Dantès ricevè fra le braccia il nuovo amico aspettato da sì lungo tempo e con tanta impazienza, e lo attirò verso la finestra, affinchè quel poco di giorno che penetrava nel carcere potesse illuminarlo per intero. Questi era un personaggio basso della persona, coi capelli incanutiti piuttosto dai pensieri che dall’età, coll’occhio penetrante, nascosto sotto folte sopracciglia grige, colla barba ancor nera che gli scendeva fino a metà del petto: la magrezza del viso solcato da profonde rughe, le forti linee della sua caratteristica fisonomia, svelavano un uomo più atto ad esercitare le facoltà morali, che le forze fisiche. La fronte del sopraggiunto era coperta di sudore. Quanto alle vesti era impossibile distinguerne la forma primitiva, poichè cadevano in cenci: sembrava avere 65 anni almeno, quantunque una certa vigoria nei suoi movimenti annunciasse aver egli una età minore di quello che faceva vedere la lunga prigionia. Accolse con molto piacere le proteste entusiaste del giovine. La sua anima di ghiaccio sembrò un momento riscaldarsi e dilatarsi al contatto di quest’anima ardente. Egli lo ringraziò della sua cordialità con un certo calore, quantunque fosse stato grande il disinganno di ritrovare un’altra segreta là dove credeva trovar la libertà. — Prima di tutto, diss’egli, vediamo se c’è mezzo di far disparire agli occhi dei carcerieri le tracce del mio passaggio. Tutta la nostra tranquillità futura dipende dalla loro ignoranza di ciò che noi abbiamo fatto. — Allora egli s’inchinò verso l’apertura, sollevò facilmente la pietra ad onta del peso, e la mise al foro. — Questa pietra è stata spostata con molta negligenza, diss’egli, scuotendo la testa; voi dunque non avete utensili?
— E voi? domandò Dantès con sorpresa.
— Ne ho fabbricato qualcuno. Ecco una lima, io ho tutto ciò che mi bisogna: scalpello, coltello e leva.
— Oh! sarei ben curioso di vedere questi prodotti della vostra pazienza e della vostra industria, disse Dantès.
— Ecco lo scalpello; — e gli presentò una lama forte ed aguzza, adattata ad un legno di forma rotonda.
— E con che l’avete fatto? disse Dantès.
— Con una delle traverse del mio letto; con questo istrumento ho scavato tutto il sentiero che mi ha portato fin qui: circa 50 piedi.
— 50 piedi? gridò Dantès con una specie di terrore.
— Parlate a bassa voce, o giovine, parlate più piano, disse lo sconosciuto guardandosi intorno, spesso accade che alle porte delle prigioni si sta in ascolto.
— Ma si sa che io son solo. — Non importa!
— Ed avete scavato 50 piedi per giunger qui?
— Sì, questa è circa la distanza che separa la mia camera dalla vostra, soltanto ho mal calcolato la curva, per mancanza di strumenti di geometria, per poter fare una scala di proporzioni: in vece di 40 piedi di ellissi, ne ho incontrati 50; io credeva, come vi dissi ieri, di giungere fino all’esterno, traforare questo muro, e gettarmi in mare. Ho seguito la lunghezza del corridore che mette nella vostra camera, invece di passarvi al di sotto. Tutto il mio lavoro però è perduto, dappoichè questo corridore mette capo in un cortile pieno di guardie.
— È vero, disse Dantès, ma esso non fiancheggia che un lato della mia camera, e questa ne ha quattro.
— Sì, senza dubbio; ma eccone uno il cui muro è formato dallo scoglio: vi abbisognerebbero dieci anni di lavoro, e minatori forniti di tutti gli utensili per traforare la roccia. Quest’altro deve essere addosso ai fondamenti dell’appartamento del governatore: noi riusciremmo nelle cantine che certamente sono chiuse a chiave, e saremmo presi. L’altro lato dà... aspettate... e dove mette quest’altro lato?
Questo lato era quello in cui stava scavata la feritoia, attraverso la quale penetrava la luce: feritoia, che andava [68] sempre ristringendosi fino al punto in cui dava passaggio al giorno, e per la quale un fanciullo, per quanto piccolo, non avrebbe certamente potuto passare; e per soprappiù guernita da tre ranghi di sbarre di ferro che potevano rassicurare il carceriere più sospettoso sul timore di una evasione per questa parte. Ciò nonostante il nuovo arrivato facendo questa domanda, trascinò la tavola al di sotto della finestra.
