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CAPITOLO VI. PORCO E PEPE.
日期:2021-06-25 16:59  点击:302
 Per qualche istante si mise a guardar la casa, e non sapea che fare, quando ecco un servo in livrea venne frettolosamente dalla foresta—(lo prese per un servitore perchè era in livrea, altrimenti al viso l'avrebbe creduto un pesce),—e picchiò furiosamente all'uscio colle nocche. La porta fu spalancata da un altro servitore in livrea, con una faccia rotonda, e occhi grossi come un ranocchio; ed Alice osservò che entrambi aveano in testa parrucche incipriate ed inanellate. Tutto questo le eccitò la curiosità, e uscì un poco dalla foresta e si mise ad origliare.
 
 
Il Pesce-Servo cavò di sotto il braccio un letterone, grande quasi quanto lui, e lo presentò all'altro, dicendo con voce solenne, "Per la Duchessa. Un invito della Regina per giuocare una partita di croquet." Il Ranocchio-Servo rispose con lo stesso tuono di voce, ma invertendo l'ordine delle parole, "Da parte della Regina. Un invito alla Duchessa per giuocare una partita di croquet."
 
Ed entrambi s'inchinarono sino a terra, e le ciocche de' loro capelli s'imbrogliarono insieme.
 
Alice proruppe in una grossa risata, e dovette internarsi nella foresta per paura di esser sentita; e quando poi tornò ad occhiare, il Pesce-Servo era andato via, e l'altro sedeva a terra press'all'uscio, stralunando stupidamente gli occhi verso il cielo.
 
Alice si avvicinò timidamente alla porta e picchiò.
 
"Non giova punto picchiare," disse il Servo, "e ciò per due ragioni. La prima perchè io stò allo stesso lato dell'uscio dov'ella sta; la seconda perchè di dentro stanno facendo un tale strepito che niuno potrebbe sentirla." E davvero si sentiva un gran rumore nel di dentro—un guaire e uno starnutire non mai interrotti, e di tempo in tempo un gran fracasso, come se un piatto o una caldaia andasse a pezzi.
 
"Di grazia," domandò Alice, "che dovrei fare per entrare?"
 
"Il suo picchiare riuscirebbe a qualche effetto," continuò il Servo senza badare a lei, "se la porta fosse fra noi due. Per esempio se lei fosse dentro, potrebbe picchiare, ed io la farei uscire, capisce." E continuava a guardare il cielo mentre parlava; e ciò pareva proprio scortese ad Alice. "Ma forse non può farne a meno," disse fra sè; "ha gli occhi incastrati sul cranio! Potrebbe però rispondere a qualche domanda—Come potrei fare per entrar dentro?" disse Alice a voce alta.
 
"Io siederò quì," osservò il Servo, "sino a domani——"
 
In quell'istante l'uscio della casa si aprì, e un gran piatto volò verso la testa del Servo, e gli sfiorò il naso, poi andò a sfracellarsi contro a un albero ch'era dietro a lui.
 
"—— o sino a dopo domani, forse," continuò il Servo con la stessa imperturbabilità, come se nulla fosse accaduto.
 
"Come potrei fare per entrar dentro?" gridò di nuovo Alice, ma con voce più forte.
 
"Dovrà ella entrare?" rispose il Servo. "La è questa la quistione principale."
 
E avea ragione; soltanto Alice non volea che le fosse fatta quella domanda. "È orribile," mormorò fra sè, "il modo con cui arguiscono coteste bestie. Mi farebbero impazzare!"
 
Il Servo colse quella propizia opportunità per ripetere l'osservazione con qualche variante: "Io siederò quì, su per giù, per giorni e giorni."
 
"Ma che cosa debbo io fare?" domandò Alice.
 
"Quel che vuole," rispose il Servo, e si mise a zufolare.
 
"È inutile di parlar con lui," disse Alice, tutta disperata: "è un idiota spaccato!" E aprì l'uscio ed entrò.
 
Quell'uscio menava diritto a una cucina spaziosa, da un capo all'altro tutta ripiena di fumo: la Duchessa sedeva nel mezzo sopra uno sgabello a tre piedi, e ninnava un bambino; la cuoca era in faccia al fornello, mestando un calderone che parea pieno di minestra.
 
