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XXVI. — L’ALBERGO DEL PONTE DI GARD.
日期:2021-06-29 15:27  点击:265
 Coloro che hanno percorso a piedi il mezzogiorno della Francia avranno potuto [113] notare fra Bellegarde e Beaucaire, circa a mezza strada dal villaggio alla città, ma pure un po’ più presso a Beaucaire che a Bellegarde, un piccolo albergo, fuori del quale sta appesa una tavola che stride al più piccolo vento, e su cui è grottescamente dipinto il Ponte di Gard. Questo piccolo albergo, prendendo per direzione il corso del Rodano, è situato dalla parte sinistra della strada, voltando le spalle al fiume; vi è unito ciò che nella Linguadoca vien chiamato giardino, vale a dire che il lato opposto a quello che tiene aperta la porta ai viaggiatori, porge sopra un recinto chiuso su cui vegetano alcuni ulivi, qualche fico selvaggio, colle foglie inargentate dalla polvere della strada; fra i loro intervalli nascono, invece di legumi, il pepe d’India, le cipolline, e lo zafferano; finalmente in uno degli angoli, come una sentinella dimenticata, cresce un gran girasole, lanciando in alto il suo fusto malinconico e flessibile, ed aprendo a ventaglio la cima. Tutti questi alberi grandi e piccoli sono tutti piegati nella direzione del maestrale, uno dei tre flagelli della Provenza. Qua e là sulla circostante pianura, che rassomiglia ad un gran lago di polvere, vegetano alcune spighe di frumento che gli ortolani del paese coltivano senza dubbio per curiosità, e ciascuna delle quali serve di ricovero ad una cicala che perseguita col suo canto aspro e monotono il viaggiatore perdutosi in questa Tebaide. Da sette o otto anni circa questo piccolo albergo era condotto da un uomo ed una donna che avevano per soli domestici una cameriera chiamata Trinetta ed uno stalliere che rispondeva al nome di Pacaud, doppia cooperazione, che del resto era più che sufficiente ai bisogni del servizio, dappoichè un canale scavato fra Beaucaire e Aigues-mortes aveva fatto sostituire vittoriosamente i battelli ai barrocci, e le barche alle diligenze. Questo canale, come per rendere più vivi i dispiaceri dei disgraziati albergatori che rovinava, passava fra il Rodano che lo alimenta, e la strada che lo dissecca, a cento passi circa dall’albergo di cui abbiamo dato una breve ma fedele descrizione. Non dimentichiamo un cane, vecchio guardiano per la notte e che abbaiava ciò nonostante contro i passeggieri così nel giorno come fra le tenebre, tanto aveva perduto poco alla volta l’abitudine di vedere viaggiatori.
 
Il conduttore di questo piccolo albergo era un uomo dai 40 ai 42 anni, grande, secco e nerboruto, vero tipo meridionale, cogli occhi infossati e vivaci, col naso a becco d’aquila e i denti bianchi come quelli di un animale carnivoro. I capelli che sembravano, ad onta dei primi soffi dell’età, non potersi risolvere a diventar bianchi, erano come la barba, che portava lunga e ad uso di collare, fitti, crespi e appena sparsi di qualche pelo grigio: il colorito naturalmente scuro era ricoperto ancora da una nuova patina nerastra, presa dall’abitudine che aveva il povero diavolo, di starsi dalla mattina alla sera sul limitare della porta, per vedere se o a piedi, o in carrozza giungeva qualche avventore, aspettativa, che quasi sempre andava perduta, e durante la quale egli non opponeva alcun preservativo all’azione dei raggi divoratori del sole sul suo viso, fuorchè un fazzoletto rosso annodato sulla testa secondo il costume dei mulattieri spagnuoli. Quest’uomo è un’antica nostra conoscenza, è Gaspero Caderousse. Sua moglie al contrario, che nubile si chiamava Maddalena Radelle, era una donna pallida, magra e malaticcia. Nata nei contorni d’Arles aveva veduto, conservando tutte le tracce primitive della bellezza tradizionale delle sue compatriotte, il suo viso scomporsi lentamente negli accessi quasi continui di una di quelle febbri sorde, tanto comuni alle popolazioni vicine agli stagni di Aigues-mortes ed alle paludi della Camargue. Ella stava adunque quasi sempre seduta e tremante nel fondo della sua camera situata al primo piano, o stesa sur un sofà, o appoggiata contro il letto, mentre che suo marito faceva la guardia consueta alla porta della casa, fazione che egli prolungava tanto più volentieri, in quanto che ogni volta che si accostava alla sua aspra metà, questa lo perseguitava con eterne lagnanze contro la sorte, alle quali suo marito non rispondeva d’ordinario che con queste filosofiche parole:
 
— Taci là, Carconta! Dio vuole così!
 
