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CHAPTER IX
日期:2020-09-23 17:07  点击:253
 Cortesia da padroni di casa.—La scuola francese.—Un viaggio a ritroso.—Le glorie italiane.—Monna Lisa.—Cristo e la Maddalena.—Le nozze di Cana.—Un saluto a Raffaello.—Il Correggio, Luca Giordano e il Panini.—Un capriccio del Rubens.
 
Che i francesi sappiano essere, col più lieve sforzo di volontà, il popolo più cortese del mondo, è noto per lo meno fin dal giorno 11 maggio del 1745, giorno della battaglia di Fontenoy e del famoso: «messieurs les Anglais, tirez les premiers.» Qui, negli appartamenti del Louvre, la cortesia francese non si è punto sbugiardata. I padroni fanno gli onori di casa; l'arte paesana è tutta nelle prime sale, con la manifesta intenzione di dare all'arte forastiera il luogo più nobile.
 
I maligni potrebbero dire che i francesi fanno così, per non essere ammazzati da tanti capolavori. E i maligni stavolta avrebbero torto. Anche l'arte francese dei secoli andati e del principio di questo può vantare un discreto numero di grandi pittori, che non sfigurano in nessun luogo e davanti a nessun paragone di scuola. Cito il David, autore d'intendimenti classici, fors'anche in parte accademici, come nel Leonida e nelle Spose Sabine, ma pieno del sentimento della natura, come nel parlante ritratto di Pio VII. Cito il Gros, pittore di battaglie napoleoniche, degno illustratore di quella nuova epopea militare; il Girodet, di cui amo l'Endimione e il Seppellimento di Atala, due scene soavi, l'una del classicismo antico, l'altra del romanticismo moderno, sentite con una giustezza non comune da un pittore poeta, che tra romantici e classici intravedeva la pace futura, solo che gli uni buttassero via un po' del loro contegno sforzato e gli altri della loro stravaganza cercata. Giunto tardi per le guerre di scuola, mi commovo pochino pel famoso Radeau de la Méduse di Géricault, che in cinquantanove anni d'esistenza ha avuto il torto di annerire maledettamente, come certi uomini hanno quello d'imbiancare, anche prima di questa età rispettabile. Ma torno ad intenerirmi per Boucher, Watteau, Fragonard, pittori delicatissimi, l'ultimo dei quali è anche notevole per un magnifico impasto di colori; saluto con memore affetto il Poussin e Claudio di Lorena, eccellenti ingegni scaldati al nostro sole, e mi fermo con rispetto davanti ai ritratti di Filippo di Champagne. Il migliore tra questi vi rappresenta il cardinale di Richelieu; di Ricciliù, come dicevano gli storici italiani del tempo.
 
Lo Champagne è un pittore di quel Seicento, che fu così manierato in arte, così amico dei panneggiamenti spezzati e svolazzanti e delle posture acrobatiche; ma del Seicento non ritragge nulla, e lo si direbbe piuttosto un pittore di dugent'anni più addietro, se le foggie de' suoi modelli non tradissero l'età. Lo accusano di freddezza nella composizione, e in generale di poco movimento nelle figure. A me non sembra; ci vedo piuttosto una casta durezza, che non manca di attrattive. Dopo tutto, c'è l'espressione dei volti; e, in un ritratto, che cosa volete di più? Quegli uomini son cupi; quelle dame fanno violenza alle labbra, perchè non ne scatti il sorriso. Malgrado le vesti sfoggiate e i colori smaglianti, la nota allegra non balza fuori dal quadro. Ma pensate che sono re ed uomini di Stato, i quali non hanno mai detto il loro pensiero quando erano vivi, e non debbono dirlo adesso, quantunque la critica storica lo abbia posto in luce di mezzodì; dame e regine che non vogliono lasciarsi sfuggire il segreto di un caro nome, quantunque le cronache ne spiattellino all'occorrenza due e ne lasciano caritatevolmente sospettare fin quattro.
 
I miei complimenti a Filippo di Champagne e passo oltre, chè il tempo è prezioso e la «via lunga ne sospigne» attraverso queste sale infinite, ornate con molta magnificenza, decorate di grandi nomi e tutte provvedute d'una storia. Le tristi e liete avventure di cinque o sei regni, intorno a cui si è esercitata la vena di tanti romanzieri, ebbero qui la loro scena stabile. Non troverete più le porticine segrete per cui passavano i La Mole, o i Buckingam, nè le cateratte per cui scendevano sotterra i letti reali, ad aiutare le sostituzioni di principe; ma vi è lecito di credere che il secolo prosaico ha turate le fessure e ragguagliate le pareti, o che i congegni hanno fatto la ruggine, o che i romanzieri le hanno sballate grosse, intorno a questi pavimenti di legno levigato, a queste pareti, oggi tappezzate di quadri d'ogni forma e misura.
 
