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意语阅读:《达芬奇密码》3
日期:2011-05-03 23:18  点击:241


  La frizzante aria d'aprile sferzava il finestrino aperto della Citroën ZX che correva a sud dopo avere lasciato Place Vendôme. Nel sedile del pas-seggero, Robert Langdon osservava la città passare veloce accanto a lui e cercava di chiarirsi i pensieri. Dopo avere fatto una rapida doccia ed esser-si rasato, il suo aspetto era tornato ragionevolmente presentabile, ma le preoccupazioni gli erano rimaste. La spaventosa immagine del corpo del curatore rimaneva bloccata nella sua mente.


  "Jacques Saunière è morto."


  Langdon non poteva fare a meno di provare un forte senso di perdita per la morte del curatore. Nonostante Saunière avesse fama di essere una sorta di recluso, era facile provare venerazione per lui a causa della sua grande dedizione alle arti. I suoi libri sui codici segreti celati nei quadri di Poussin e Teniers erano tra i testi adottati da Langdon per i suoi corsi. Lui aveva aspettato con ansia l'incontro di quella sera ed era rimasto deluso quando il curatore non era comparso.

  Di nuovo l'immagine del curatore si presentò alla sua mente. "È stato Jacques Saunière a ridursi in quel modo?" Langdon si voltò a guardare dal finestrino, costringendosi a fugare quella visione.


  All'esterno dell'auto, la città cominciava allora a chiudere le sue attività: i venditori ambulanti portavano via i loro carretti di amandes caramellate, i camerieri trasferivano sul marciapiede i sacchi di immondizia, una coppia di innamorati tiratardi si stringeva per riscaldarsi, mentre soffiava il vento profumato di germogli di gelsomino. La Citroën viaggiava con autorità in mezzo al caos: la sua sirena bitonale e dissonante si apriva la strada in


  mezzo al traffico, come un coltello.


  «Le capitaine era molto lieto, quando ha scoperto che lei era ancora a Parigi» disse il poliziotto, parlando per la prima volta da quando avevano lasciato l'hotel. «Una coincidenza fortunata.»


  Langdon si sentiva tutt'altro che fortunato e la coincidenza non era una categoria di cui si fidasse molto. Avendo trascorso la vita a esplorare i col-legamenti nascosti tra i diversi emblemi e le diverse ideologie, vedeva il mondo come una rete di storie e di eventi profondamente intrecciati tra lo-ro. "I collegamenti possono essere invisibili" aveva spesso ripetuto ai suoi allievi di simbologia a Harvard "ma ci sono sempre, sepolti appena sotto la superficie." «Suppongo» disse «che sia stata l'Università americana di Pa-rigi a dirvi dove alloggiavo.»

  Il poliziotto scosse la testa. «L'Interpol.»


  "L'Interpol" pensò Langdon. "Naturalmente." Si era dimenticato che la richiesta, in apparenza innocua, di tutti gli hotel europei di vedere il passa-porto quando ci si registrava per una camera non era solo una stramba formalità del Vecchio Continente, ma era un obbligo di legge. Ogni notte, in tutta l'Europa, i funzionari dell'Interpol potevano individuare con esat-tezza chi dormisse in ciascun albergo. Trovare Langdon al Ritz non dove-va avere richiesto più di cinque secondi.


  Mentre la Citroën accelerava verso sud, comparve la sagoma illuminata della Torre Eiffel, che in lontananza, a destra, svettava verso il cielo scuro della notte. Nel vederla, a Langdon tornò alla mente Vittoria e la scherzosa promessa che si erano scambiati un anno prima, di incontrarsi ogni sei me-si in qualcuno dei punti più romantici del mondo. La Torre Eiffel, pensava Langdon, sarebbe potuta benissimo entrare nell'elenco ma, purtroppo, ave-va baciato per l'ultima volta Vittoria in un rumoroso aeroporto di Roma, più di un anno addietro.


  «L'ha mai montata?» chiese il poliziotto.


  Colto di sorpresa, Langdon si augurò di avere capito male. «Scusi?»


  «È bella, vero?» soggiunse il poliziotto, indicando la Torre Eiffel. «C'è già montato?»


  «No, non sono mai salito sulla torre.»


  «È il simbolo della Francia. Secondo me è perfetta.»


  Langdon annuì senza compromettersi. Gli studiosi di simboli spesso os-servavano come la Francia — paese famoso per il machismo, l'adulterio e i suoi capi di Stato insicuri e di bassa statura come Napoleone e Pipino il Breve — non avrebbe potuto scegliere un simbolo nazionale più adatto di


  quello: un fallo eretto, alto trecento metri.


