Don Paolo non doveva rimettersi più di quell'attacco: ma la catastrofe era giudicata lontana.
Passati i primi giorni, lo avevano ricondotto a casa sua, a Pavia; la paralisi si era dichiarata
e sarebbe andata progredendo di giorno in giorno, lentamente, ma inevitabilmente fino all'ultima
estinzione delle forze. Una fine malinconica, ma senza grandi dolori e confortata da molte
illusioni.
Donna Evangelina e l'avvocato Lamberti si erano recati a visitare lo zio; anche il signor Carlo
Giudici era accorso al letto del fratello, dimenticando i vecchi rancori, forse [62]sperando in
un repentino mutamento nelle intenzioni dell'infermo. Son casi che accadono. Più di una volta un
testamento si trasforma completamente negli ultimi giorni di vita e l'erede principale diventa
l'ultimo. I moribondi hanno strani capricci.
Il signor Carlo doveva certo averne fatte di queste saggie considerazioni partendo da Milano. Ma
giunto a Pavia trovò donna Evangelina installata al letto dell'infermo, e s'arrabbiò tanto che
ripartì subito. Non c'era mezzo di snidarli «quegli usurpatori.» Egli si sfogava a chiamarli così
, senza vedere il sorriso fine di donna Evangelina che aveva l'aria di non accorgersi di nulla,
gentilissima e affettuosa con lui come col canonico.
Ma dopo una quindicina di giorni anche donna Evangelina se ne ritornò a Mantova col marito, poich
è don Paolo poteva durare anche un anno, secondo l'opinione del professor Pisani e di tutti i
medici.
[63]
Quanto all'eredità, ella non aveva alcun dubbio. Suo zio Paolo non poteva deluderla; ma zio Carlo
aveva torto di andare in collera con lei: lei non faceva proprio nulla per influenzare il
canonico. Era una simpatia, così; quasi una idea fissa del vecchio poeta. Del resto, dacchè il
suo Fausto doveva sposare Argìa, ella era diventata tanto indifferente a tutto, che non si
sarebbe accasciata per nulla anche se don Paolo avesse cambiato il testamento.
Intanto però il Pisani aveva approfittato della presenza dei genitori di Fausto per stipulare
definitivamente le condizioni del matrimonio; il quale era stato fissato al prossimo carnevale, o
alla Pasqua, secondo lo stato in cui si sarebbe trovato don Paolo.
Altri quindici giorni erano trascorsi così senza alcun avvenimento importante.
Don Paolo, affidato alle cure della sua governante, del nipote Vittorio, e del pronipote [64]
Fausto, e sopratutto del professor Pisani, tirava innanzi come un condannato a morte che aspetta
la grazia.
I due giovani gli dedicavano tutto il tempo di cui potevano disporre. Di solito, essi studiavano
e scrivevano nella vasta camera dell'infermo.
Vittorio recava con sè il suo umore gaio, esilarante; Fausto nascondeva sotto a una dolce
malinconia e una profonda tenerezza, il cordoglio che lo struggeva.
Così diversi d'indole, essi si amavano fin dall'infanzia e si accordavano perfettamente.
Nessun rancore dalla parte di Vittorio: nessun sospetto nel cuore di Fausto.
Giovani, nel vero significato della parola; il cervello pieno di sogni e di speranze sublimi,
erano rimasti estranei alle lotte d'interessi che mettevano tanta freddezza tra le loro
rispettive famiglie; non avevano mai provate le ansie del denaro, gli acuti morsi [65]di
desiderii non potuti soddisfare; le fiere smanie del godere e del comparire.
Creature privilegiate.
In fondo Vittorio poteva stare sicuro che, se Fausto era ricco, a lui non sarebbe mancato mai
nulla; e d'altra parte Fausto poteva credere fermamente che, se tutte le sue ricchezze fossero
sfumate, Vittorio avrebbe diviso con lui anche il frutto del proprio lavoro.
