di meno. Beato lui! gli servirà per destarsi di buon mattino, il giorno che dovrà far le valigie, che Iddio l'accompagni.
La fiera di beneficenza ci porta via tre ore buone. Oramai non ne possiamo più. Siamo in moto dalle nove del mattino; sentiamo il bisogno di sedere, e non per pochi minuti. Inoltre, lo spuntino del mezzodì non ha fatto altro che aguzzar l'appetito. Gli "artisti" lasciano il teatro delle loro glorie alla vigilanza del segretario comunale, e vanno a desinare all'osteria, piuttosto male, ma non senza buon condimento d'allegrezza. Poi, tant'è, vogliono dare un'ultima occhiata alla fiera, contendersi gli ultimi doni, sentire le ultime suonate della banda di Dusiana. Tutto è venduto, portato via alla fortuna del polizzino; restano i banchi vuoti e la cassa piena. Si son fatte seicento novanta lire; paion poche, e si arrotonda la cifra, quotandoci in parecchi per aggiungerne dieci. S'intende che sono settecento lire nette, da consegnare alla direzione dell'Asilo. Le spese le abbiamo fatte noi villeggianti, così per la banda di Dusiana, come per l'arredamento dello stabile e per l'ordinamento della fiera. Dei doni per la lotteria, i due terzi sono stati regalati dalla contessa Quarneri. Sia detto a sua lode; non diventerà mai una grande attrice; resterà sempre una cortese signora.
Tutti han lavorato quest'oggi; ma un po' meno la signorina Wilson, che non ha voluto assumersi nessuna parte nell'accademia. Si è per contro occupata assai della fiera, in compagnia del commendator Matteini e di Terenzio Spazzòli. Buci ha partecipato largamente a tutto il trattenimento; sempre in moto per la sala del concerto, in quella dello spuntino, alla fiera, all'osteria, poi da capo alla fiera. Sul finir della festa è diventato quasi un personaggio importante. Non ha voluto riconoscere il suo antico padrone, che voleva fargli una carezza, vedendolo così lustro di pelo. Per compenso, non ha nemmeno guardato il suo padrone odierno, e legittimo per virtù di regolare contratto. Due o tre volte, passandomi egli a tiro, m'è tornata la voglia di assestargli una pedata. Ingratissimo cane!
La festa è finita, almeno per quanto riguarda gli "artisti". Ultimi fanno ancora qualche cosa i filarmonici di Dusiana, rumoreggiando per quanto è lungo il paese, e accettando ancora un bicchiere ad ogni frasca, ad ogni bottega, fino a tanto che non giungono davanti alla giardiniera che deve trasportarli a casa loro, madidi di sudore e di vino, ma più d'amore fraterno per i loro buoni vicini di Corsenna, a cui, dopo la loro partenza, non rimangono che le fisarmoniche locali per continuar la gazzarra e ballar sulla piazza. A memoria d'uomini non si è mai visto tanto tripudio in Corsenna. Beneficenza, son questi i tuoi miracoli. E quando poi ti si è fatto onore senza secondi fini, come nel caso presente, per solo amore del nostro simile, con un accordo perfetto tra i promotori, che non ne fu mai tanto tra i suonatori di Dusiana, bisogna proprio andar superbi di noi medesimi, e conchiudere che il mondo non è brutto quanto si dipinge.
Sono le undici, e suonano al cancello. È l'amico Filippo, il buon fratello che arriva, che torna da godersi il resto della serata, nella graziosa compagnia della contessa Adriana. Smettiamo; voglio andarlo a ringraziare di tutto quello che ha fatto per me….
PS. Ma bene, benissimo! Filippo ha lavorato anche lui per la gloria. Ecco le sue parole:
—Rammenterai quel che ti ho detto due giorni dopo il mio arrivo. Bisogna mutar registro. Scoperto l'uomo d'armi, e forse indovinato il violino di spalla, era necessario non aspettare i nostri satelliti, ma andar loro incontro con qualche dimostrazione di forze. Questo si è fatto, più presto e meglio che non ci fosse dato sperare. Anche tu, in una settimana d'esercizio, hai fatto prodigi, e la giornata d'oggi è stata un trionfo per te.
—Sì, ma come mi hai validamente aiutato!—risposi.—E come mi hai cacciato avanti… contro il merito mio!
—No, sai, o ben poco. Ammettiamo pure che non mi avresti dato la prima; quanto al resto, hai fatto il tuo potere, come io facevo il mio. Sei diventato fortissimo, e te ne faccio i miei complimenti. Già, quando si è avuta una buona scuola, non si dimentica più. Sono contento di te, quanto ne saranno scontenti i satelliti della contessa Adriana. Scommetto che se ne vanno entro i sette giorni. Felice mortale, a te.
—Ti ridico per la ventesima volta, che non ne sono innamorato. Sciolta la mia questione d'amor proprio con quei là, penso a lei come al gran cane dei Tartari.
—E allora tanto meglio, o tanto peggio. Avrai tempo e libertà per ardere i classici incensi ad un'altra.
—Ma che! a nessuna, mio caro. Sai pure che il mio poema mi assorbe.
—E dalli col tuo poema;—gridò Filippo, con accento di comica stizza.—Io, vedi, se avessi un poema da finire, e sperassi con fondamento di trovare un editore, lo butterei dalla finestra, il poema, solo per un sorriso della signorina Wilson.
—Che! come?—balbettai.
—Ma tu, fradicio di letteratura, non capisci più niente di niente;—continuò Filippo, infervorato nel suo ragionamento.—Ebbene, tanto meglio; sei uno di meno in giostra. Amo quella ragazza; e se mi riesce, la sposo.
—Ah sì?
—Certamente. Ma ecco,—soggiunge Filippo, rìdendo,—senza volerlo, si casca a ripetere il tuo dialoghetto col signor Enrico Dal Ciotto. Eccoti dunque, mio caro Rinaldo, eccoti dunque il segreto dell'anima mia. Per una volta tanto, sono innamorato morto. E poichè tu vuoi avere tanta gratitudine per me, che non ho fatto niente o ben poco in tuo favore, e perchè, finalmente, una mano lava l'altra, mi farai la grazia di aiutarmi un po' tu, con qualche buon discorsetto preliminare alla mamma.—