Sequitur lamentatio.—Usanze barocche.—Il tempio dell'arte drammatica.—La entième de Hernani.—onorate l'altissimo poeta.—Il bello e il deforme.—I miei classici.
Rimango nei teatri, se non vi spiace, perchè ci ho dell'altro da dirne.
Quella forzata intromissione del rivenditore di biglietti d'ingresso deve sicuramente far comodo a qualcheduno; poniamo agli stessi impresarii teatrali, i quali s'ostinano a tener chiusi fino all'ultim'ora i bureaux de location; ma essa non fa comodo certamente al forastiero, che se ne lagna, nè al parigino, che la tollera. E questa non è la sola tra le noie a cui va incontro chi si reca a teatro. Ugualmente molesta, se non forse di più, è l'istituzione sociale delle ouvreuses de loges; veri sciami d'arpie che infestano tutti i teatri di Parigi. Se non si trattasse che della mancia per un ombrello, una spolverina e uno scialle, di cui l'ouvreuse ha voluto ad ogni costo liberar voi e la vostra signora, meno male; e tanto meno male in una loggia che non somiglia punto alle nostre d'Italia, in una loggia dove siete in sei, ed anche più, non avendo di vostro che la sedia occupata da voi. Ma il guaio grosso è nel modo in cui dovete entrare e rimanere, acciuga infelicissima, nell'anfiteatro…. del teatro.
Si chiama impropriamente anfiteatro una certa escrescenza che fanno i teatri di qui, all'altezza della prima fila dei palchi; specie di mezza luna che si avanza, come una platea sulla platea, ma senza coprirla tutta; che è larga e piena nel mezzo, e si assottiglia a mano a mano sui lati, fino a non dar luogo che per un posto solo. È fatta a scaglioni co' suoi sedili e i suoi cunei, fra mezzo ai quali salgono le gradinate di passaggio, come nei teatri e negli anfiteatri romani; donde il nome che ho detto. Ora, badate a me. I sedili, in questa mezza luna, come nelle altre spartizioni del teatro, son tutti numerati; ma i posti numerati non si sono venduti al bureau de location, bensì negli uffici di rivendita, e a prezzi naturalmente esagerati. Il posto che avete preso, con molto sforzo, al bureau de location, vi dà diritto anch'esso di entrare nell'anfiteatro, ma dipende dalla bontà dell'ouvreuse e dall'argomento ad hominem, cioè, no, ad foeminam, che le avrete fatto luccicare sott'occhio, di ottenere il meno peggio dei posti, inventati lì per lì, la mercè di certe assicelle di legno, collocate di gradino in gradino, tra cuneo e cuneo, o, per parlare il linguaggio del tempo, tra settore e settore. L'ouvreuse, angelo di misericordia, può darvi anche un cuscino, da mettere sull'assicella di legno; ma quel cuscino vi bisogna pagarlo, come avete pagato il servizio di non essere spinto su, coi meno fortunati, nel punto più alto e più lontano della gradinata di passaggio.
Quanto alla gente dei posti numerati, entrata che sia a fare il suo mestiere di acciuga, ha più poca speranza di muoversi. Perchè uno possa uscire, a prendere una boccata d'aria, bisogna che dieci o venti persone, sedute nella gradinata di passaggio più vicina, si alzino l'una dopo l'altra, tolgano il cuscino, sollevino la ribalta, e ad una ad una gli concedano il passo. Immaginate la noia che date, e i moccoli che ognuno attacca, nel santuario della propria coscienza, tutti per voi, e non già per pregarvi del bene. Conchiudo dicendo che questa dell'anfiteatro è un'usanza barocca; quella dell'ouvreuse, che vi presiede e ne approfitta, una invenzione diabolica; e l'una e l'altra non hanno poco contribuito a guastarmi coi teatri francesi.
Ho detto teatri francesi, al plurale, in forma collettiva. Parlando al singolare, abbiamo il Teatro Francese, così detto per antonomasia, che vuol essere eccettuato. La verità avanti ogni cosa, e il Teatro Francese avanti ogni teatro di commedia, di dramma, o di tragedia, che sia di presente in Europa, anzi nel mondo civile. Anch'esso ha la mezza luna e le ouvreuses, forse per dimostrarvi che non c'è niente di perfetto nel mondo sullodato; ma questa imperfezione è largamente compensata dalla abolizione della musica, o, per dire più esattamente, di quel concertino di trombe, violini, violoncelli et similia, che tien luogo d'orchestra in tanti teatri moderni. «Le plus cher de tous les bruits», come lo ha definito in un momento di cattivo umore il Gautier, non vi lacera gli orecchi, sotto pretesto di riempir l'intermezzo; il manico del contrabbasso non si rizza indiscretamente fra voi e gli attori, non si curva curiosamente ad origliare, come un servitore della commedia antica, le conversazioni amorose de' suoi giovani padroni.