Vittorio aveva ereditato per atavismo il carattere e la mente di don Paolo; gli rassomigliava in
tutto, meno la bellezza. Era poeta come lui, epicureo geniale, amabilmente scettico e
inconsciamente filosofo. Si sentiva disposto alla conquista del mondo; ma se mai tale conquista
gli fosse fallita, era certo di trovare qualche consolazione a tale sventura in sè stesso.... od
in altri.
Se fosse stato bello avrebbe dato tutto il suo cuore a una donna... o alle donne, poichè pure
questo dipende dal caso. Essendo zoppo [66]e sapendosi poco adatto al gusto delle femmine in
generale, avrebbe voluto sfuggirle. Ma non ci riesciva: la vita gli appariva troppo stupida senza
il loro sorriso.
Si sarebbe accontentato di essere il loro amico, il loro confidente, e fantasticava una di quelle
intellettuali amicizie che, talvolta, legano due cuori meglio dell'amore.
Anche quel giorno Vittorio fantasticava, mentre don Paolo dormiva nel suo bel letto di noce
intagliato, sotto al padiglione di raso celeste, e mentre Fausto scriveva.
I suoi pensieri fluttuavano davanti al codice aperto e abbandonato sopra un piccolo tavolino che
gli serviva di provvisoria scrivania nella camera dell'infermo.
Certo non pensava al codice. I suoi occhi spaziavano nell'azzurro immaginario, straniero affatto
al cielo nebbioso dell'autunno pavese.
L'azzurro era per lui nella casa dirimpetto, dove Amelia Pisani accostava di tratto in [67]tratto
il visino alla invetriata di un balcone del primo piano, spiaccicando spietatamente la punta del
suo nasino per fare dei segni bizzarri, delle smorfiette satiriche.
Di tratto in tratto Vittorio le sorrideva, o la minacciava furiosamente col gesto; poi faceva
mostra di rimettersi a studiare; ma l'istante appresso tornava a distrarsi.
All'altra estremità della camera — una camera immensa, riscaldata dal calorifero che dalla
cantina diramava le sue arterie per tutta la casa, e rallegrata dalla fiamma del caminetto —
Fausto scriveva curvo sul suo tavolino.
Aveva da fare un resoconto di clinica.
Il tavolino sul quale scriveva era nel vano di una finestra che dava sulla corte. Egli sedeva
dunque voltando le spalle a Vittorio, alla finestra di strada e alla casa dei Pisani. S'era messo
così per concentrarsi di più. Voleva assorbire tutto il suo spirito nel lavoro; dominare [68]
l'affannosa inquietudine, nasconderla alla chiaroveggenza di Vittorio.
Non aveva preso ancora nessuna risoluzione; o meglio, ne prendeva una tutti i giorni; ma tutte
cadevano sotto la riflessione.
Una sola persisteva a ripresentarsi: la più disperata.
Per essere libero, per non sottostare a veruna influenza esteriore, per avere tutto l'agio di
fare quello che avrebbe risoluto, egli doveva innanzi tutto custodire gelosamente il terribile
segreto: nascondere a tutti gli occhi ciò che avveniva nell'animo suo.
E di questo essenzialmente egli si preoccupava, sebbene gli costasse uno sforzo supremo quella
continua finzione. La sua salute languiva sotto a quel peso: la sua intelligenza, già così
lucida, aveva momenti di tenebre.
E se a forza di torturarsi riesciva a dissimulare il dolore che lo straziava, non era in potere
suo nascondere le occhiaie livide, le [69]guancie pallide e l'evidente stanchezza di tutta la
persona.
Fino a un certo grado tali segni di malessere si potevano attribuire alle notti insonni ed alla
grande inquietudine che doveva cagionargli lo stato di don Paolo.
Ma egli inorridiva di sè notando la crescente indifferenza con cui assisteva il povero vecchio, e
quella sostituzione di causa gli ripugnava.
Per fortuna sua madre era partita. Se fosse rimasta ella gli avrebbe letto nel cuore, e il
crudele segreto si sarebbe forse rivelato da sè medesimo agli occhi vigili e alle affannose
investigazioni dell'inquietudine materna.