"Certo c'è troppo pepe in quella minestra!" disse Alice a sè stessa, non potendo rattenere gli starnuti.
 
Ma davvero c'era troppo pepe nell'aria. Anche la Duchessa starnutiva qualche volta; e quanto al bimbo non faceva altro che starnutire e strillava a vicenda senza posa. I soli due esseri che non starnutivano nella cucina, erano la Cuoca, e un grosso gatto che stava accoccolato presso il focolare e ghignando con la bocca, da un orecchio all'altro.
 
"Mi dica, di grazia," domandò Alice, un po' timidamente, perchè non era certa se fosse buona creanza di cominciare a parlare, "perchè il suo gatto ghigna così?"
 
"È un Ghignagatto," rispose la Duchessa, "ecco il perchè. Porco!"
 
Ella pronunziò l'ultima parola con una tale furia che Alice trasalì; ma subito s'accorse che quel titolo era dato al bambino e non già a lei, così si rianimò, e continuò a dire:
 
"Non sapea che i gatti ghignassero a quel modo: anzi non sapea neppure che i gatti potessero ghignare."
 
"Tutti lo possono," rispose la Duchessa; "e la maggior parte ghignano."
 
"Non ne conosco alcuno che faccia il ghigno," replicò Alice con molto rispetto, e contenta ch'era entrata in conversazione.
 
"Voi non sapete molto," disse la Duchessa; "e questo è quanto!"
 
Non piacque punto ad Alice quella risposta secca, e pensò di mutar discorso. Mentre cercava un argomento, la cuoca tolse il calderone della minestra dal fuoco, e tosto si mise a gittar tutto ciò che le stava vicino contro alla Duchessa ed al bambino—pria volarono le molle e la paletta; poi un nembo di casseruole, di piatti e di tondi. La Duchessa non se ne dette per intesa nemmeno quando era colpita; e il bimbo guaiva di già tanto forte che non si poteva sapere se i colpi gli facessero male o no.
 
"Ma faccia attenzione a quel che fa!" gridò Alice, saltando quà e là tutta spaventata. "Addio naso!" continuò a dire, mentre una grossa casseruola volò vicino al naso del mimmo, e poco mancò che non glielo portasse via.
 
"Se ognuno badasse alle proprie faccende," sclamò la Duchessa con voce rauca, "il mondo girerebbe più presto di quello che nol fa ora."
 
"Ciò non sarebbe un bene," disse Alice, lieta di poter far pompa della sua erudizione. "Pensi che confusione farebbe del giorno e della notte! Ella sa che la terra impiega ventiquattro ore per girare intorno al suo asse——"
 
"A proposito di asce!" gridò la Duchessa, "tagliatele il capo!"
 
Alice guardò con ansietà la cuoca per vedere se ella ubbidisse al cenno; ma la cuoca era occupata a dimenare la minestra, e non parea che avesse ascoltato, perciò andò innanzi dicendo: "Ventiquattr'ore, credo; o dodici? Io——"
 
"Oh non mi seccate," disse la Duchessa; "Non ho mai potuto sopportare le cifre!" E rincominciò a cullare il bimbo, cantando una certa Ninna-Nanna, e dandogli una violenta scossa alla fine d'ogni strofa:—
 
"Parla duro al tuo bambino,
Dàgli bòtte se starnuta;
Ei guaisce il malandrino
Perchè il pepe mio rifiuta!
Ei ci annoia co' suoi lai!"
(Coro al quale si uniscono la Cuoca e il bimbo):—
 
"Guai! Guai! Guai! Guai!"
Mentre la Duchessa cantava la seconda strofa, faceva saltare il bimbo su e giù con molta violenza, e il poverino guaiva tanto che Alice appena potette udire le parole della poesia:—
 
"Parlo duro al mio bambino,
Lo sculaccio se starnuta,
Perchè il pepe, il malandrino,
Quando ei vuol, non lo rifiuta.
Ei ci annoia co' suoi lai!"
Coro.
"Guai! Guai! Guai! Guai!"
"Tenete! voi ve lo potrete ninnare un poco se v'aggrada!" disse la Duchessa ad Alice, buttandole il bimbo in braccio. "Bisogna ch'io vada a prepararmi per giuocare una partita a croquet con la Regina," e scappò via. La cuoca le scaraventò addosso una padella, e per poco non la colse.
 
