E allora, qual è l'elemento personale che il Gozzi ha dato a queste fiabe? Ma, una cosa importantissima: la rappresentazione per mezzo di un intreccio di dramma, per mezzo di personaggi, di dialoghi, di scene: tutto un mondo vivo creato sui vecchi elementi, tutta una serie di opere teatrali che hanno un valore indiscusso per il loro tempo. Drammaturgo, il conte Carlo Gozzi era: e aveva la passione pel teatro penetrata sino alle sue midolla di uomo e di letterato: tutta la vita, malgrado i suoi sonetti, a centinaia, per nozze e per monache, malgrado le sue dissertazioni, egli non è [122]mai stato nè poeta nè critico, ma autore drammatico, niente altro. Il materiale, dunque, fiabesco e la volontà di favorire la truppa Sacchi che egli proteggeva e dove, persino, aveva collocato i suoi amori, oltre che le sue simpatie e le sue amicizie, risvegliarono in lui le più belle qualità di autor comico e drammatico, dettero l'impulso a un ingegno che nel teatro trovava il migliore suo campo. Teatralmente parlando, queste fiabe sono, massime alcune di esse, scritte con vigore, con misura, con evidenza: in due o tre di esse, come la Turandot, come il Corvo, come l'Amore delle tre melarancie, vi è, persino, nella espressione dei caratteri, della psicologia. — [123]Io vi prego di non sorridere! — Noi moderni ci vantiamo assai di essere psicologi, tutti, anche quelli che non sanno di lettere e di arti, anche i semplici scienziati, anche i medici, anche gli avvocati, anche tutti gli umani. Ma fra cento anni, quanto e come l'umanità sarà più psicologa di noi, mentre quelli che vissero cento anni prima di noi eran psicologi senza saperlo e senza pretendervi! Il caro conte Gozzi potea esser presuntuoso ed era, in ben altre cose: ma nel rendere un carattere femminile, nel fare emergere le espressioni di un momento drammatico, servendosi, pur troppo, della rettorica di cento anni fa, egli è efficacissimo e inconsciente della sua forza [124]e della sua efficacia. Le fiabe, infine, sono dei veri drammi nel loro inizio e nel compimento: sono l'agitazione di un mondo di personaggi e di passioni che l'autore ci mostra, cogliendone il lato più significativo, dando di essi e di esse la figura più rassomigliante e il senso più vero.
Vedete, infatti, se nella Turandot che non è punto una fiaba, ma una bella e vera commedia a base drammatica, in questa Turandot dove non sono nè apparizioni, nè negromanti, nè nomini che si cangiano in belve, nè melarancie che contengono una fanciulla, in questa Turandot che è la commedia di una giovanetta fiera e saputella, — una seccatrice, diremmo noi — che non vuole [125]sposarsi perchè odia gli uomini, vedete se l'autor drammatico rifulge! La vecchia istoria dei tre enigmi che il divino Shakespeare ha reso così magnificamente, con tanta onda di poesia, di tenerezza, di passione, nel suo Mercante di Venezia, quei tre enigmi che il presunto sposo della piccola e leggiadra Portia deve risolvere, è servita al Gozzi, per questa Turandot, come servì, più tardi, saran venti anni, a Giuseppe Giacosa per il suo Trionfo d'amore: vecchissima istoria che rimonta, nientemeno, alle Gesta romanorum. Il Gozzi raggiunge, in questa Turandot, il massimo delle sue qualità di autore drammatico, tanto il movimento vi è simpatico, umano, nobile, tanto il fatale [126]dissidio dello spirito della protagonista, vinta nella pruova, che non vuole darsi per vinta e intanto già ama, ha una evidenza che colpisce e trascina il lettore. Per cui questa Turandot piacque tanto allo Schiller che di drammi, se non isbaglio, se ne intendeva: tanto gli piacque da volerne fare una riduzione in tedesco. E dalla medesima Turandot viene tutto il coro di ammirazione che il teatro gozziano ha trovato nella Germania dalla fine del secolo, e nomino nel coro di Lessing, i due Schlegel, il Tieck, tanti altri illustri. Ai tedeschi di allora, non potevano le fiabe di Gozzi non piacere enormemente, tanto corrispondevano, stranamente, al loro nordico [127]gusto: ma è, consentitelo a una adoratrice della verità, nella vita e nell'arte, è un dramma di verità e di passione quello che rivelò ed affermò il talento di Carlo Gozzi.