Questo soprannome era dato a Maddalena Radelle, perchè era nata nel piccolo villaggio della Carconta, posto fra Salon e Lambèse. Or secondo un costume del paese, le persone vengono quasi sempre chiamate con un soprannome, e suo marito aveva sostituito questo vocabolo alla parola Maddalena troppo dolce, e forse poco sonora pel suo rozzo linguaggio. Però ad onta di questa pretesa rassegnazione ai decreti della Provvidenza, non si creda che il nostro albergatore non sentisse profondamente lo stato deplorabile in cui lo aveva ridotto quel miserabile canale di [114] Beaucaire, e che egli fosse invulnerabile alle incessanti lamentazioni con cui lo perseguitava sua moglie. Era, come tutti i meridionali, un uomo moderato e senza grandi bisogni, ma pieno di vanità per tutte le cose esteriori. Per tal modo nei tempi della sua prosperità, non lasciava mai passare nè una festa di villaggio, nè una processione senza farvisi vedere con la sua Carconta; l’uno col suo costume pittoresco degli uomini del mezzogiorno, e che partecipa ad un tempo del catalano e dell’andaluso, l’altra col grazioso abito delle donne d’Arles, che sembra preso dalla Grecia e dall’Arabia. Ma un poco per volta, catene da orologio, collane, cinture a mille colori, giubbe gallonate, vesti di velluto, calze ricamate, ghette variopinte, scarpe con fibbie d’argento erano sparite; e Gaspero Caderousse, non potendo più farsi vedere nell’altezza del suo passato splendore, aveva rinunciato per sè e per sua moglie a tutte queste pompe mondane, di cui sentiva, rodendosi sordamente il cuore, i festevoli rumori fino sulla soglia del suo povero albergo, che continuava a conservare ancora più come un ricovero che come una speculazione. Caderousse, secondo la sua abitudine, erasi fermato una gran parte della mattina avanti la porta, girando lo sguardo malinconico da una piccola zolla intorno a cui erano alcune galline, alle due estremità della strada deserta che si perdevano una al mezzogiorno e l’altra al nord; quando d’improvviso la voce aspra di sua moglie lo costrinse ad abbandonare il posto. Egli rientrò brontolando e salì al primo piano, lasciando però sempre aperta e spalancata la porta, come per invitare i viaggiatori a non dimenticarlo passando.
 
Nel momento che Caderousse entrava, la grande strada di cui abbiamo parlato, e che veniva percorsa dal suo sguardo, era nuda, e solitaria quanto il deserto, dalla parte di mezzogiorno: si estendeva bianca ed infinita fra due file d’alberi sottili, e si comprenderà facilmente che nessun viaggiatore libero di scegliere un’altra ora del giorno si sarebbe avventurato in questo spaventevole Sahara. Ciò non ostante, contro tutte le probabilità, se Caderousse fosse rimasto al suo posto avrebbe potuto scorgere dalla parte di Bellegarde, un cavaliere ed un cavallo camminare con quell’andamento cortese ed amichevole che indica le migliori relazioni fra l’uomo e l’animale; il cavallo era di razza ungherese, e andava comodamente al trotto; il cavaliere era un prete vestito di nero col cappello a tre angoli. Ad onta dell’eccessivo calore d’un sole ardente nell’ora del mezzogiorno, essi non andavano che di un trotto molto regolato. Questo gruppo, giunto dinanzi alla porta, si fermò.
 
Sarebbe stato difficile il risolvere se l’uomo fermò il cavallo, o il cavallo fermò l’uomo; in ogni modo il cavaliere mise il piede a terra, e tirando l’animale per le redini, lo legò ad un arpione di uno sportello rovinato, che non reggeva più se non sopra un cardine; quindi avanzandosi verso la porta, e asciugandosi la fronte grondante sudore con un fazzoletto di cotone rosso, l’abate battè tre colpi sul limitare, col puntale di ferro del bastone che aveva in mano.
 