Alice afferrò il bimbo ma con qualche difficoltà, perchè la era una creaturina molto strana; e le sue mani e i suoi piedi guizzavano verso tutt'i lati, "proprio come quell'animaletto marino che si chiama stella," pensò Alice. Il poverino, quando Alice lo prese, stronfiava come una macchina a vapore, e continuava a contorcersi e a stiracchiarsi, di tal che ella ebbe la maggior pena del mondo per tenerlo.
 
Quando la fanciulla trovò la maniera di ninnarlo a modo (e ciò consisteva nell'averlo aggruppato bene come un nodo, e afferrato all'orecchio destro e al piede sinistro, per non permettergli di sciogliersi) lo portò all'aria aperta. "Se non porto via questo bambino meco," osservò Alice, "è certo che qualche giorno l'ammazzeranno; non sarei colpevole d'un assassinio se lo abbandonassi?" Ella pronunziò le ultime parole a voce alta, e il poverino si mise a grugnire per risponderle (non starnutiva più allora). "Non grugnire," disse Alice, "non sta bene esprimersi a quel modo."
 
Il bimbo grugnì di nuovo, e Alice lo guardò con molta ansietà per vedere che avesse. Aveva un naso che s'arricciava troppo, e non c'era dubbio che rassomigliava più a un grugno che a un naso naturale; e poi gli occhi s'impiccolivano tanto che non pareano occhi di bambino: tutto insieme quell'aspetto non piaceva ad Alice punto, punto. "Forse singhiozzava," pensò ella, e riguardò di nuovo a' suoi occhi per vedere se vi fossero lagrime.
 
 
Ma non ce n'erano. "Carino mio, se tu ti trasformi in porcellino," disse Alice seriamente, "non voglio aver più nulla a fare con te. Bada a te dunque!" Il poverino si rimise a singhiozzare (forse grugniva, ma era difficile il distinguere), e andarono innanzi silenziosamente per qualche tempo.
 
Alice aveva appena cominciato a riflettere, "Che cosa ho da fare di questa creatura quando la porterò a casa?" allorchè grugnì di nuovo, e tanto forte, che tutta spaventata si mise a riguardarla in faccia. Questa volta non c'era più dubbio; era un porcellino bell'e buono, ed essa fu persuasa che non c'era più ragione di portarlo oltre.
 
Così depose quella creaturina a terra, e si sentì sollevata quando la vide trottare via quietamente verso la foresta. "Se fosse cresciuto," disse fra sè, "sarebbe stato un bruttissimo ragazzo; ma diventerà, un bellissimo porco, credo." E riandò con la memoria a certi fanciulli che conosceva, i quali potrebbero essere buonissimi porcellini, e stava per dire, "se uno conoscesse il vero modo di mutarli—" quando trasaltò un poco di paura veggendo il Ghignagatto, accoccolato sopra un ramo d'albero, a pochi metri di distanza.
 
Il Gatto fece soltanto un ghigno quando vide Alice. Sembra di buon umore, pensò; ciò non di meno ha le unghie troppo lunghe, ed ha troppi denti, perciò bisognerà trattarlo con molta deferenza.
 
"Ghignamicio," cominciò a dire con un poco di timidità, perchè non sapeva se gli piacesse quel titolo; ciò non di meno egli non fece altro che ghignare più apertamente. "Via, ci ha piacere," pensò Alice, e continuò, "Vorresti dirmi, quale via dovrei infilare da quì?"
 
"Ciò dipende molto dal luogo dove vorresti andare," rispose il Gatto.
 
"Poco importa dove——" disse Alice.
 
"Allora poco importa di sapere quale via dovresti prendere," soggiunse il Gatto.
 
