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CHAPTER VI
日期:2020-09-23 17:05  点击:283
 Dolenti note.—La pittura italiana.—Pittura di genere, pittura degenere—La quarta figura.—I veristi del Cinquecento.—Vox audita est in Rama.—Finanzieri e ciabattini.—Il fazzoletto di cotone.
 
Vengo alla pittura. Qui non ci batteranno, spero; ci hanno battuti, battuti sonoramente, battuti à plate couture, come si dice sulla faccia del luogo.
 
Parlandovi della esposizione pittorica dell'Italia, amerei farmi intendere appuntino. Ora, per farmi intendere, debbo trovare un paragone con qualche città secondaria; per esempio, con Genova, che certamente non si lagnerà di essere citata dopo Parigi, per ragione d'importanza. E tuttavia, il paragone non reggerebbe. Genova, in alcune esposizioni della sua Società promotrice di Belle Arti, ha avuto delle tele come la Consolatrice degli afflitti di Nicolò Barabino, come la Morte di Alessandro de' Medici del Castagnola, o del Bellucci, come il Bernabò Visconti del Giannetti, e via discorrendo. Ma lasciamo andare; poichè il paragone non m'è venuto esatto, e a trovarne uno migliore dovrei sudarci parecchio, fate conto che l'esposizione pittorica dell'Italia a Parigi sia una delle migliori di Genova, ma senza Castagnola, senza Giannetti, senza Bellucci, senza Barabino.
 
E adesso che vi sarete formati un'idea approssimativa della cosa, intenderete ciò che sono per dirvi. A voler prendere questa per un'esposizione di città provinciale italiana, dove possa anche capitare uno straniero e derivarne qualche giudizio intorno all'arte nostra, si può ammettere che qui ci sia molto; ma, per una esposizione universale, a cui potevamo e dovevamo prepararci come ad una giornata campale, decisiva, in cui potevamo e dovevamo impegnare tutto l'esercito, la prima, la seconda linea, ed anche le riserve, c'è' poco, anzi meno del poco.
 
Ora, questo pochissimo appartiene tutto alla così detta pittura di genere, salvo due o tre quadri che appartengono alla gran pittura…. degenere. Parlo liberamente, perchè non ho peli sulla lingua; e cui non piace mi rincari il fitto. Un valente artista italiano, che ho incontrato l'altro dì nella sala di belle arti della Grecia (un altro paese, che non è tornato ancora all'altezza del nome), mi diceva pietosamente che nei quadri italiani si vede lo studio, l'indagine, la ricerca del vero, il desiderio di trovare una strada, mentre in altre scuole, già più avanti della nostra, si nota il periodo della decadenza, del mestiere ben fatto, ma sempre mestiere. Non ho voluto dirgli di no; mi sono contentato di rispondergli che le scuole di cui parlava erano almeno rappresentate al Campo di Marte da tutti i loro più grandi e più famosi artisti, laddove la nostra aveva il doppio torto di non aver messo tutti i suoi in linea di battaglia. Se ciò fosse stato fatto, chi sa? avremmo forse vinto, certamente sostenuto l'onore della bandiera. Così come ci siamo presentati, facciamo la quarta figura, e tutti coloro che giudicano l'arte del nostro paese dai quadri che sono esposti nella sezione italiana, possono dire queste due cose di noi: che nei meccanismi dell'arte siamo rimasti indietro, e che non ci salviamo neanche per la nobiltà degli intenti.
 
Sento già un'aria di burrasca che consola. Ecco il paladino della grande pittura; della pittura accademica! Sì, signori, della grande pittura; quanto all'accademia, l'ho in un calcetto, ve la regalo, e tanto più volentieri, immaginando che spesso vi accadrà di averne bisogno, per correggere gli errori dei vostri occhi, quando travedono, deturpano, assassinano il vero. Mi si dirà ancora: volete dunque e sempre della pittura storica? Non sempre, sebbene la quantità non guasti; domando dell'arte che miri alto, intesa a contentar l'occhio fin che volete, ma anche a sollevare lo spirito. L'opera che non fa pensare, è un'opera inutile.
 
Del resto, non volete fare della grande pittura? Non ne fate: anzi, buttatevi tutti a imitare il Meissonier, e diventate milionarii, che Iddio vi benedica e i mercanti di quadri vi aiutino! Sia pure arte piccola, ma fatela bene. Diventate maestri in quell'arte
 
Che alluminar è chiamata a Parisi,
 
ma battetevi seriamente, per Dio; ma fatevi ammirare dai Filistei che oggi comandano, col loro buon gusto, nella Terra promessa di Raffaello e di Tiziano, del Correggio e di Leonardo da Vinci. Intanto, che cosa vuol dire che qui a Parigi, al Campo di Marte, tutti, maestri e dilettanti, dotti e ignoranti, connaisseurs…. et américains, vanno in folla e si pigiano nella sezione austriaca? Non già nella francese, signori, per intenerirsi coi Meissonier; non già nella spagnuola, per sdilinquirsi nei Fortuny; nell'austriaca, proprio nell'austriaca, che del resto ci ha poco di buono, ma che ci ha pure un quadro, un quadro solo, un gran quadro, origine e suggello di tutta la sua straordinaria fortuna.
 