Tosto il gran cane nero si alzò, fece qualche passo, abbaiando e mostrando i denti bianchi ed acuti, doppia dimostrazione ostile, che provava la poca abitudine che aveva della società. Subito dopo, un passo grave rumoreggiò sulla scala di legno che si arrampicava lungo il muro, e per la quale discendeva, curvandosi all’indietro, l’oste del povero albergo, sulla soglia del quale stava il prete.
 
— Eccomi! diceva Caderousse tutto maravigliato; eccomi! vuoi tu tacerti, Margotin! non abbiate paura, signore, egli abbaia, ma non morde. Voi desiderate del vino, n’è vero? perchè fa un sole tremendo... Ah! perdono, interruppe Caderousse, vedendo con quale specie di passeggiere parlava; perdono, io non sapeva chi avevo l’onore di ricevere. Che desiderate, sig. abate? sono ai vostri ordini.
 
Il prete guardò quest’uomo per due o tre secondi con una attenzione straordinaria, e sembrò cercasse ancora di attirare sopra di sè l’attenzione dell’albergatore; ma vedendo che i lineamenti di costui non esprimevano altro sentimento che la sorpresa di non avere una risposta, giudicò fosse tempo di finirla e disse con un accento italiano ben pronunziato: — Non siete voi il sig. Caderousse?
 
— Sì signore, disse l’oste, forse meravigliato ancora più della domanda che del silenzio; sono effettivamente Gaspero Caderousse per servirvi.
 
— Gaspero Caderousse?... Sì,... credo bene che sia questo il nome e cognome. Voi dimoravate in altro tempo sui viali di Meillan, n’è vero, al quarto piano? — Precisamente.
 
— Ed esercitavate la professione di sartore?
 
[115]
— Sì, ma la mia professione andò male, fa tanto caldo in Marsiglia, che credo, finirà che nessuno si vestirà più. Ma a proposito di calore, non volete voi prender qualche cosa per rinfrescarvi, signor abate?
 
— Sia pure. Datemi una bottiglia del miglior vino che abbiate, e poi riprenderemo la conversazione, se non vi dispiace, al punto in cui la lasciamo.
 
— Come vi farà più piacere, sig. abate, — disse Caderousse, e per non perdere l’occasione di esitare una delle ultime bottiglie di vino di Cahors che gli restavano, Caderousse si affrettò ad alzare una botola che copriva un’apertura fatta nel pavimento della camera a pian terreno che serviva ad un tempo di sala e di cucina. Allorchè in capo a cinque minuti ricomparve, ritrovò l’abate assiso sur uno sgabello col gomito appoggiato su di una lunga tavola; mentre che Margotin, sembrando aver fatto pace con lui, aspettava, che contro il solito questo singolare viaggiatore prendesse qualche cosa, allungava su la coscia il suo collo scarno, e l’occhio languente.
 
— Siete solo? domandò l’abate all’oste, mentre che questi gli metteva davanti la bottiglia, ed il bicchiere.
 
— Oh! mio Dio, sì solo o circa, poichè io ho una moglie che non mi può aiutare in cosa alcuna, attesochè la povera Carconta è quasi sempre malata.
 
— Ah! siete ammogliato, disse l’abate con una specie d’interessamento, girando intorno a sè uno sguardo, che sembrava stimare il tenue valore del meschino mobilio della camera.
 
— Vi accorgete che non sono ricco, n’è vero? disse sospirando Caderousse, ma per essere fortunato in questo mondo non basta sempre l’essere onesto uomo.
 
L’abate fissò uno sguardo indagatore su di lui.
 
— Sì, un onesto uomo; di ciò posso vantarmi, disse l’oste sostenendo lo sguardo dell’abate, con una mano sul petto e alzando la testa di basso in alto, e, ai giorni nostri non tutti possono dire altrettanto. — Tanto meglio, se è vero ciò, di cui vi vantate; poichè io ho la ferma convinzione che presto o tardi l’uomo onesto viene ricompensato, ed il perverso punito.
 