Povera mamma sua!
Nella tenace preoccupazione egli si era staccato con una soddisfazione amara da quelle braccia
amorose. Povera mamma! Quanti dispiaceri le aveva dati: quanti doveva dargliene!...
[70]
Prima l'aveva rattristata con la passione delle scienze positive, che a lei, educata a cercare la
pace e la felicità nella sottomissione alle tradizioni, ispirava una specie di terrore; poi,
l'aveva contrariata nel suo desiderio di vederlo unito ad una fanciulla nobile e ricca; infine,
trascinata ad approvare una unioe che a lei non pareva bene assortita... Ah! se ella avesse
saputo fino a qual punto... Ma non doveva saperlo. Egli non voleva. Argìa sarebbe morta ed egli
sarebbe morto con lei portando nella tomba il loro segreto. Nessuno doveva sapere che Argìa non
era degna...
Questi pensieri passavano in turbinante visione traverso lo spirito del giovine medico, mentre la
sua mano correva febbrilmente sopra la carta scrivendo le parole della scienza, che il cervello
connetteva quasi meccanicamente.
Quand'ebbe finito gettò la penna e restò un momento sopra pensiero.
[71]
Poi trasse dal petto una lettera; la spiegò; la lisciò col palmo della mano, la guardò a lungo, e
infine si mise a leggerla, attirato dal fascino misterioso che da essa emanava.
L'aveva già letta parecchie volte; ma il suo spirito vi ritornava sopra continuamente.
«Tu vuoi sapere — scriveva Argìa — il nome di colui; sapere i particolari di un fatto che,
meglio per noi se lo si potesse dimenticare! Il nome conta poco. Quell'uomo è lontano e tu non lo
conosci. Ma i particolari?... È impossibile! Io stessa rifuggo dal ripensarvi, e quando vi penso
provo una vertigine.
«Te l'ho già detto, meglio sarebbe stato che tu mi voltassi le spalle, senz'altro cercare, appena
hai saputo... che non potevo essere tua moglie.
«Abbandonata a me stessa avrei presa una risoluzione, buona o cattiva. Mi sarei buttata dal
ponte, dove il Ticino è più fondo, o sarei fuggita per vivere sola e nascosta con la mia [72]
creatura, che avrei amata forse, malgrado tutto.
«Questa sospensione sull'abisso è più crudele della morte.
«Questa commedia che tu mi hai imposta, questo fingerci in buon accordo, simulando una felicità
che è un incubo, mi fa paura e mi umilia. Quanto più tu sei buono con me, tanto più mi sento
avvilita.
«Ah! se avessi saputo che tu mi amavi così!... Se avessi saputo... Ma tu puoi pensare che io dico
queste cose per avere una scusa ai tuoi occhi e questo mi umilia più di tutto.
«Senti, se fosse possibile l'impossibile, cioè che tu mi sposassi per salvarmi, io mi ammazzerei
piuttosto che accettare. E ti amo sai, ti amo di un amore così grande che non mi par vero di
avere ancora in me la forza di amare tanto. Ma di vera felicità per noi non ce ne può essere,
ormai, in nessuna maniera. Ed io preferisco morire, o vivere sola, [73]lontana, vituperata,
piuttosto che vivere con te pensando sempre alla felicità che non si può avere più. Ho paura che
ti odierei. Vi è dentro di me un sentimento strano di cui non mi rendo conto. Forse è la mia
perversità? In ogni modo è tanto forte questo sentimento, che non lo posso vincere. Devo dirtelo?
«Ti sembrerà mostruoso. Ecco, in fondo, io non mi posso convincere di meritare la morte, nè il
disonore, nè il disprezzo... e meno che mai il perdono che tu potresti accordarmi, un perdono che
intorbidirebbe la fonte di tutte le nostre gioie, un perdono di cui leggerei, sempre, nei tuoi
occhi l'angoscia od il pentimento!...
