Arte francese.—Cabanel, Durand, Meissonier.—Dumas figlio in libreria.—Povero nudo!—Effetti di colore.—Pei miopi e pei presbiti.—Giusto giudizio sugli Italiani.—Ai pittori dell'avvenire.
E notate, se mai ci fu tempo di vincere, era questo di certo. I francesi, che, un po' con l'arte vera, un po' con l'altra dell'affichage, del bavardage e del colportage giornalistico, hanno ottenuto il primato nella pittura e possono vantarsene da per sè nella lingua più intesa del mondo e nel mercato per tante ragioni più frequentato d'Europa, i francesi, dico, sono nella pittura ciò che molti dei nostri sono diventati nella scoltura, dei faiseurs agréables. Vuoi per una trentina d'anni in cui la Bohème artistica ha spadronato a sua posta, uccidendo coll'arma del ridicolo i classici, vuoi perchè gli Ingres, i Delacroix, i Delaroche, non nascono tutti i giorni, vuoi perchè si fanno volentieri i quadretti quando c'è' un mercante di tele che li compra per rivenderli ai piccoli salotti borghesi, come si fanno volentieri gli articoli spiritosi di giornale quando il gusto del pubblico ha sostituito all'opera pensata i quattro segni quotidiani in punta di penna, il fatto sta ed è che l'arte francese si trova al lumicino. Hanno qui un famoso pittore che travia tutti gli altri con l'amore e con la scienza del piccolo. Non c'è che dire, c'est un grand petit peintre. Dei corazzieri lunghi un dito mignolo, un filosofino, un sergentino, un piccolo posto di guardia, una vedetta da guardarsi col microscopio, ecco le tele del signor Meissonier. Son belle, non lo nego; stanno così bene in un salotto, sopra la spalliera del canapè! Cinquanta centimetri di lunghezza, cinquantamila lire di prezzo, è roba regalata. Dunque, tutti Meissonier; così vuole la moda. Chi non può avere Meissonier, si contenta d'un imitatore fortunato.
Anche il ritratto è in onore e trattato per benino. Cabanel, Carolus Durand, lo stesso Meissonier, lo hanno elevato a dignità di quadro. Ed è naturale che sia così. Come ritratto, si preferisce una bella fotografia del Disdori, o di Numa Blanc, ambedue fotografi sul boulevard des Italiens, e degni di questo centro dell'universo. Dunque, il ritratto a olio deve ricattarsi sugli accessorii, per vivere, e Tiziano Vecellio, Paris Bordene, i grandi ritrattisti del volto, Antonio Vandick, il gran ritrattista del volto e delle mani, possono andarsi a riporre. Per ciò vediamo Alessandro Dumas figlio collocato là dove meno si sarebbe immaginato, in una libreria. Capisco, il Meissonier lo avrà posto in mezzo alle sue commedie e a' suoi romanzi, rilegati alla foggia dei libri vecchi, en reliures d'amateur, come si chiamano qui. Ma tuttavia, Alessandro Dumas figlio, rappresentato in una libreria, lui che ha sempre studiato nel mondo, anzi nel mezzo mondo, allons donc!
Quanto ai ritratti di donna, la pittura ad olio si spiega anche più facilmente. La fotografia non rende l'impasto della carne, e un abito scollacciato vuole la sua mostra di carne. Sappiate impastare le carni, dunque. Ci sono qui molti pittori che fanno assai bene le carni, specie le carni che hanno ricevuta la debita impiastricciatura di cold cream. Per contro, non ce ne sono due che sappiano fare il nudo. La grazia confonde la bellezza e per conseguenza anche la verità. Per amore della grazia, qui si dipingono le Veneri e le Ninfe con un fianco che sporge e l'altro che rientra; Veneri sciancate, a cui Paride non darebbe neanche una fetta del suo pomo. Ninfe zoppe, che nessun Fauno s'attenterebbe d'inseguire, per tema di vederle cadere troppo presto.