— Il vostro stato vi fa dir così, sig. abate, il vostro stato vi fa dir così, ripetè Caderousse con un’amara espressione. Il fatto però ci mostra che noi siamo liberi di poter credere il contrario di ciò che dite. — Avete torto di parlar così, disse l’abate, perché forse fra momenti sarò per voi una prova di ciò che asserisco. — Che volete dire? domandò Caderousse con meraviglia. — Voglio dire, che prima di tutto bisogna che mi assicuri se voi siete realmente quello col quale devo aver che fare. — Quali prove volete che io vi dia?
 
— Avete voi conosciuto nel 1814, o 1815, un marinaio che si chiamava Dantès?
 
— Dantès! se io ho conosciuto il povero Edmondo? Lo credo bene! era anzi uno dei miei migliori amici! gridò Caderousse il cui volto erasi fatto color di porpora, mentre che l’occhio chiaro e sicuro dell’abate sembrava dilatarsi per coprire interamente colui che interrogava. — Sì, io credo che infatto si chiamasse Edmondo. — Se egli si chiamava Edmondo? il giovinotto! lo credo bene! tanto è vero, quanto io mi chiamo Gaspero Caderousse. E che n’è divenuto, signore, di questo povero Edmondo? continuò l’albergatore, l’avreste voi conosciuto? ov’è al presente? è libero? è felice?
 
— È morto prigioniero, più disperato e più miserabile dei forzati che trascinano la catena al bagno di Tolone.
 
Un pallore mortale successe al rossore che si era sparso sulle prime sul viso di Caderousse. Egli si alzò, e l’abate lo vide asciugarsi una lagrima con un canto del fazzoletto che gli serviva di berretto. — Povero giovinotto, mormorò Caderousse. Ebbene ecco ancora un’altra prova di ciò che io vi diceva, che il destino in questa vita non è favorevole che ai malvagi... Ah! continuò Caderousse con quel linguaggio animato delle genti del mezzogiorno, questo mondo va di male in peggio. Che piova dunque una volta dal cielo per due giorni polvere da cannone, e poi subito dopo, un’ora di fuoco! così sarà tutto finito.
 
— Sembra che voi amaste molto di cuore questo giovine? domandò l’abate. — Sì, io lo amava molto, disse Caderousse, quantunque debba rimproverarmi di averne per un momento invidiata la felicità. Ma dopo, ve lo giuro, parola di Caderousse, ne ho pianto molto la sorte infelice.
 
Fecesi un momento di silenzio, durante il quale lo sguardo fisso dell’abate non cessò di studiare la fisonomia mobile dell’albergatore.
 
— E voi lo avete conosciuto, il povero giovine? continuò Caderousse. — Io fui chiamato al suo letto di morte per prestargli gli ultimi uffici, rispose l’abate.
 
[116]
— E di che male è morto? domandò Caderousse con voce soffocata. — E di qual male si muore in prigione all’età di trent’anni, se non è la prigione stessa che uccide?
 
Caderousse asciugò il sudore che gli cadeva dalla fronte.
 
— Ciò che vi ha di strano in tutto questo, riprese l’abate, si è che Dantès, al letto di morte, mi ha giurato di non sapere, la vera causa della sua prigionia.
 
— È vero, è vero, mormorò Caderousse, egli non poteva saperla; no, il povero giovine non mentiva.
 
— Ed è appunto perciò che mi ha incaricato di porre in chiaro ciò che non aveva mai potuto rischiarare da sè stesso; e di riabilitare la sua memoria, se questa avesse ricevuta qualche macchia.
 
E lo sguardo dell’abate divenendo sempre più fisso, divorò l’espressione quasi tetra che apparve sul viso di Caderousse.
 
— Un ricco inglese, continuò l’abate, che fu suo compagno di prigione, e che venne liberato alla seconda restaurazione, era possessore di un diamante di gran valore. Uscendo di prigione, siccome Dantès lo aveva assistito come un fratello in una lunga malattia che aveva sofferto, volle lasciargli una testimonianza della sua riconoscenza, e gli regalò questo diamante. Dantès invece di servirsene per sedurre i carcerieri, che d’altra parte potevano prenderlo, e poi tradirlo, lo custodì sempre gelosamente pel caso che uscisse di prigione; poichè se fosse uscito la sua fortuna era assicurata colla vendita di quel solo diamante.
 
— Era dunque, domandò Caderousse con occhi ardenti, un diamante di sommo valore?
 
— Tutto è relativo, rispose l’abate; era di gran valore per Edmondo; è stato stimato 50 mila franchi.
 