Amate sperimentare la forza delle vostre gambe? Non occorre che andiate a piedi da Parigi a Versailles; fate semplicemente il giro degli appartamenti del Louvre, dimenticando anche le sale delle armature, delle miniature, dei cartoni e degli arazzi, che fanno già di per sè stesse la metà del palazzo, e contentandovi di quelle destinate ai quadri, ora andando oltre, ora trattenendovi, all'uopo ritornando indietro, sempre sulle ali, sempre in sospeso, per dare una voltata a destra, ed una a sinistra, secondo i casi e i desiderii improvvisi. Vedete qua e siete per contemplare un Leonardo, ma con la coda dell'occhio avete intravveduto un Correggio che vi domanda la priorità. Un Dolci vi chiama; un Sassoferrato vi attira. E poi, che serve? Navigate nel mare delle Sirene, sempre in mezzo ai Vinci, agli Allegri, ai Raffaelli, ai Tiziani, ai Veronesi, ai Tintoretti, ai Domenichini, ai Guercini, ai Caravaggi, ai Tiepoli, ai Giorgioni, ai Bordoni, ai Pordenoni, ai Caracci, ai Salvator Rosa, ai Giordani, ai Reni, che ve le fiaccano, le reni, e vi riducono peggio di quel Cristo flagellato del Vecellio, che trova tanti copisti al Louvre, degni la più parte di buscarle loro, quelle sonore frustate.
 
Che dirvi dei Perugini, dei Sebastiani del Piombo, degli Antonelli da Messina, dei Mantegna e d'altri della pleiade minore, che qui tuttavia ci hanno il loro meglio e fanno perciò una eccellente figura? Dio mi perdoni, ma qui, davanti ad una pensosa figura di Leonardo da Vinci e accanto a certe scene di ninfe e amorini dell'Albani, ho contemplato lungamente una Annunziata, indovinate di chi? del Vasari. Mi sono rappattumato qui con messer Giorgio degnissimo, il quale mi aveva seccato un pochino a Firenze, colle sue pitture murali nella sala dei Cinquecento.
 
Valorosi artisti d'Italia, come siete ammirati! E come intendo qui facilmente il bene e il male che avete fatto al vostro paese! Il bene con coscienza, il male senza volontà. Pervenuti con voi a tanta eccellenza nell'arte, siamo stati pregiati solamente per questa, e noi medesimi per lunga pezza non abbiamo avuto altra gloria. Fu male; ma la gloria era grande, e ciò serva di scusa. In questo campo abbiamo vinto davvero e per cinque secoli alla fila, col fare largo delle nostre composizioni, la correttezza del nostro disegno, la sicura audacia dei nostri scorci, la potenza dei nostri effetti di luce, il vigore e la pienezza dei nostri colori immortali. Tutti si chiedono anche oggi come facciano a durare certi bianchi e certi incarnati di dugent'anni addietro, come non abbiano certe tinte a rinforzare, certe altre a smarrirsi, mentre i quadri di cinquant'anni fa prendono il nero come le pipe, il giallo del burro stantìo.
 
E l'espressione dei volti! Ho citato Leonardo da Vinci, e torno a lui per quella stupenda Monna Lisa del Giocondo, il cui colore, leggermente scaduto tra il grigio e il violetto, fece dire a Teofilo Gautier che quella deliziosa armonia violacea, quella tonalità astratta, è il vero colorito dell'ideale. Bisogna vedere, anche dopo aver saputo che Leonardo spese quattro anni a dipingere il suo quadro, bisogna vedere il sorriso di quelle labbra e di quegli occhi! Bocca chiusa, occhi tranquilli pure, gli uni e l'altra sorridono. Quella di Monna Lisa è una gioia composta, matronale, profonda. Mi pare che dovrebbe sorridere così la mia patria, se fosse qui, persona viva, in mezzo a tante sue glorie.
 
Badate, l'anima c'è, in tutte queste migliaia di tele; perchè dunque non avrebbero esse la coscienza di ciò che valgono e dell'onore che fanno? Il Cristo del Tiziano, che ho già citato una volta, dimentica perfino di grondar sangue e di avere una corona di spine, per lasciarvi capire che il suo autore era ben degno di farsi raccattare i pennelli da un imperatore. Ce n'è uno di Paolo Veronese, che si lascia rasciugare i piedi nei capegli biondi della più bella creatura di Venezia, e trova il momento per dare un'occhiata agli spettatori ammirati. Hanno un bel dire gli apostoli, che la cosa non va; il Nazareno sorride, pensando che la Maddalena fa bene e Paolo Veronese fa meglio.
 