Parlo di Giovanni Makart e della sua Entrata di Carlo V in Anversa. Come composizione, il quadro è pieno di difetti; come fattura, manca di originalità. Ma come tutto ciò è compensato! Come tutto ciò si dimentica, alla vista di quella tela smisurata! L'artista ha sentito largamente il soggetto, e questo è già un bel merito, in questi tempi di gretteria applicata alle arti. Poi, sapete che il quadro non l'ha dipinto lui? Vi dico una cosa strana, contro cui protesterebbe volentieri il medesimo autore. Ma il fatto è questo, e non si muta, il quadro gliel'hanno dipinto in due, e tutt'e due italiani, ma del buon tempo antico, Paolo Veronese e Tiziano. Ci pensi l'autore, e finirà col darmi ragione; dirà che non si ricorda bene, che forse dormiva, davanti alla sua composizione abbozzata, e che quei due grandi, non nemici suoi, certamente, hanno approfittato del buon momento, per fargli quel tiro mancino. Benedetti i sonni di un nobile artista, consolati da cosiffatte apparizioni! Io penso con dolore che fra duecento e trecent'anni non si potrà dire, neanche d'un quadro d'artista cinese, che gliel'hanno dipinto due pittori italiani, espositori a Parigi, nella mostra universale del 1878!
 
Tiziano Vecellio e Paolo Veronese! Che si fa celia? Due realisti, due naturalisti, due veristi del tempo loro; che facevano dell'arte larga, dell'arte grandiosa; che volevano lode e fama, anche accettando le commissioni dei potenti, e si sarebbero vergognati di fare un quadruccio, anche quando, non che venderlo ad un borghesuccio arricchito, dovevano regalarlo a qualche poeta di strapazzo, loro compagno di cena.
 
L'arte è così; divina, o nulla. L'arte piccola confina col mestiere, ci fa le sue scorribande, ci piglia gusto (come lo si piglia, pur troppo, in tutte le discese!) e finisce col metterci casa. Io, per me, non intendo l'artista altrimenti che col cuore aperto a tutti i nobili sentimenti, l'anima a tutti gli alti concetti. Quando ama restringere il suo orizzonte, lo stimo ancora, se è bravo; ma lo rimando al disegno industriale, che dopo tutto ha tanto bisogno d'aiuto, per far fruttificare un altro ramo dell'operosità nazionale.
 
«Una voce s'è udita in Rama; è Rachele che piange i suoi figli; e non vuol essere consolata, imperocchè essi non sono più». Così le Scritture. Ed io sono un po' come la biblica Rachele; piango la grand'arte italiana, e non so consolarmi di vederla assente da Parigi. Perchè non è venuta? È così che l'Italia ha tenuto l'invito? Mi dolgo del fatto co' suoi pittori più famosi; ma mi dolgo sopratutto col suo governo, accuso la trascuranza di coloro che erano al potere, quando fu annunziata l'esposizione, indetta la gara di Parigi. Ci voleva tanto a chiamarsi intorno una mezza dozzina dei…. non dozzinali, per sapere se intendevano di concorrere, e all'occorrenza per incitarli a concorrere? Si poteva, per esempio, dir loro in molta confidenza: «lavorate per la solenne occasione: smettete i quadretti di salotto, le pale d'altare, le medaglie a buon fresco, per una volta tanto; fate qualche cosa di grande, che sia degno della mostra universale, dell'Italia e di voi; se i vostri cinque o sei quadri, per la mole loro o per la natura del soggetto, non si venderanno laggiù, penseremo noi, penserà il paese, a cui avrete guadagnata la medaglia d'oro, e, che più monta, assicurata la fama».
 
Sicuro, si poteva dir questo. Ma allora…. allora sedeva sulle cose della pubblica istruzione un uomo…. e su quelle della finanza sedeva un altr'uomo…. Non li nomino, perchè, in fin de' conti, non sono essi solamente i colpevoli, e perchè troppi altri, al posto loro, avrebbero fatto lo stesso. Che serve biasimare Tizio o Caio, quando è tutta la scuola dei nostri uomini politici che ha mestieri di rinnovare il suo credo? In materia di finanza, i nostri uomini politici hanno un poco del ciabattino; voglio dire che adoperano troppo la lesina, salvo a buttarla via, ed anche a rovesciare il bischetto, in un momento di buon umore, che è per solito nella domenica del pareggio, e dura qualche volta tutto il lunedì della sbornia. In materia di istruzione, e per conseguenza anche d'arte, che cosa aspettarti da loro, se non vivono d'arte e coll'arte? Questa è libera, si capisce, e non ha più da mendicare la sua vita da un Augusto, nè da un Leone X. Ma qui, con buona pace dei dottrinarii, abbiamo un fatto nuovo, che non si giudica coi loro vecchi criterii. In quella guisa che le grandi reti ferroviarie e le potenti associazioni di credito hanno dovuto scrollare un tantino l'autorità dell'antico aforismo economico dei fisiocratici «lasciate fare, lasciate passare», così le grandi esposizioni internazionali mutano un poco, per non dir molto a dirittura, le condizioni di assoluta libertà, e di assoluta trascuranza, in cui sono lasciate le arti. Se lo Stato provvede a spese ragguardevoli per concorrere ad una di queste esposizioni, perchè non s'intrometterebbe anche nella bisogna di stimolare i grandi ingegni, che in quelle mostre, in quelle gare d'operosità, possono recare il lustro maggiore e l'aiuto più poderoso? Torno a dirlo; i nostri uomini politici hanno torto; e certuni tra loro, a cui giova il tenere il portafoglio dell'istruzione pubblica, hanno torto marcio a non avere intelletto d'amore per l'arte. Capisco che hanno da godersela coi loro provveditori e colle quistioncelle burocratiche; una nuova classe di sventurati da aumentare e da tormentare; gli istituti tecnici da insidiare e da digerire. Ciò basta alla loro operosità; dopo di che, rimane appena il tempo di spiegare un fazzoletto di cotone e soffiarcisi il naso. Ma ciò non è bello, no, non è bello; nè il trascurar l'arte patria, nè il soffiarsi il naso con un fazzoletto di cotone; specialmente se è giallo.

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