Si notano anche le grandi composizioni; e un amico della verità non deve passare sotto silenzio la Salomè, la Sfinge, la Vestale, il Papa Formoso, il Carnefice moresco, l'eccidio di Corinto, l'Entrata di Maometto II in Costantinopoli. Hanno tutte la loro parte di buono, ma il quadro che vi trattenga e vi comandi l'ammirazione non c'è. I più ragguardevoli non sono quasi altro che effetti di colore; piacevoli o no, legittimi o meno, ma effetti di colore. Questa è la malattia degli artisti moderni in Francia, e la si vede anche meglio nei quadri di paese, dove la figura è secondaria e non richiede ombra di disegno, o manca affatto per deliberato proposito dell'artista che rammenta la massima di Teofilo Gautier: «l'homme! ça gâte le paysage». Si dicono veristi, ma in questi loro paesi, in queste loro marine, il vero non c'è; solamente l'effetto del vero, a chi si contenti di guardare in distanza, se è miope. I presbiti soli possono accostarsi; anzi la cosa è espressamente raccomandata.
Il buono c'è, lo ripeto, e mi pare di averlo anche detto in principio; ma poichè l'ottimo è sparito, era questo per l'Italia il tempo di farne lei, presentando cinque o sei quadri, largamente concepiti, magistralmente eseguiti, come sanno fare certuni. Che cosa, infatti, non avremmo potuto sperare se ci fosse stato all'esposizione di Parigi bravamente condotto a olio, il Galileo davanti al Sant'Uffizio, composizione del Barabino, che si ammira a Genova, condotta a fresco, nella palazzina Celesia? un'altra Cacciata del duca d'Atene, opera dell'Ussi, che merita da per sè sola il viaggio di Firenze? o un altro Barbarigo, come quello che il Giannetti ha dipinto a Venezia, per la fondazione Querini Stampalia? J'en passe et des meilleurs, come dico Don Ruy Gomez de Silva.
Come va questa faccenda che nessuno, o quasi, dei nostri grandi pittori di storia ha esposto nulla? Le colpe del governo le ho dette, e senza riguardi; ma ci sono anche le colpe degli artisti sullodati, e mostrerei di aver due pesi e due misure, se non calcassi anche su queste dopo averle accennate di volo nella lettera precedente. Quando si ha un nome nell'arte bisogna essere presenti a tutte le gare, a tutte le battaglie, se non a tutte le feste dell'arte. Non ci sono scuse che tengano; l'Italia non incorona i suoi migliori, perchè essi nelle occasioni solenni se ne rimangano a casa, o si coprano coi pretesti del tempo, che è loro mancato. Noblesse oblige. Però Enrico IV poteva scrivere al duca di Crillon, dopo una giornata campale: «pends-toi, brave Crillon: on s'est battu et tu n'y étais pas». Ma allora il Bearnese aveva vinto, e il rimprovero poteva farsi per celia; qui siamo nel caso contrario, ed io non fo celia, appioppo un rimprovero.
È stata indolenza? è stata paura? A buon conto, i pochi buoni che hanno mandato anche poco, e non del loro meglio, non isfigurano qui. Si guardano con piacere il Ripudio di Giuseppina del Pagliano e la Ragione di Stato del Didioni, una medesima scena colta felicemente da due artisti in due momenti diversi. Sempre uguale alla sua fama l'Induno, di cui si osserva l'Italia nel 1866, bella composizione fra il soldatesco e il campestre, già veduta e degnamente encomiata fra noi. È ammirato il Pasini colle sue scene di Costantinopoli e il Vertunni con le sue Piramidi, la sua Sfinge nel deserto e le sue Paludi pontine. Non cito il Michetti, pittore che mi dicono di vaglia, ma di cui non vedo che un quadro, la Primavera, trasparentissimo di colore, ma troppo bizzarro nel suo concetto allegorico. Lascio il De Nittis che meriterebbe gran lode per le sue brume londinesi e pel suo Ritorno dal bosco di Boulogne, ma che vive da lunga pezza a Parigi e a Londra, e non mi pare di scuola italiana. Il Petit Journal, in una sua esecuzione sommaria di tutti i pittori italiani, non manda salvi che il Pasini e il De Nittis, gabellandoli quasi per artisti francesi, smarriti, a quanto pare, nella sezione italiana.