— Salite su questa tavola, disse a Dantès. Dantès obbedì, salì sulla tavola e, indovinando la mente del compagno, appoggiò il dorso al muro e gli presentò le due mani incrociate. Il suo compagno salì allora, più lestamente di quello che avrebbe potuto far credere la sua età, e con un’abilità da gatto, balzò sulla tavola, poi dalla tavola sulle mani di Dantès, quindi dalle mani sulle spalle. Così curvato in due, perchè la volta del carcere gl’impediva di raddrizzarsi, introdusse la testa tra il primo rango delle sbarre e potè allora fissare lo sguardo dall’alto in basso. Un momento dopo ritirò pesantemente la testa. — Oh! oh! diss’egli, io ne dubitava. — E si lasciò andare strisciando lungo il corpo di Dantès sulla tavola, e dalla tavola balzò in terra.
— E di che cosa dubitavate? domandò Edmondo saltando anch’egli dalla tavola dopo di lui.
Il vecchio prigioniero meditava. — Sì, diss’egli, è così; il quarto lato del vostro carcere mette sopra una galleria esterna, che è una specie di strada di perlustrazione, per la quale passano le pattuglie ed ove sono poste le sentinelle.
— Ne siete ben sicuro? — Ho veduto il cappello del soldato e la punta della sua baionetta, e pel timore di essere veduto da lui mi son così presto ritirato. — E così? disse Dantès.
— E così, vedete bene, che è affatto impossibile di fuggire dal vostro carcere.
— Allora?... continuò il giovinotto con un mesto accento interrogatore. — Allora, disse il vecchio prigioniero, sia fatta la volontà di Dio; — ed un’aria di profonda rassegnazione comparve sopra i lineamenti del vecchio. Dantès guardò quest’uomo, che rinunciava in tal modo e con tanta filosofia ad una speranza nudrita da sì lungo tempo con una sorpresa mista ad ammirazione.
— Ora volete voi dirmi chi siete? domandò Dantès.
— Oh! mio Dio! sì, se ciò può importarvi.
— Potete esser buono a consolarmi e sostenermi, poichè mi sembrate forte in mezzo ai forti.
Lo scienziato sorrise tristamente.
— Io sono Faria, diss’egli, prigioniero fino dal 1811, come voi sapete, in questo castello d’If; ma erano già tre anni ch’era tenuto racchiuso nella fortezza di Fenestrelles. Nel 1811 fui trasportato dal Piemonte in Francia. Allora seppi che il destino in quell’epoca sorridente a Napoleone gli aveva concesso un figlio al quale era stato dato il titolo di Re di Roma: ero ben lungi dal dubitare allora ciò che mi avete detto ieri: cioè che quattr’anni dopo questo gran colosso sarebbe stato rovesciato. E chi regna adesso in Francia? Forse Napoleone II?
— No, Luigi XVIII.
— Luigi XVIII! il fratello di Luigi XVI? i decreti del cielo son ben reconditi e misteriosi! qual è dunque la mente della provvidenza, quando abbassa l’uomo che aveva esaltato, ed esalta quello che aveva abbassato?
Dantès seguiva collo sguardo quest’uomo che dimenticava un momento il proprio destino, per preoccuparsi così di quelli del mondo.
— Sì, sì, continuò egli, è come in Inghilterra; dopo Carlo I, Cromwell; dopo Cromwell Carlo II, e forse dopo Giacomo II, un principe d’Orange... I segreti di Dio sono imperscrutabili, e la serie delle umane vicende imprevedibile, voi siete ancor giovine, e potrete vedere....
— Sì, purchè io esca di qui.
— Ah! è giusto, disse Faria, noi siamo prigionieri; qualche volta lo dimentico, perchè i miei occhi penetrano al di fuori di queste muraglie che ci racchiudono, e mi credo in libertà.
— Ma perchè siete prigione?
— Perchè ho sognato nel 1807 il disegno che Napoleone ha tentato di porre ad effetto nel 1811.
E il vecchio abbassò la testa. Dantès non capiva come un uomo poteva arrischiare la vita per simili faccende, è vero però che, se egli conosceva Napoleone per avergli parlato una volta, non sapeva quali ne fossero stati i disegni.
— Non siete voi... infermo? domandò Dantès che cominciava a partecipare dell’opinione generale che si aveva di lui nel castello d’If.