Ancora un elemento, curioso, portò il Gozzi in questa congerie di bizzarrie novelle che è il mondo fiabesco: ed è, accanto alle figure drammatiche le figure buffe, accanto ai cuori sentimentali gli stomachi capaci, accanto ai martiri dell'amore le spalle fatte per le bastonate, accanto ai principi e alle principesse le maschere italiane, Brighella, Truffaldino, Pantalone, Tartaglia. Costantemente queste quattro maschere a cui si unisce, talvolta, Smeraldina, una maschera femminile, [128]penetrano in tutti gli intrecci drammatici di Gozzi, appariscono nel fondo di ogni scena, si mescolano a ogni scena, e spesso non all'ultimo posto, visto che, nel Re Cervo, Tartaglia, la maschera napoletana, è quasi il protagonista. Talvolta, il dialogo di queste maschere è scritto per esteso, giacchè è troppo necessario al senso della commedia: talvolta è accennato solo, come trama, lasciando che le maschere v'innestino quel che vogliono, pur non disubbidendo alla traccia. E così, questa Commedia dell'arte, onore e gloria comica italiana, diletto di gentiluomini e di popolani, origine di tutto quello che vi è di spontaneo e di vivo nel teatro popolare, si mischia indissolubilmente [129]alla tragedia fiabesca, con tutti i suoi contrasti e i suoi anacronismi. Eppure! Tempo fa, sino a che un ordine molto civile ma poco rispettoso del pittoresco e della leggenda non lo proibisse nei piccoli teatri di Napoli, in due o tre di essi, verso la seconda quindicina di dicembre si inauguravano le rappresentazioni di un mistero religioso che portava per titolo: La nascita del Verbo umanato o il Vero lume fra le ombre. Vi prendevano parte Maria, Giuseppe, gli Angeli, Belfegorre, dei pastori, un grosso dragone spirante fuoco e vi accadevano tutte le scene della Natività, descritte in versi assai strani. Fra i personaggi, vi era un napoletano: non il Pulcinella, giacchè l'autore non aveva [130]osato di spingere l'anacronismo sino al delirio, ma un napoletano Razzullo, che parlava il dialetto, che esclamava, che metteva il suo buon senso pazzo e la sua loquacità meridionale fra le preziosità mistiche di quel misterio. Ebbene, quel Razzullo lì, offendeva la logica, è vero: ma neanche il mistero pretendeva di esser logico, ma al pubblico che si estasiava misticamente innanzi alla umiltà della Madonna, al paziente coraggio di Giuseppe, che s'irritava contro i truci progetti di Belfegorre, quella nota singolare di napoletanesimo piaceva, ed essi ridevano, gli spettatori, dopo essersi commossi! Così, certo al pubblico che si affollava nel piccolo teatro veneziano dove recitava [131]la truppa Sacchi, l'apparizione di Truffaldino in Persia, di Pantalone in Cina e di Smeraldina in Tartaria, doveva parere molto bizzarra, ma non poteva che piacere, come chi rivede, fra gente ignota, un viso noto e, spesso, amato. D'altronde, quei comici che rappresentavano le maschere italiane, erano dei migliori, nelle loro parti: avevano per essi la tradizione e la lunga esperienza, avevano l'affetto degli spettatori. Anacronismo, sì, ma le fiabe erano anche così sorprendenti, per la mancanza di ogni norma umana: anacronismo, ma il meraviglioso regnando in tutto l'intreccio, non era neppur troppo curioso che un bergamasco come Brighella, un veneziano come Pantalone, un napoletano [132]come Tartaglia si trovassero sbalzati ai confini del mondo, in drammi dove il mondo non aveva più confini! Dico ciò per difendere il Gozzi dalle accuse di testa folle, di commediografo squilibrato, di autor drammatico capace di guastare una pura opera d'arte, per compiacere quattro comici. Ritengo che quelle intromissioni così ripugnanti a chi ha l'ossequio della verità, così balzane e quindi antipatiche ai ragionatori posati e