Quanto al Pasini, mi pare che l'Aristarco francese abbia torto. Il Pasini sarà stato lungamente a Parigi, com'egli afferma; cionondimeno si è conservato un artista italiano. Quanto al De Nittis, non c'è che dire, l'Aristarco francese ha ragione. E ripeterò con lui, quantunque di mala voglia, che le tele del De Nittis rialzano un pochettino l'esposizione italiana, non già la scuola italiana, «car il est trop visible que l'Italie, qui a compté successivement tant d'écoles immortelles, n'en a plus une seule aujourd'hui». E dedico queste linee, che non mi dà l'animo di voltare in lingua nostra, a quei valenti infingardi, che non si sono fatti vivi per l'onore dell'arte nazionale.
Grazie alla loro mancanza, l'Italia è stata sconfitta. Da chi? Vatt'a pesca chi t'ha dato, sarebbe il caso di ripetere con un sonetto del Belli. Per me, credo che da tutti potevamo lasciarci battere, fuorchè dagli austriaci. E quando si pensa che tutto ciò è avvenuto per un pittore, per un solo pittore di più che hanno mostrato loro, e per uno di meno che abbiamo mostrato noi, si corre involontariamente col pensiero a Lissa e a Custoza. In fondo in fondo, è sempre andata così, tra paese e paese. Date ad una nazione due uomini, uno che sappia provvedere, ordinare, preparare, un altro che abbia molta fede in sè, e ne ispiri ne' suoi soldati altrettanta, ed una guerra è vinta, dieci o vent'anni di primato si ottengono. Il mondo, che giudica ogni cosa dall'esito, si contenta di queste prove fortunate; donde la conseguenza che un paese ha mestieri di questi uomini, e guai a lui quando questi uomini non ci sono, o si nascondono.
Si consolino intanto i veristi d'à peu près. Nel paese che più d'ogni altro deve la sua fama pittorica ai veristi, essi hanno avuto la lode che meritano e probabilmente la sola che ambiscono. Cito ancora il famoso articolo del Petit Journal. «Ce ne sont pas les ruines majestueuses de sa grandeur artistique d'autrefois que l'Italie nous invite à contempler; c'est un art tout battant neuf, un art à la mode, qui tient beaucoup du métier et qui a l'éclat tapageur d'une ville de parvenu. Est-ce à dire que… (seguono le citazioni) ne soient pas des oeuvres agréables et amusantes à regarder avec leur papillotement de couleur et l'allure affectée de leurs personnages? Assurement non. Ces imitations de Fortuny tiendraient honorablement leur place dans tout exposition qui ne serait pas l'exposition italienne; mais on s'attriste de les voir, ou plutôt de ne voir qu'elles, dans les envois de la patrie de Raphaël, de Titien et de Veronèse».
Lascio i veristi sullodati, per non guastarmi più il sangue, e parlo ai giovani dell'avvenire. Si diano all'arte grande, se hanno cuore; studino il vero, senza dimenticare i sommi maestri e il modo in cui essi hanno saputo renderci il vero. Imitare per imitare, val meglio andare in traccia dei fulgidi esemplari, per cui l'Italia ha un nome e desta ancora tanta invidia nel mondo.
E quind'innanzi facciamo come fo io, povero profano, che oramai, quando vorrò vedere dell'arte buona, sentire la scossa elettrica del sublime, se sarò a Firenze andrò a Pitti, o agli Uffizii, se sarò a Roma pellegrinerò apostolicamente fino ai Musei Vaticani, se sarò a Parigi come ora, domanderò ospitalità in casa nostra…. al Louvre.