"—— purchè giunga a qualche luogo," riprese Alice, come se volesse spiegarsi meglio.
 
"Oh certo, vi giungerai!" disse il Gatto, "sai il proverbio italiano, 'tanto cammina sino che arriva.'"
 
Alice sentì che quel proverbio non poteva essere contraddetto, e tentò un altra domanda. "Che razza di gente abita in questi dintorni?"
 
"Di là," rispose il Gatto, girando la zampa destra, "abita un Cappellaio; e di quà," indicando con l'altra zampa, "abita una Lepre-marzolina. Visita chi vuoi de' due: sono entrambi matti."
 
"Ma non mi piace d'andare dai matti," osservò Alice.
 
"Oh, non c'è modo d'uscirne," disse il Gatto: "quì siam tutti matti. Io son matto. Tu sei matta."
 
"Come sai ch'io sono matta?" domandò Alice.
 
"Tu devi esserla," disse il Gatto, "altrimenti non saresti venuta quì."
 
Non parve una ragione sufficiente ad Alice, ma pure continuò: "oh come sai che tu sei matto?"
 
"Per cominciare," disse il Gatto, "un cane non è matto. Ne convieni?"
 
"Lo suppongo," rispose Alice.
 
"Bene," continuò il Gatto, "un cane brontola quando è arrabbiato, ed agita la coda quando è contento. Ora io brontolo quando son contento, ed agito la coda quando sono arrabbiato. Dunque son matto."
 
 
"Io direi far le fusa, e non già brontolare," disse Alice.
 
"Dì come vuoi," riprese il Gatto. "Vai tu quest'oggi dalla Regina, a giuocare a croquet?"
 
"Lo desidererei tanto," rispose Alice, "ma non sono stata ancora invitata."
 
"Mi vedrai da lei," disse il Gatto, e sparì.
 
Alice non fu sorpresa da tutto questo: si era di già abituata a veder cose strane. Mentre guardava ancora al ramo dov'era stato il Gatto, eccotelo ricomparire di nuovo.
 
"A proposito, che n'è del bimbo?" disse il Gatto. "Avea dimenticato di domandartene."
 
"Si mutò in porcellino," rispose Alice senza scomporsi, come che il Gatto fosse riapparito in modo naturale.
 
"Me l'ero immaginato," disse il Gatto, e sparì di nuovo.
 
Alice aspettò un poco, mezzo persuasa che riapparisse nuovamente, ma non ricomparve, e pochi istanti dopo si diresse alla via dove abitava la Lepre-marzolina, "Di cappellai ne ho veduti tanti," disse fra sè: "sarà più interessante per me la Lepre-marzolina, e come siamo a Maggio non sarà poi tanto matta da legare—almeno meno matta di quel che l'era nel Marzo." Mentre diceva queste parole, riguardò in alto, ed eccoti di nuovo il Gatto, accoccolato sul ramo d'un albero.
 
 
"Dicesti porcellino o porcellana?" domandò il Gatto.
 
"Dissi porcellino," rispose Alice; "ma ti prego di non apparire e disparire come un lampo: mi fai girare il capo!"
 
"Sta bene," disse il Gatto; e questa volta sparì lentamente; cominciò con la punta della coda, e finì col suo ghigno, e questo restò come una visione sul ramo dopo che tutto era sparito.
 
"Oh bella! Ho veduto spesso un gatto senza ghigno," osservò Alice, "ma un ghigno senza gatto! È la cosa più curiosa ch'io abbia mai veduta in tutta la mia vita!"
 
Non si era dilungata di molto quando si trovò in faccia alla dimora della Lepre-marzolina: pensò che quella fosse proprio la casa, perchè le gole dei camini aveano la forma di orecchie, e il tetto era coperto di pelo. La casa era tanto grande che ella non osò di avvicinarvisi se non dopo aver morsecchiato un poco del fungo che avea nella mano sinistra, e crebbe quasi due piedi di altezza: ciò non la liberò dall'ansietà, e mentre si avvicinava timidamente alla porta, diceva fra sè, "E se poi fosse matto furioso! Quasi quasi vorrei essere andata a trovare il Cappellaio!"

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