tranquilli, non dovessero urtare i nervi di nessuno: salvo di coloro che la gran voce umana di Carlo Goldoni, la voce di uno spirito nobile e di un cuore caldo aveva suggestionati! E, anche, il Gozzi, con sapienza di contrasti, ha [133]mescolato e alternato l'espressione comica, usandone con moderazione, al senso drammatico: egli ha bene inteso che uno spettatore non ama di fremere sempre, dal principio alla fine di un dramma, che la emozione di dolore si stanca e che il soffio di una risata riposa chi ascolta. Le scene delle maschere non sono mai lunghe: esse non sono mai troppo volgari, giacchè il Gozzi schivava la volgarità e addebitava le Baruffe Chiozzotte come una laidezza, al Goldoni: esse hanno sempre, queste scene di maschere, uno scopo, una necessità. Data la sua abilità teatrale, Carlo Gozzi ha potuto tentare questa risurrezione o continuazione dell'antica Commedia dell'arte, senza far inorridire, [134]senza seccare, divertendo. Quest'audacia conservativa equivale alla audacia progressiva di Carlo Goldoni!
Certo, trasportando la questione in una sfera d'idee più ampia, la risurrezione della Commedia dell'arte, anche menomata, anche ridotta a brevissime manifestazioni, anche messa lì solo per bisogno scenico e per contrasto morale, non può non essere giudicato un atto di annichilimento letterario, da parte di un autore. La Commedia dell'arte è la improvvisazione capricciosa di cervelli comici che non vogliono chinarsi a seguire il pensiero dell'altro, dell'autore: è il libito di chi appare sulle scene e sovra una vecchia trama sbiadita cerca mettere i colori di una [135]recitazione naturale: è la sostituzione della coscienza personale dell'attore a quella certamente più elevata e più nobile dell'autore. Non un passo indietro, nella via dell'arte, ma cento, ma mille passi indietro! D'altronde, anche questa Commedia dell'arte, la quale poteva attivare per la sua libertà, per il suo impensato, per l'inatteso personale, finiva per avere le sue formole, le sue stereotipie: anche le scene di amor comico, di ghiottoneria, di spavento, avevano il loro alfabeto e il loro sillabario: e tutto s'immobilizzava in queste formole e la improvvisazione non era che apparente. Ora che un uomo come Carlo Gozzi, vissuto in Venezia, che fu patria, asilo, tradizione della più fulgida [136]arte italiana, cresciuto in un ambiente eminentemente letterario, appartenente a una famiglia dove tutti facevano dei versi, dalla madre agli amici di casa, dalla cognata alla cameriera, abbia potuto così negare il proprio ingegno e l'arte, credendo che un comico qualunque potesse mettere la sua prosetta comune e trita accanto ai versi solenni o teneri gozziani, permettendo che le viete barzellette e i lazzi di Truffaldino, sempre gli stessi, si alternassero liberamente ai lamenti e alle fiere proteste dei suoi protagonisti, non si comprende! Un eterno dissidio regnerà sempre fra il comico e l'autore: quando, ogni tanto, un autore ha la fortuna di essere inteso e reso [137]da un comico, bisogna dire che due fortunate e lontane constellazioni si siano incontrate nel cielo! E viceversa il signor conte Carlo Gozzi, per eccezione, amava troppo i comici: li amava tanto, da cedere loro innanzi, come autore. La Commedia dell'arte riapparsa sulle scene, donde il grande e misconosciuto Carlo Goldoni aveva, con tanta coscienza d'artista, cercato di cacciarla, non solo significava il trionfo di un passato morto e cavato fuori dalla tomba e galvanizzato alla meglio, ma significava la negazione di sè stesso come scrittore e come drammaturgo, significava il proprio avvilimento come un uomo che pensa, che sa, che scrive. Ora se l'egoismo confina con [138]la ferocia, l'altruismo confina con la codardia!