— Infermo? vorrete dir pazzo perchè come tale son tenuto in questo luogo.
— Io non osava dirlo, rispose Dantès sorridendo.
[69]
— Sì, sì, continuò Faria con amaro sorriso, sì, sono io che passo per pazzo; sono io che diverto da lungo tempo gli ospiti di questa prigione, e rallegrerei i fanciulletti, se vi fossero fanciulletti nel soggiorno del dolore senza speranza.
Dantès rimase un momento immobile e muto.
— Così voi ora rinunciate alla fuga? gli disse.
— Io credo la fuga impossibile; è un rivoltarsi contro Dio il tentare ciò che Dio non vuole che si compia.
— Perchè scorarvi? sarebbe troppo domandare alla Provvidenza di riuscire al primo tentativo! Non potete voi ricominciare da un’altra parte ciò che avete fatto da questa?
— Ma voi non sapete ciò che ho fatto, per parlare in tal modo di ricominciare? non sapete che mi sono abbisognati quattro anni per fabbricare gli utensili che posseggo, che da due anni gratto, e foro una terra dura come il granito? non sapete che mi è bisognato sminuzzar delle pietre tali, che avrei creduto non aver la forza di smuovere? che delle giornate intere sono passate in questo lavoro gigantesco, e qualche sera mi reputava felice solo per aver potuto levare un pollice quadrato di vecchio cemento divenuto duro quanto la pietra stessa? non sapete che per riporre tutta questa terra, tutti questi rottami, e queste pietre che spostava, fui costretto di fare un’apertura sotto la volta di una scala, nel vuoto della quale ho nascosto quanto scavava dal foro, ed ora questo vuoto è ripieno e non saprei più ove mettere un pugno di polvere? non sapete finalmente che mi credeva di toccare la fine del mio lavoro cui mi sentiva appena la forza di compiere, ed ecco che Dio non solo mi ha allontanato la meta, ma l’ha trasportata non so dove? ah! io ve l’ho detto, e ve lo ripeto, d’ora innanzi non farò più niente per tentare di riacquistare la mia libertà, poichè vedo che la volontà di Dio è, ch’ella sia perduta per sempre.
Edmondo abbassò la testa per non confessare a quest’uomo che, la gioia di avere un compagno, gl’impediva di prendere quella parte, che avrebbe dovuto, al dolore provato dal prigioniero per non essersi potuto salvare. Faria si lasciò andare sul letto di Edmondo il quale restò ritto in piedi. Il giovine non aveva mai pensato alla fuga. Vi sono di quelle cose che sembrano talmente impossibili che non si ha neppur l’idea di tentarle e che si evitano come per istinto. Scavare 50 piedi sotto terra, consacrare a questa operazione un lavoro di due anni, per giungere, se riesce, sopra un precipizio che mette a picco sul mare; precipitarsi da 50, 60, e forse 100 piedi d’altezza, infrangersi la testa sur uno scoglio nella caduta, se la palla di una sentinella non vi ha colto prima, essere obbligato, se si giunge a superare tutti questi pericoli, di fare una lega nuotando, tutto ciò era troppo, per non rassegnarvisi, e noi abbiamo veduto che Dantès aveva già spinta questa rassegnazione fino alla morte.
Ma ora che il giovine aveva veduto un vecchio attaccarsi alla vita con tanta energia e dargli l’esempio delle risoluzioni disperate, egli si mise a riflettere e a misurare il suo coraggio. Un altro aveva tentato ciò ch’egli non aveva avuto neppur l’idea di pensare; un altro meno forte, meno destro di lui, si era procurato a forza di criterio e di pazienza tutti gl’istrumenti di cui abbisognava per questa incredibile operazione, che era andata a vuoto solo per una misura mal presa; un altro aveva fatto tutto ciò: nulla dunque doveva essere impossibile a Dantès. Faria aveva traforato 50 piedi, egli ne traforerebbe 100. Faria a 50 anni aveva impiegato due anni al lavoro, egli che aveva la metà degli anni di Faria ne impiegherebbe quattro. Faria scienziato, uomo di studi, non aveva avuto timore di rischiare la traversata dal castello d’If all’isola di Daume, di Ratonneau e di Lemaire; egli, Edmondo marinaro, egli, Dantès, l’ardito nuotatore che era stato tante volte a cercare un ramo di corallo nel fondo del mare, esiterebbe dunque a fare una lega nuotando? quanto tempo abbisogna per fare una lega nuotando? un’ora. Ebbene! non era stato tante volte delle ore intere in mare senza por piede sulla riva? No, no, Dantès non aveva bisogno che di essere incoraggiato dall’esempio. Dantès farà tutto ciò che un altro ha fatto, o avrebbe potuto fare. E Edmondo riflettè un momento.