— 50 mila franchi! esclamò Caderousse; sarà stato grosso come una noce? — No, disse l’abate, ma ne potrete giudicare da voi stesso avendolo io in dosso. — Caderousse sembrò cercare con gli occhi sotto le vesti dell’abate il deposito di cui parlava. L’abate cavò di saccoccia una scatolina di marrocchino nero, l’aprì, e fece brillare innanzi agli occhi abbagliati di Caderousse la sfavillante meraviglia, legata sopra un anello di lavoro ammirabile.
 
— E questo vale 50 mila franchi? domandò avidamente Caderousse. — Senza la legatura, che ancor essa è di un certo valore; — indi chiuse la scatoletta, e rimise in saccoccia il diamante che continuava a sfavillare nel fondo della immaginazione di Caderousse. — Ma come vi trovate possessore di questo diamante? domandò Caderousse; Edmondo vi ha dunque costituito suo erede?
 
— No, ma suo esecutore testamentario. Io aveva tre buoni amici ed una fidanzata, mi diss’egli; tutti e quattro, ne son certo, mi compiangono amaramente; uno di questi miei buoni amici si chiama Caderousse. (Caderousse fremè).
 
— L’altro, continuò l’abate senza mostrare di essersi accorto dell’emozione di Caderousse, si chiamava Danglars; il terzo, soggiunse, benchè mio rivale, mi amava egualmente.
 
Un sorriso diabolico illuminò la fisonomia di Caderousse, che fece un movimento per interrompere l’abate.
 
— Aspettate, disse l’abate, lasciatemi finire, e se avrete qualche osservazione a farmi, la farete in breve. «L’altro, sebbene mio rivale, mi amava egualmente, e si chiamava Fernando; in quanto alla mia fidanzata, il suo nome era....» Io non mi ricordo più il nome della fidanzata, disse l’abate.
 
— Mercedès, soggiunse Caderousse.
 
— Ah sì, è vero, riprese l’abate con sorriso soffocato, Mercedès... — Ebbene? dimandò Caderousse. — Datemi una bottiglia d’acqua, disse l’abate. — Caderousse si sollecitò ad obbedire. L’abate empì il bicchiere, e bevette qualche sorso. — A che n’eravamo noi? domandò di poi posando il bicchiere sulla tavola. La fidanzata si chiamava Mercedès; sì, è questo. «Voi andrete da Mercedès... (è Dantès che parla, capite bene?). E venderete questo diamante, ne farete cinque parti, e le dividerete fra questi miei buoni amici, i soli esseri che mi hanno amato su questa terra!»
 
— In che modo cinque parti? disse Caderousse; non avete nominate che quattro persone.
 
— Perchè la quinta è morta, da quanto mi è stato detto... era essa il padre di Dantès.
 
— Pur troppo, è vero! disse Caderousse commosso dalle passioni che si urtavano nel suo cuore; pur troppo! sì, il pover’uomo è morto!
 
— Ho saputo quest’avvenimento a Marsiglia, rispose l’abate sforzandosi di comparire indifferente; ma è tanto tempo che è avvenuta questa morte, che non ho potuto raccogliere nessun particolare.... sapreste voi dirmi qualche cosa di quel vecchio?
 
[117]
— Eh! disse Caderousse, chi lo può sapere meglio di me? Io abitava porta a porta col buon uomo... Oh mio Dio! sì, un anno appena dopo la sparizione di suo figlio, morì il povero vecchio!
 
— Ma di che morì?
 
— I medici nominarono la sua malattia; è morto di una gastro-enterite, credo: quelli che lo conoscevano dicevano che era morto di dolore... e io, che l’ho quasi veduto morire, dico che è morto... — Caderousse si fermò.
 
— Morto di che? riprese con ansietà l’abate.
 
— Morto di fame.
 
— Di fame! gridò l’abate scuotendosi sullo sgabello... di fame!... il più vile degli animali non muore di fame; i cani che vanno errando per le contrade trovano una mano compassionevole che loro getta un tozzo di pane! e un uomo, un cristiano è morto di fame in mezzo ad altri uomini, che si dicono cristiani come lui! impossibile! oh! ciò è impossibile!
 
— Dissi ciò che dissi, riprese Caderousse.
 