Tacerò dello scelto uditorio che assiste alla rappresentazione del Teatro Francese. È un po' cosmopolita, il pubblico di questi ultimi mesi; ed io per conseguenza ho dovuto vederlo tale, alcune sere fa alla centesima rappresentazione dell'Hernani. Per altro, anche questo pubblico cosmopolita, più curioso che intelligente, più stupefatto che buongustaio, sentiva anche lui la maestà dell'ambiente. Questo è il maggior tempio dell'arte drammatica; messe piane non se ne dicono; tutte messe cantate. Molière, Racine, Corneille, sono i canonici più autorevoli del capitolo; seguono pochi altri, ultimi venuti, tra i quali l'Augier; Victor Hugo c'è entrato giovane, di straforo; ma oggi, grazie all'ingegno suo e al consenso del popolo, ha dignità di arcivescovo.
Descrivervi questa centième del dramma di Vittor Hugo, non si può; nè io son uomo da tentar l'impossibile. Vi schicchero alla buona le mie sensazioni, e non tutte, perchè in verità non mi ci raccapezzo; tante furono, e così vive. Anch'io ho dovuto applaudire à tout rompre, incominciando dai guanti; applaudire ripetutamente, furiosamente, come se fossi un romain, uno chevalier du lustre, un clacqueur (tre sinonimi, per dire un applauditore salariato), oppure un romantico della vecchia scuola, un discepolo del Maestro, un Ugolatra, insomma. Sapete che cosa sia, o meglio, che cosa fosse, trent'anni fa, un Ugolatra, e che cosa l'Ugolatria. Vittor Hugo, autore a ventisette anni della famosa prefazione del Cromwell, era detto per eccellenza il Maestro, i fedeli alle sue dottrine, si chiamavano i discepoli, gli apostoli; perfino il modesto luogo in cui si riunivano a spezzare il pane della nuova vita e a sbocconcellare la costoletta dell'amicizia, si chiamava, con nome evangelico, il Cenacolo. Luigi Reybaud, in que' tempi, canzonò gentilmente la nuova religione letteraria nei primi capitoli del suo Jerôme Paturot à la recherche d'une position sociale. E certo l'esagerazione ci fu, non indegna di riso; ma non tutta per colpa dei discepoli di Vittor Hugo; molta invece nel pubblico di certi pretesi classici, ai quali dispiacevano maledettamente gli enjambements del verso nuovo, e che andavano su tutte le furie perchè Donna Sol gridava, in un momento di febbre amorosa, ad Ernani:
Vous êtes mon lion superbe et généreux,
o perchè Don Cesare di Bazan, nel quarto atto del Ruy Blas, diceva d'una vecchia governante:
affreuse compagnonne
Dont la barbe fleurit et dont le nez trognonne.
Ma quale distanza da quei tempi al nostro! Ora quegli sdegni pudicamente accademici non si capiscono più; le celie non hanno più eco; i dardi della critica si sono spuntati; una cosa sola rimane, l'ammirazione del pubblico pel teatro di Vittor Hugo. Stupendo teatro! E come lo si rivedrebbe tutto volentieri, rappresentato da questi valenti artisti della Commedia francese! Cromwel, Marion Delorme, Hernani, Angelo, Marie Tudor, Lucrèce Borgia, Le roi s'amuse, Ruy Blas, Les Burgraves, creazioni immortali! E dire che qualche critico, oggi ancora, fa colpa a Vittor Hugo di aver voluto essere uno Shakespeare! L'ambizione, dopo tutto, era nobile. Ma uno Shakespeare riveduto e corretto; che orrore! Fermiamoci qui e mettiamo in chiaro la faccenda. Non consta da nessun documento che Vittor Hugo abbia mai detto o pensato una cosa simile. È da credersi solamente che chiunque, oggi, foss'anche un altro Shakespeare, si mettesse a scrivere pel teatro, non potrebbe più, nè vorrebbe, dar libero corso a quei getti d'eufimismo che guastano la semplicità del discorso, a quelle trivialità che frammezzano i luoghi sublimi, a quelle sregolatezze d'immaginazione e a quelle licenze di storia e di geografia, che sono come a dire la scoria del prezioso metallo, in cui Shakespeare ha gittate le sue creazioni. E neanche si lascerebbe ingannare da una certa lode che si vuol dare oggi al tragico inglese, di aver badato sopratutto a concentrare la luce del suo genio e l'attenzione dello spettatore su d'un solo personaggio, curandosi meno degli altri e niente affatto degli accessorii; perchè nessuna affermazione, a proposito dello Shakespeare, è più arbitraria di questa, che