— Io ho trovato ciò che cercate, diss’egli al vecchio.
Faria rabbrividì. — Voi? disse, rialzando la testa in un modo che faceva conoscere che, se Dantès diceva la verità, lo scoramento del suo compagno non sarebbe stato di lunga durata. — Voi? vediamo dunque il vostro ritrovato?
— Il corridore che avete fiancheggiato per venire dalla vostra prigione fin qui, si estende nella stessa direzione della galleria esterna, n’è vero? — Sì. — Non [70] deve dunque esserne lontano che circa 15 passi? — A dir molto.
— Ebbene! verso la metà del corridore noi foriamo un cammino che lo attraversa a guisa di croce; questa volta voi prendete meglio le vostre misure; noi mettiamo capo sulla galleria esterna, uccidiamo la sentinella, ed evadiamo. Perchè questo disegno riesca non vi bisogna che coraggio, e voi ne avete; che vigore, ed io non ne manco; di pazienza non parlo, voi avete dato le vostre prove, io darò le mie.
— Un momento, rispose Faria, voi non avete saputo mio caro compagno di qual genere è il mio coraggio e qual uso io conti di fare della mia forza; circa la pazienza, credo di essere stato abbastanza paziente ricominciando ogni notte il lavoro del giorno. Ma allora, ascoltatemi bene o giovine, era perchè mi sembrava che io avrei servito Dio liberando una delle sue creature, che essendo innocente, non aveva potuto essere condannata.
— Ebbene? domandò Dantès, la cosa è allo stesso punto nè più nè meno, vi siete conosciuto forse colpevole da che mi avete incontrato, ditelo?
— No, ma io non voglio divenirlo; fin qui io credeva di non aver che fare che con le cose, ora proponete di aver che fare con uomini. Io ho potuto benissimo traforare un muro e distruggere una scala, ma non potrei traforare un petto, nè distruggere un’esistenza.
Dantès fece un leggiero movimento di sorpresa.
— Come, diss’egli, potendo diventar libero, ve ne asterreste per un simile scrupolo?
— Ma e voi, disse Faria, perchè non avete una sera accoppato il carceriere con un piede del vostro tavolino, e rivestito dei suoi abiti tentato di fuggire?
— Perchè non me n’è venuta l’idea, disse Dantès.
— Egli è perchè voi sentite per un simil delitto un tale orrore instintivo, che non ci avete nemmen pensato, rispose il vecchio; perchè nelle cose semplici e permesse i nostri naturali appetiti ci avvertono di non uscir dalla linea del dovere. La tigre che versa il sangue per natura, non ha bisogno che di una cosa, ed è che il suo odorato l’avverta che vi è preda alla sua portata; tosto si slancia verso questa preda; vi piomba sopra, e la sbrana; questo è il suo istinto, ella vi obbedisce; ma l’uomo al contrario ripugna al sangue, non sono le leggi sociali che proscrivono l’omicidio, sono le leggi naturali che lo rigettano. — Dantès rimase confuso: ciò spiegava perfettamente quanto era passato nella sua anima ad insaputa di lui.
— E poi, continuò Faria, da 12 anni circa che sono in prigione, ho ripassato col mio spirito tutte le più celebri evasioni; non ho veduto riuscire le violenti, che molto raramente. L’evasioni fortunate, l’evasioni coronate da un pieno successo, sono quelle meditate con giudizio, preparate con lentezza; così il duca de Beaufort fuggì dal castello di Vincennes, Dubuquoi dal forte l’Evèque, e Latude dalla Bastiglia. Vi sono ancor quelle che possono essere offerte dal caso; queste sono le migliori; aspettiamo un’occasione, credetemi, e se si presenta, approfittiamone.
— Voi avete potuto aspettare, disse Dantès sospirando; questo lavoro vi teneva sempre occupato, e quando non avevate lavoro per distrarvi, avevate le vostre speranze per consolarvi. — È vero disse Faria sorridendo, e poi avevo un’altra occupazione. — Che facevate dunque?
— Studiava e scriveva. — Vi davano dunque carta, penne ed inchiostro? — No, ma io me ne faceva.