— Tu hai torto, disse una voce dalle scale; di che ti mischi? — I due uomini si voltarono e videro tra le sbarre della scala la testa malaticcia della Carconta. Essa erasi trascinata fin là, ed ascoltava la conversazione, assisa sull’ultimo scalino colla testa appoggiata sulle ginocchia.
 
— Di che vieni tu a mischiarti, o moglie? disse Caderousse. Questo signore domanda delle informazioni, la cortesia vuole che gli si diano.
 
— Ma prudenza vuole che ti taccia. Chi ti dice con quali intenzioni ti si vuol far parlare, imbecille!
 
— Con una intenzione eccellente, ve ne rispondo io, disse l’abate. Vostro marito adunque non ha nulla a temere, purchè mi risponda francamente.
 
— Nulla a temere... Sì, si comincia con delle belle promesse, poi uno si contenta di dire che non vi ha nulla a temere, quindi se ne va senza custodir una parola di ciò che è stato detto, e un bel mattino cade la disgrazia sopra una povera famiglia senza che si sappia da che parte viene.
 
— State tranquilla, buona donna, rispose l’abate, la disgrazia non vi verrà da parte mia, ve lo garantisco.
 
La Carconta brontolò qualche parola che non si potè capire, lasciò ricadere sulle ginocchia la testa che per un momento aveva sollevata, e continuò a tremare per la febbre, lasciando suo marito libero di continuare la conversazione, ma situandosi in modo da non perderne una parola.
 
Frattanto l’abate aveva bevuto qualche sorso d’acqua e si era rimesso. — Ma, riprese egli, questo disgraziato vecchio era adunque talmente abbandonato da tutti che dovè perire di una tal morte?
 
— Oh! signore, riprese Caderousse, Mercedès la catalana ed il sig. Morrel non lo avevano abbandonato; ma il povero vecchio aveva presa una profonda antipatia per Fernando, quello stesso, continuò Caderousse con sorriso ironico, che Dantès vi disse essere uno dei suoi amici.
 
— Ma dunque non lo era? domandò l’abate.
 
— Gaspero, Gaspero, mormorò la donna dall’alto della scala; fa bene attenzione a ciò che stai per dire. — Caderousse fece un movimento d’impazienza e senza dare veruna risposta a quella che lo interrompeva: — Si può egli mai essere l’amico di quello a cui si vuol portar via la fidanzata? rispose egli all’abate. Dantès, che aveva il cuore d’oro, chiamava tutti coloro suoi amici... povero Edmondo... eppure è meglio che non abbia saputo nulla, avrebbe durata troppo fatica a perdonar in punto di morte... quantunque, che che se ne dica, continuò Caderousse col suo linguaggio che non mancava di una specie di rozza poesia, ho più paura della maledizione dei morti che dell’odio dei vivi.
 
— Imbecille, gli disse la Carconta.
 
— Sapete voi dunque, continuò l’abate, ciò che questo Fernando ha fatto contro Dantès?
 
— Se lo so? lo credo bene!
 
— Parlate allora.
 
— Gaspero, fa ciò che vuoi, sei il padrone, disse la moglie, ma se mi dai retta, non dirai nulla.
 
— Questa volta, moglie mia, credo che tu abbia ragione.
 
— Così voi non volete dir nulla, riprese l’abate.
 
— E a che serve? disse Caderousse. Se Edmondo fosse vivo, e che una volta per tutte venisse da me per conoscere tutti i suoi amici e nemici, io parlerei; ma egli ora è sotterra, per quanto mi avete detto, non può più avere odii, non può più vendicarsi, dimentichiamo tutto.
 
— Volete allora, disse l’abate, che io dia a questi individui, che voi mi qualificate per indegni e falsi amici, una ricompensa destinata alla fedeltà? — È vero, avete ragione, disse Caderousse. D’altra [118] parte ora a che servirebbe loro, il legato del povero Edmondo, sarebbe una goccia d’acqua caduta in mare. — Senza calcolare che quella gente può schiacciarti con un gesto, disse la moglie.
 
— Ed in qual modo? coloro adunque sono divenuti ricchi e potenti? — Voi dunque non sapete la loro storia?
 
— No, raccontatemela.
 
Caderousse parve riflettere un momento.
 
— No, in verità, diss’egli, sarebbe troppo lunga.
 