«Da dove mi vengono questi pensieri? In quali libri li ho letti? Chi me li ha suggeriti?...
«Non so, Fausto; non so. Li ritrovo in me, come erbe maligne cresciute spontaneamente in un orto
mal custodito. Sono pensieri perversi, [74]contrari a tutto quello che mi hanno insegnato; ma non
potrei sradicarli dal mio cervello.
«Certo questo ti deve convincere che io non ero donna per te, in nessun caso. Tu non puoi
stimarmi e il tuo amore non è che una illusione. Io non ero la donna che tu sognavi. Per quanto
ti avessi amato, forse non sarei mai riuscita ad amarti come tu vuoi essere amato. Giustamente
tua madre mi vede di mal'occhio. Ella mi ha intuita: non ero nuora per lei. Meglio così. Questo
convincimento ti guarirà. Sarai ancora felice: io non avrò il rimorso di avere distrutta la tua
vita, la tua felicità.
«Intanto, ti prego, ti supplico: lasciami al mio destino, se non puoi o se non vuoi aiutarmi a
fuggire, o a morire; liberami almeno da questa terribile commedia che tu mi hai imposta: non ne
posso più.
«Anche con tua madre hai voluto che fingessi! [75]Ma perchè? Con quale speranza? Quella finzione
con tua madre mi è pesata oltre ogni dire. Come mi guardava, lei, con quell'aria aristocratica;
come si sforzava ad essere gentile per farti piacere!... Ma neppure lei è nata per simulare.
Sentivo che le ripugnavo. E se non ti avessi data la mia parola di non parlare, le avrei detto:
«Stia tranquilla, non se ne farà niente!» Sono sicura che allora mi avrebbe abbracciata con un
vero slancio di riconoscenza. Povera donna!... Non si è potuta tenere: ha detto, ch'ero veramente
troppo matronale per una fanciulla!
«Oh! Fausto! Per il bene che ti voglio e che tu mi vuoi, finiamola presto questa commedia. Io
soffoco. Presto non mi potrò più nascondere in nessun modo. La gente comincerà a parlare... e
incolperanno te!... Mi sento gelare tutte le volte che mio padre mi guarda. Se si accorge, se lo
piglia la collera, una di quelle sue collere rapide e cieche, è capace [76]di ammazzarmi, o di
ammazzare te, il primo che gli capita! E poi?... Tutta la famiglia disonorata; rovinata per colpa
mia!
«Lasciami partire. Ho pensato. Andrò dalla zia Geltrude a Napoli. Partirò da Milano approfittando
della gita che devo fare la settimana ventura, per certe spese, con mia cugina Carmela. Appena
partita scriverò a mio padre che sono andata via perchè non ti amo e non ti voglio sposare. Tu
gli dirai che sapevi; e a poco a poco, se sarà necessario, gli scriverò tutto. La zia Geltrude mi
nasconderà in qualche luogo. Napoli è grande. Dopo... quando sarò guarita... m'imbarcherò per
l'America del Nord: so un po' d'inglese: so lavorare da sarta: lavorerò; dicono che in America
pagano molto meglio il lavoro delle donne. Mio padre si consolerà... Ha tanti mezzi di
consolazione, lui!... E tu pure, Fausto, tu pure!
«Addio!
«Non credere che io non ti ami!... Ti amo, ti amo...
[77]
«Ma preferisco che tu mi creda fredda amante che desiderosa di scusarmi ai tuoi occhi per farmi
perdonare. Appunto perchè non voglio essere scusata, non te li posso raccontare i particolari che
tu mi chiedi.
«Sii discreto. Io non ti domando nulla a te. Eppure ce li hai anche tu, i tuoi segreti.
Fortunatamente per te, i tuoi non hanno conseguenze. Ho pensato tanto e mi sono convinta che non
vi è altra differenza. Soltanto per questo, io sono colpevole e tu sei innocente.