— Vi facevate della carta, delle penne e dell’inchiostro? gridò Dantès. — Sì.
Dantès guardò quest’uomo con ammirazione; ma però stentava a credere ciò ch’egli diceva; Faria si accorse di questo dubbio:
— Quando verrete a trovarmi, gli disse, vi mostrerò una opera intera, risultato dei pensieri, delle ricerche e delle riflessioni di tutta la mia vita, opera che io avevo meditata all’ombra del Colosseo in Roma, ai piedi della colonna di S. Marco a Venezia, sulle rive dell’Arno a Firenze, e non avrei mai pensato che i miei carcerieri mi avrebbero un giorno lasciato il comodo di eseguirla fra le quattro mura del castello d’If. È un’opera eminentemente filosofica che formerà un grosso volume in 4º.
— E voi l’avete scritta?
— Sopra due camice: ho inventato una preparazione che rende la tela liscia come la pergamena. — Siete dunque chimico? — Un poco. Ho conosciuto Lavoisier, e sono stato amico di Cabanis. — Ma per una simile opera avrete dovuto consultare molti autori; avevate dunque dei libri?
— A Roma aveva quasi cinque mila volumi nella mia biblioteca ed a furia di [71] leggere e di rileggere, ho scoperto che con 150 opere bene scelte si ha, se non il riassunto completo delle umane cognizioni, almeno tutto ciò che è utile all’uomo a sapersi: ho consacrato tre anni della mia vita a leggere e rileggere questi 150 volumi, di modo che li sapeva a memoria quando fui arrestato. Per tal modo con un leggero sforzo di mente li ho richiamati tutti al pensiero, ed io potrei quasi recitarvi alla lettera Senofonte, Plutarco, Tito Livio, Tacito, Strada, Dante, Montaigne, Shakespeare, Spinoza, Macchiavelli e Bossuet: non vi cito che i più importanti.
— Voi dunque conoscete diverse lingue?
— Parlo cinque lingue viventi, il tedesco, il francese, l’italiano, l’inglese e lo spagnuolo; coll’aiuto del greco antico intendo bene il greco moderno; solo lo parlo un poco male, ma lo studio adesso.
— Lo studiate? disse Dantès.
— Sì, ho fatto un dizionario delle parole che sapevo; le ho distribuite, combinate, girate e rigirate in modo che esse possono bastare per esprimere il mio pensiero. Conosco circa mille parole; a tutto rigore sono bastanti, quantunque ve ne siano cento mila, cred’io, nel dizionario. Non sarei eloquente, ma mi farei intendere a meraviglia, e ciò mi basta.
Edmondo sempre più meravigliato cominciava quasi a ritrovare soprannaturali le facoltà di quest’uomo straordinario. Egli volle prenderlo in fallo sopra un punto qualunque, e continuò: — Ma se non vi hanno dato delle penne, diss’egli, come avete potuto scrivere un’opera così voluminosa?
— Ne ho fatte dell’eccellenti, che sarebbero preferite alle penne ordinarie quando fosse conosciuta la materia, colle cartilagini delle teste di quei grossi merluzzi che qualche volta ci danno nei giorni di magro. Per tal modo vedeva giungere il mercoledì, il venerdì ed il sabato con grandissimo piacere, perchè avea la speranza d’aumentare la mia provvisione di penne, e i miei lavori filosofici, ve lo confesso, sono la mia più cara occupazione. Pensando all’ideale, dimentico il presente, e camminando libero nella filosofia, dimentico di esser prigioniero.
— Ma l’inchiostro? disse Dantès, con che lo facevate?
— Nella mia segreta vi era altra volta un caminetto, poco prima del mio arrivo in prigione fu murato, e per molti anni vi devono aver fatto fuoco tutto l’inverno, è dunque tutto tappezzato di fuligine. Io faccio sciogliere questa fuligine in una porzione di quel vino che ci danno la domenica, e ciò mi somministra dell’eccellente inchiostro per tutta la settimana. Per le note particolari che hanno bisogno di essere distinte e scorte subito, foro le mie dita e scrivo col sangue.
— E quando potrò vedere tutto ciò? domandò Dantès.
— Quando vorrete, rispose Faria. — Oh! subito! subito! gridò il giovinotto. — Seguitemi dunque, disse Faria. Ei s’introdusse nel corridore sotterraneo entro al quale disparve; Dantès lo seguì.