  Quando raggiunsero l'intersezione con Rue de Rivoli, il semaforo era rosso, ma la Citroën non rallentò. Il tenente Collet accelerò per superare l'incrocio ed entrò in un tratto alberato di Rue de Castiglione, che faceva da ingresso settentrionale ai famosi giardini delle Tuileries. Molti turisti pensavano che il nome "Jardin des Tuileries" si riferisse alle migliaia di tu-lipani che sbocciavano laggiù, ma "Tuileries" si riferiva in realtà a qualco-sa di molto meno romantico. Quel parco era un tempo un enorme scavo, una sorta di sentina malsana della città, da cui i costruttori parigini scava-vano l'argilla per fabbricare le famose tegole rosse parigine, ossia le tuiles.   

  Quando entrarono nei giardini deserti, il tenente Collet infilò la mano sotto il cruscotto e spense l'assordante sirena. Langdon trasse un lungo so-spiro e si godette per qualche istante l'assoluto silenzio. All'esterno dell'au-to, il pallido raggio dei fari alogeni scivolava sulla ghiaia della strada albe-rata del parco e il rumore delle ruote scandiva un ritmo ipnotico. Langdon aveva sempre considerato le Tuileries terreno sacro. Erano i giardini dove Claude Monet aveva sperimentato con la forma e col colore e aveva lette-ralmente ispirato la nascita del movimento impressionista. Quella sera, pe-rò, vi regnava una strana atmosfera minacciosa.


  La Citroën svoltò a sinistra e si diresse a est lungo il boulevard centrale del parco. Dopo avere girato attorno a un laghetto circolare, il poliziotto at-traversò un viale spoglio per entrare in un'ampia piazza quadrata. Langdon vedeva ora la fine delle Tuileries, contrassegnata da un gigantesco arco di pietra.


  L'Arc du Carrousel.


  Nonostante i rituali orgiastici che un tempo si tenevano all'Arc du Car-rousel, gli amanti dell'arte venerano quel luogo per un motivo del tutto di-verso. Dalla piazza in fondo alle Tuileries si possono scorgere quattro dei più importanti musei di belle arti del mondo, uno per ciascun punto cardi-nale della bussola.


  A destra e a sud, al di là della Senna e del Quai Voltaire, Langdon vede-va la facciata scenograficamente illuminata della vecchia stazione ferrovia-ria, oggi il rinomato Musée d'Orsay. A sinistra scorgeva invece la cima dell'ultramoderno Centre Pompidou, che ospitava il museo di Arte moder-na. Dietro di lui, a ovest, sapeva che l'antico obelisco di Ramses si alzava al di sopra degli alberi e contrassegnava la Galerie du Jeu de Paume.


  E davanti a lui, attraverso l'arco, Langdon poteva vedere, adesso il mo-nolitico palazzo rinascimentale che era divenuto il più famoso museo di


  belle arti del mondo.


  Il Musée du Louvre.


  Langdon provò un familiare senso di meraviglia mentre i suoi occhi si sforzavano inutilmente di cogliere l'intera massa dell'edificio. In fondo a una piazza di dimensioni enormi, l'imponente facciata del Louvre si sta-gliava come una cittadella nel cielo parigino. Il Louvre aveva la forma di un enorme ferro di cavallo ed era l'edificio più lungo d'Europa, più di tre Torri Eiffel messe l'una in fila all'altra. Neppure i centomila metri quadri di spazio aperto tra le ali del museo riuscivano a intaccare la maestosità del-l'immensa facciata. Una volta, Langdon aveva percorso l'intero perimetro del Louvre: una stupefacente escursione di cinque chilometri.


  Per poter debitamente apprezzare le 65.300 opere d'arte esposte nell'edi-ficio, si calcolava che un visitatore avrebbe impiegato cinque settimane, ma la maggior parte dei turisti sceglieva l'esperienza abbreviata che Lan-gdon chiamava il "Louvre Light": una corsa attraverso il museo per vedere le tre opere d'arte più famose, la Monna Lisa — o, come era chiamata in vari paesi europei, La Gioconda -, la Venere di Milo e la Vittoria alata. L'umorista Art Buchwald si era una volta vantato di avere visto tutt'e tre i capolavori in cinque minuti e cinquantasei secondi.


  Il poliziotto prese un walkie-talkie e parlò in un francese rapidissimo: «Monsieur Langdon est arrivé. Deux minutes».


  Dall'altoparlante giunse una conferma indecifrabile, una sorta di gracidio coperto dalle scariche.


  Il poliziotto infilò il walkie-talkie nel vano della portiera e si rivolse a Langdon. «Incontrerà il capitaine all'entrata principale.»


  Ignorando le segnalazioni che vietavano alle auto l'accesso alla piazza, accelerò e lanciò la Citroën nella zona pedonale. L'ingresso principale era adesso visibile. Si distingueva in lontananza, circondato da sette fontane triangolari da cui si alzava un getto d'acqua illuminato.   

  La Pyramide.