«Vedi?... Sono così. Consolati, non hai perso nulla di buono: non la donna mite ed inconsapevole:
non la santa e soave compagna.
«Sono quasi tranquilla pensando che mentre ti addoloro, ti do pure un forte rimedio che ti sanerà
.
«Stasera ci vedremo a casa tua. E se non pioverà, quando ci riaccompagnerete tu e Vittorio,
proponi di fare una passeggiata. Vittorio [78]e Amelia correranno avanti come il solito, e noi si
potrà parlare.»
Fausto restò alcuni momenti con gli occhi fissi su quei caratterini minuti; poi ripiegò il foglio
e se lo cacciò nel petto.
Era disperato, sopratutto perchè Argìa aveva ragione: non era donna per lui: non la dolce e
ingenua compagna che egli aveva sognata. Questa convinzione che avrebbe dovuto guarirlo, lo
esasperava.
Invano si ammoniva a dimenticarla. Invano si diceva che avrebbe dovuto aiutarla a partire,
aiutarla a vivere lontana, per quell'affetto amichevole preesistente all'amore, che nulla poteva
cancellare; e non pensarci più.
Perchè non se ne sarebbe consolato? Aveva la famiglia, la scienza, una giovinezza ricca di
entusiasmi. Per distrarsi poteva ricorrere al mezzo più efficace: viaggiare. I denari non gli
mancavano. Se non aveva più voglia di studiare poteva smettere. E nel mondo lontano [79]avrebbe
forse incontrata un'altra fanciulla, candida e serena, con la quale ricominciare il dolce
romanzo, senza rancori, senza vergogne.
Eppure questo non gli giovava.
Con sorda collera, cui si mesceva una specie di terrore, egli doveva riconoscere che la sua
passione era ingigantita dopo l'orribile scoperta. E quanto più si affannava a combatterla, tanto
più cresceva. Non poteva sottrarsi a quel fascino: un fascino acre e penetrante, che si attaccava
ai sensi e allo spirito.
I suoi desiderii d'innamorato si irritavano presso a quella falsa vergine che conosceva le
segrete voluttà dell'amore. E l'istinto dominatore del maschio — fortissimo in lui — si
esasperava di fronte a quella inconscia ribelle.
E quel mistero che non gli era dato squarciare; quell'uomo ignoto, sempre presente al pensiero —
fantasma inafferrabile di un eterno incubo — dava un senso di vertigine, un carattere [80]di
ossessione alle voluttuose visioni che lo perseguitavano.
In mezzo a queste battaglie dei sensi, egli chiamava a soccorso il suo forte intelletto, la
saldezza vigorosa dell'animo suo.
Ma l'aiuto sperato mancava.
Il suo intelletto subiva, come i suoi sensi, una irresistibile attrazione.
Invano l'avevano educato con le massime tradizionali e i pregiudizi di una famiglia severa, nella
quale l'elemento aristocratico e l'elemento borghese si fondevano mirabilmente per formare uno
dei più saldi puntelli della vecchia società. Invano egli aveva portato seco, nel nascere, la sua
parte di eredità atavista nei nervi e nel sangue: invano aveva assorbite fin dall'infanzia le
idee preconcette della provincia e della famiglia. Troppa luce di scienza era entrata nel suo
spirito; troppe nuove idee vi si erano maturate.
E in forza di queste nuove idee, egli la [81]scusava quella colpevole: il giudice diventava
difensore. E a marcio dispetto del proprio istinto di borghese, il giovine studente, già quasi
medico, l'entusiasta adoratore della scienza, sentiva che Argìa aveva ragione di non potersi
convincere che il fallo commesso la rendesse degna di un castigo terribile, nè del disonore, nè
di un perdono umiliante: ragione, di ribellarsi alla confessione particolareggiata ch'egli voleva
da lei. I pensieri che germogliavano, per semplice intuizione, in quella povera anima martoriata,
erano giusti; e nulla avevano in sè di perverso. Erano pensieri e sentimenti derivanti dai
principii scientifici e liberali ch'egli stesso aveva abbracciati con entusiasmo, allorchè non
poteva dubitare di trovarsi in lotta con essi: ignaro dell'enorme differenza che passa tra il
pensare da filosofo e da scienziato, e l'operare da semplice uomo nelle vicissitudini della vita.