A proposito di Paolo Veronese, guardate quella vastissima composizione, che va sotto il nome delle Nozze di Cana. Non ignorate che l'artista ci ha ficcato dentro tutti i personaggi più celebri del tempo suo, Vittoria Colonna e suo marito il marchese di Pescara, Francesco I, Eleonora d'Austria, Maria d'Inghilterra, Carlo V, Solimano I, tutti in compagnia di Gesù Cristo al banchetto di Cana, a cui pare s'invitassero anche i migliori artisti di Venezia, poichè ci si vede lui, l'autore, insieme col Tiziano, il Tintoretto, il Bassano, intenti a rallegrare il pranzo con un concertino di viole, di violoncello e di flauto. Tutti i potenti d'Europa son là; par di vedere un Congresso, alla fine dei suoi lavori. Si sono firmati i protocolli; ora si mangia, si beve e si fa un brindisi alla grandezza d'Italia. Vi prego a credere che non è il Congresso di Berlino.
 
Raffaello sublime, quali parole troverò adesso, che sieno degne di te? Fui ospite reverente, in ritardo di tre secoli, nella casa della tua donna, e sulla fede della scritta «Raphaeli Sanctio quae claruit dilecta hic fertur incoluisse» ho passato colà le mie notti più liete di sognatore ad occhi aperti. Nel Pantheon mi sono amaramente doluto di vedere la tua sepoltura e di pensare le tue ossa esposte alle periodiche inondazioni del fiume; imperocchè quelle ossa mi parvero degne di star sigillate in una custodia d'oro, collocate sugli altari, come ciò che avanza delle spoglie mortali d'un Dio. Sarà idolatria; ma senza idolatria non c'è amore. E come non idolatrarti, o divino, quando, correndo l'Europa, tra gente che non ci ama, vediamo da per tutto il tuo nome e la tua mano che ci accompagnano, come lo spirito e la mano di un altro Raffaello accompagnarono sulle sponde del Tigri il figliuol di Tobia?
 
Il Louvre ha molti quadri del Sanzio; parecchi ritratti, un Arcangelo Michele, una Sacra famiglia, che è la più reputata di tutte, e quella Bella Giardiniera, che sarebbe, senza la Trasfigurazione, il superlativo dell'arte. In che consiste la grandezza di Raffaello, che traluce da tutti questi dipinti? Coloritori efficaci come lui, a Venezia; disegnatori, corretti come lui, a Roma; compositori arditi come lui, a Bologna. Ma egli adunò in sè tutti i pregi, che si ammirano sparsi negli altri; ingegno veramente complesso, cavaliero armato di tutto punto, artista così compiuto nei concepimenti e nelle grazie del pennello, come fu uomo compiuto, negli splendori della vita, nella nobiltà del pensiero, nella soavità dell'affetto, nella gloriosa precocità della morte.
 
Ripigliamo terra, che c'è da correre. Non guardo più nulla; nè l'Allegri, che sostiene con due quadri, l'Antiope e una Madonna, il suo gran nome delle gallerie di Dresda e di Parma; nè Luca Giordano, che rammenta qui in piccolo spazio di tela i pregi singolari del suo affresco del palazzo Riccardi a Firenze; nè il Panini, men noto, ma elegantissimo pittore delle moltitudini in festa, le cui ricche composizioni mi avevano già colpito nel Museo nazionale di Napoli. Debbo andar oltre, per contemplare tra gli spagnuoli l'Assunta di Esteban Murillo, una volata nell'ideale, una volata, di cui l'artista non ha mai più raggiunta l'altezza. Ci sono altri quadri del Murillo, bellissimi, stupendi; ma, dopo aver vista l'Assunta, si capisce che sono opere d'un grande ingegno, il quale si contenta di volare a mezz'aria.
 
E dove lascio il Rubens, che, in venti e più quadri di gran mole, racconta col pennello la vita e i miracoli di Maria de' Medici? La vedova di Enrico IV può esser grata al capo della scuola fiamminga. In quelle composizioni ardite e felici, tirate giù alla brava, l'ingegno è buttato a piene mani. È un'epopea, quella Vita di Maria de' Medici, epopea diplomatica, ufficiale quanto si vuole, ma sempre epopea.
 
Del Rubens mi ha trattenuto lungamente un quadretto, la Kermesse. Non è che una festa di villaggio; ma non ricorda punto la maniera di Teniers. Anche qui è il magnifico Rubens, e in questa ridda di bevitori si vede il capriccio immortale d'un grande. Si penserebbe ad Omero, che ha fatto lo scherzo della Batracomiomachia, dopo la solenne fatica dell'Iliade, se non si ricordasse, pur troppo, che il paragone non regge più. Infatti, la critica moderna non ammette che l'autore d'uno di quei poemi possa essere l'autore dell'altro, ed è giunta a tale di erudita sfrontatezza, da negare perfino l'esistenza di Omero.
 
Critica scellerata!

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