  Il nuovo ingresso del Louvre parigino era divenuto famoso quanto il museo stesso. La controversa piramide di vetro in stile neomoderno, pro-gettata dall'architetto americano di origine cinese I.M. Pei, suscitava anco-ra l'odio dei tradizionalisti che l'accusavano di distruggere la dignità rina-scimentale dell'insieme. Goethe aveva descritto l'architettura come musica congelata; i detrattori di Pei descrivevano quella piramide come il rumore delle unghie che graffiano la lavagna. Gli ammiratori progressisti, invece, salutavano la piramide trasparente di Pei, alta ventuno metri, come un'ab-


  bagliante sinergia di struttura antica e di tecnologia moderna, un legame simbolico tra il vecchio e il nuovo, che contribuiva a introdurre il Louvre nel millennio appena iniziato.


  «Le piace la nostra piramide?» chiese il tenente Collet.


  Langdon aggrottò la fronte. I francesi, a quanto pareva, amavano fare a-gli americani quel tipo di domande. Naturalmente si trattava di una do-manda a trabocchetto. Se avesse ammesso che la piramide gli piaceva, sa-rebbe stato giudicato un americano privo di gusto; se avesse detto che non gli piaceva avrebbe offeso i francesi.


  «Mitterrand era un uomo di carattere» rispose Langdon, sottolineando la differenza tra l'opera e il committente. Del vecchio presidente francese che aveva commissionato la piramide si diceva che soffrisse del "complesso del faraone". Responsabile d'avere riempito Parigi di obelischi, oggetti d'arte e manufatti egizi, François Mitterrand aveva una propensione tal-mente forte per la cultura egizia da guadagnarsi il nomignolo di "Sfinge", affibbiatogli dai suoi compatrioti.


  «Come si chiama il suo capitano?» chiese Langdon per cambiare argo-mento.


  «Bezu Fache» ripose Collet, mentre si avvicinavano all'ingresso princi-pale. «Noi lo chiamiamo le Taureau.»


  Langdon lo guardò con sorpresa. Che ogni francese avesse un misterioso soprannome animale? «Chiamate il vostro capitano "il Toro"?»


  Collet inarcò le sopracciglia. «Il suo francese è migliore di quanto lei non ammetta, Monsieur Langdon.»   

  "Il mio francese fa schifo" pensò Langdon "ma la mia iconografia zodia-cale è ottima." Taurus era il Toro. L'astrologia era una simbologia costante in tutto il mondo.


  Collet fermò l'auto e indicò un punto tra due fontane: un'ampia porta nel fianco della piramide. «Ecco l'entrata. Buona fortuna, Monsieur.»


  «Lei non viene?»


  «Ho l'ordine di lasciarla qui. Ho un altro lavoro da svolgere.»


  Langdon trasse un sospiro e scese dall'auto. "I registi siete voi e lo spet-tacolo è vostro."


  Collet inserì la marcia e ripartì.


  Rimasto solo a guardare le luci posteriori dell'automobile che si allonta-nava. Langdon rifletté che poteva ancora ripensarci, uscire dal cortile, prendere un taxi e tornare in albergo a dormire. Ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stata una buona idea.


  Mentre si muoveva verso le fontane circondate dalla nebbia, lo studioso aveva l'impressione di avere attraversato una soglia immaginaria e di esse-re finito in un altro mondo. Tornava ad affacciarsi l'impressione che aveva avuto all'inizio, di vivere in un sogno. Venti minuti prima, dormiva in al-bergo. Adesso era davanti a una piramide trasparente costruita dalla Sfinge e aspettava un poliziotto chiamato il Toro.   

  "Sono intrappolato in un quadro di Salvador Dalí" pensò.


  Fece qualche passo e arrivò all'ingresso principale, un'enorme porta gi-revole. Al di là dei vetri si scorgeva il foyer, vuoto e nell'ombra.


  "Che faccio, busso?"


  Si chiese se qualcuno degli stimati egittologi di Harvard avesse mai bus-sato all'ingresso di una piramide e se si fosse aspettato una risposta. Stava per picchiare sul vetro ma, sotto di sé, vide una figura salire la scala. Era un uomo massiccio dai capelli scuri, quasi un Neandertal, con una giacca nera a doppio petto che faticava a contenere le enormi spalle. Saliva con grande sicurezza di sé; aveva le gambe corte e muscolose. In quel momen-to parlava al cellulare, ma terminò la chiamata prima di raggiungere Lan-gdon. Gli fece segno di entrare.


  «Bezu Fache» si presentò quando lo studioso uscì dalla porta girevole. «Capitano della Direzione centrale di polizia giudiziaria.» Il tono di voce era adatto al suo aspetto: un brontolio gutturale, come un'incipiente tempe-sta.


  Langdon gli tese la mano. «Robert Langdon.»


  L'enorme palma di Fache si avvolse attorno alla sua con la forza di una pressa idraulica.


  «Ho visto la foto» disse Langdon. «Il suo agente ha detto che è stato lo stesso Jacques Saunière a...»


  «Signor Langdon» lo interruppe Fache, trafiggendolo con due occhi neri come l'inchiostro. «Ciò che ha visto nella foto è solo l'inizio di quel che ha fatto Saunière.»

 


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