Fausto non era un debole, nè un retore, nè [82]uno di quegli uomini condannati a rimanere in
perpetua oscillazione tra una fede e l'altra, tra due opinioni disparate. Egli era forte,
entusiasta, e la sua evoluzione si doveva compiere immancabilmente in un senso o nell'altro.
Ma egli si trovava per la prima volta nell'attanagliante vicenda. E le antiche massime succhiate
col latte, e i pregiudizi necessariamente assorbiti, e l'istinto autocratico di maschio,
fortificato dalla millenaria abitudine delle fibre e dei muscoli, tenevano forte in questo
giovine rampollo della vecchia società, e non potevano mutarsi senza uno schianto di tutto
l'essere.
La gelosia poi irritava il suo orgoglio, nel medesimo tempo che eccitava i suoi sensi; e cercando
ausiliari da per tutto, li trovava appunto nei vigorosi istinti, nelle abitudini ereditarie; e
con essi lo spingeva alla reazione, suscitandogli in cuore un oscuro bisogno di [83]vendetta;
facendo sorgere, nella sua mente scomposta, insensati pensieri di punizione.
Un combattimento mortale questo, titanico; nel quale la volontà impotente si abbandonava volta a
volta al soffio più gagliardo: una lotta capace di sorgere così violenta soltanto in una
organizzazione eccezionale.
Perdonarle, sposarla, la sua povera Argìa; accettare siccome proprio il figliuolo di cui ignorava
il padre: o meglio, fuggire con lei, vivere accanto a lei, nell'appagamento della passione
consumatrice che non poteva divellere dal proprio cuore: ma andare lontano assai, in un paese
sconosciuto, in una terra vergine, dove nessuno gli avrebbe chiesto lo stato di famiglia e le
fedi di nascita, queste catene del mondo civile!
Tale, il voto affannoso del cuore innamorato, la richiesta imperiosa della carne.
Ma l'orgoglio non lo concedeva; ma tutte le altre potenze dell'essere si ribellavano gridando che
sarebbe stata la più codarda viltà.
[84]
Lei stessa, fiera e nobile a sua volta, non avrebbe accettato: lo diceva francamente nella sua
lettera.
Dunque: vivere con lei... No! Abbandonarla?... Neppure.
Una sola uscita si presentava al desolato spirito: un unico scioglimento per quel dilemma: morire
con lei.
La morte livellava tutto: la morte li salvava tutti e due dalla bassezza e dalla disperazione. La
morte, questa fatalità misteriosa che fa dell'uomo un essere predestinato e gl'imprime in fronte
il marchio della sventura, da cui sgorga la sublime pietà e la ineffabile tenerezza: la morte si
presentava a lui come una madre amorosa, che apre le braccia possenti e si stringe al seno i
disperati figliuoli.
Egli si fermava in questa contemplazione e andava inebbriandosene a poco a poco.
Che cosa sarebbe mai stata la vita senza [85]quel rifugio supremo, senza quell'ombra misteriosa
dell'al di là, che mette in così alto rilievo i deboli conati di una breve esistenza?
La invocava; la chiamava amica degli uomini: divina consolatrice.
Per lui veramente essa era l'amore e la libertà.
Debole uomo gli pareva di non poter sciogliere i vincoli che lo legavano alle tradizioni, ai
pregiudizii.
Ma con l'aiuto della morte spezzava tutto!
Mostrava agli uomini il suo disprezzo per una vita schiava ed incompleta: diceva chiaramente a
tutti, che piuttosto di venire a patti con le miserie della vita, con le inevitabili debolezze,
voleva scendere nel sepolcro, libero e forte, e con l'amor suo.
Dunque? Era deciso: sarebbero morti insieme!