— Siete libero di tacervi, amico mio, disse l’abate con l’accento della più grande indifferenza, ed io rispetto i vostri scrupoli, d’altra parte il vostro modo di condurvi è veramente da uomo dabbene; non ne parliamo adunque più. Di che cosa era io incaricato? di una semplice formalità: venderò adunque questo diamante. — E lo cavò di saccoccia facendolo brillare una seconda volta innanzi agli occhi di Caderousse. — Vieni adunque a vedere, moglie mia, disse questi con voce rauca. — Un diamante! disse la Carconta levandosi e discendendo, con passo abbastanza fermo, la scala. E che cosa è dunque questo diamante?
 
— Ah! tu non hai inteso? disse Caderousse; è un diamante che il giovine ci ha lasciato in legato; prima a suo padre, poi ai suoi tre amici Fernando, Danglars ed io, e a Mercedès sua fidanzata; questo diamante costa 50mila fr.
 
— Oh! il bel gioiello! diss’ella. — Il quinto allora di questa somma appartiene a noi? disse Caderousse.
 
— Sì, rispose l’abate, e più la parte del padre che mi credo autorizzato a ripartire su voi quattro.
 
— E perchè su noi quattro? domandò la Carconta.
 
— Perchè voi siete i quattro amici d’Edmondo.
 
— Non sono amici coloro che tradiscono, mormorò sottovoce a sua volta la donna. — Sì, sì, disse Caderousse, e ciò diceva anch’io. È quasi una profanazione, quasi un sacrilegio, il dare una ricompensa al tradimento e fors’anche al delitto. — Siete voi che lo volete, rispose tranquillamente l’abate, rimettendo il diamante nella tasca della sottana; ora datemi l’indirizzo degli amici di Edmondo affinchè io possa eseguire le sue ultime volontà.
 
Il sudore colava a grosse gocce dalla fronte di Caderousse; egli vide l’abate alzarsi, e dirigersi verso la porta, come per dare un’occhiata d’avviso al cavallo e ritornare. Caderousse e sua moglie si guardavano con una espressione indicibile. — Il diamante sarebbe tutto nostro... per intero! disse Caderousse. — Lo credi tu, rispose la donna. — Un uomo del suo sacro carattere non vorrà ingannarci. — Fa come vuoi, disse la donna: in quanto a me, non me ne mischio. — E tutta tremante, riprese la via delle scale, i denti le battevano, ad onta che facesse un caldo ardente. Sull’ultimo scalino si fermò un momento:
 
— Rifletteteci bene, Gaspero, diss’ella.
 
— Io sono risoluto, rispose Caderousse. — La Carconta rientrò sospirando nella sua camera: il piancito si sentì stridere sotto i suoi passi fino a che ebbe raggiunto il sofà sul quale cadde assisa come un corpo morto.
 
— A che siete voi risoluto? domandò l’abate.
 
— A dirvi tutto, rispose Caderousse.
 
— In verità, credo che sia ciò che vi ha di meglio a farsi; non che io abbia alcuna importanza a saper cose che voi vorreste nascondere, ma finalmente, se potreste condurmi a distribuire i legati secondo i voti del testatore, ciò sarebbe molto meglio.
 
— Lo spero, rispose Caderousse con le guance infiammate dal rossore della speranza e della cupidigia.
 
— Io vi ascolto, disse l’abate.
 
— Aspettate, riprese Caderousse, potremmo essere interrotti nel punto più importante, e sarebbe disgradevole; d’altra parte è inutile che si sappia, che voi siete venuto qui. — Andò alla porta dell’albergo che chiuse, e per maggior cautela vi mise la sbarra della notte. In questo intervallo l’abate scelse il posto per ascoltare a suo bell’agio; si assise in un angolo in modo da rimanere nell’ombra, mentre che la luce sarebbe caduta pienamente sul viso del suo interlocutore. In quanto a lui colla testa inclinata, le mani giunte o piuttosto serrate, si preparava ad ascoltare attentamente.
 
Caderousse avvicinò uno sgabello, e si assise in faccia all’abate.
 
— Sovvienti che io non ti ho spinto a nulla, disse la voce tremolante della Carconta, come se, attraverso al pavimento, avesse potuto vedere la scena che si stava preparando.
 
— Sta bene, sta bene, disse Caderousse; non ne parliamo più; prendo tutto su di me. — E incominciò così.

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