lo vorrebbe far passare per un esageratore degli antichi, anzi che pel caposcuola dei moderni. Quel concentrarsi dell'azione in un solo carattere non è punto provato, non ha quasi esempio nel teatro dello Shakespeare; il riscontro di due caratteri, o l'antitesi di due passioni, ecco invece la sua novità. La gelosia d'Otello ha il suo contrapposto e il suo risalto nell'amore di Desdemona; l'ambizione di Macbeth deriva i suoi terribili ardimenti da quella di sua moglie; l'amore e la fatalità si contrastano epicamente il campo nel dramma di Romeo e Giulietta; l'amore e il dovere, nella fosca leggenda di Amleto, e così via. O contrasto, o dualità; non si esce di qui, nel teatro dell'inglese. Che cosa ha fatto il francese? Ha allargato il quadro; ha fatto girare più aria, ha dato contorni più ricisi a tutti i suoi personaggi. Figure in luce e figure in ombra, di tutto si è curato con uguale amore, e non meno degli accessorii. Concorrono tutte le parti all'azione? Contribuiscono all'effetto? Aiutano a svolgere la filosofia del dramma? Sì, come è dimostrato ampiamente e luminosamente dall'esito. L'accusa di avere stemperata la forte unità dell'azione shakesperiana, non regge. Il francese, come l'inglese, ha veduto e sentito il dramma nel contrasto. Se egli non esce dal paragone così grande come lo Shakespeare (che ha il merito di essere venuto il primo) ne esce come Vittor Hugo; ed è già qualche cosa. Diamo tempo al tempo; e vedremo il resto, o per dir meglio, vedrà chi sarà vivo.
Parrà strana in me questa abbondanza di lode per uno dei cosidetti novatori. Ma io, se Dio vuole, non sono un fossile. D'altra parte, la tanto decantata insurrezione di Vittor Hugo contro l'estetica antica, è vera come l'altra accusa che dicevo poc'anzi. Il suo teatro è proporzione, misura, euritmia; l'apoteosi del deforme, che altri vuol vedere in alcune accidentalità dei suoi drammi, io non l'ho trovata che nelle prefazioni, in cui qualche volta si compiace ad ingrossare la voce, per metter paura ai Filistei: ad ogni modo, Rigoletto e Quasimodo non sono niente più sciancati e contraffatti di Vulcano e di Tersite, due dissonanze armoniche del gran poema di Omero. E poi, dato e non concesso che il brutto, artisticamente reso, sia il brutto della natura, e che il contrapposto non sia esso medesimo, in giusta misura, una necessità dell'arte, chi vorrà lagnarsi di certi ritorni alla verità, anche quando è volgare? Amico dell'arte antica, io trovo che sono perfettamente compatibili con essa e che anzi le hanno dato qualche volta un risalto maggiore. I grandi d'ogni tempo si son presi le loro libertà; solo gl'imitatori non le intendono, e direi quasi che fanno bene a lasciarle da banda, perchè certe cose non devono essere permesse ai mediocri. I sommi poeti non hanno paura di attingere alle vecchie sorgenti. Dante può esser lui, cioè l'uomo del mondo moderno, chiedendo alle Muse antiche una nuova forma di poesia; classico nell'ordinatezza della sua mente, può scendere al Tartaro con Virgilio, salire in cielo con Esiodo ed Omero. Molte volte le differenze di scuola non sono che alla superfìcie. E perciò io, lasciando stare la quistione se Vittor Hugo abbia violato o no le regole di Laharpe e di tutti i mediocri legislatori del Parnaso, mi consolo di vedere in lui un classico della grande maniera, che è l'unica buona. Quella cura dell'accessorio, che indica l'amante della finitezza, quel parallelismo di caratteri, che denota il cultore dell'euritmia, quella elevatezza di sentimento, che mostra il fautore della bellezza morale, quell'onda di poesia che si svolge, varia e sonora, da tutte quelle scene ammirabili, ed accenna il poeta sublime, mi dànno l'opera compiuta in ogni sua parte, come sapevano pensarla, condurla e finirla, i maestri della mia scuola, i santi del mio calendario.
Con buona pace delle coscienze timorate (perchè ce ne sono ancora, tra i classici di seconda mano) e non importa se con grave scandalo di certa gente chiassona, a cui sembra di aver inventato la polvere, perchè ha trovato una nuova insegna di bottega, io dò a Vittor Hugo il posto suo; lo metto tra i classici.