— Prima di tutto, disse Caderousse, debbo pregarvi di promettermi una cosa.
— E quale? domandò l’abate.
— Che non si saprà mai che io vi ho dato questi particolari, in caso che aveste bisogno di farne qualche uso; perchè quelli di cui sto per parlarvi sono ricchi e potenti, e se avessero a toccarmi ancora colla sola punta di un dito mi stritolerebbero come vetro.
— State tranquillo, mio buon amico, vi assicuro sul mio carattere che le vostre parole moriranno nel mio seno. Ricordatevi che non abbiamo altro scopo che di eseguire degnamente le ultime volontà del nostro amico. Parlate adunque senza riguardi e senza prevenzione di odio; dite la verità tutta intera. Io non conosco, e forse non conoscerò mai le persone di cui siete per parlarmi; d’altra parte sono italiano e non francese, e dopo compite l’ultime volontà di un moribondo ritorno in patria.
Questa sicura promessa parve assicurare del tutto Caderousse.
— Ebbene! in questo caso, disse Caderousse, io voglio dirvi anche più, io devo disingannarvi sulle amicizie che il povero Edmondo credeva sincere e affettuose. — Cominciamo da suo padre, se vi piace. Edmondo mi ha parlato molto di questo vecchio pel quale nutriva un grandissimo amore.
— L’istoria è trista, disse Caderousse, tentennando la testa. Voi probabilmente ne conoscerete il principio.
— Sì, Edmondo mi ha raccontato le cose fino al momento in cui fu arrestato, in una piccola osteria vicino Marsiglia.
— Alla Réserve. Oh! mio Dio, sì io vedo ancora la cosa come se accadesse ora. — Non fu al pranzo dei suoi sponsali? — Sì, a quel pranzo che ebbe un allegro principio e un tristo fine. Un commissario di polizia seguito da quattro fucilieri entrò, e Dantès fu arrestato.
— Ecco fin dove giunge quello che so io, disse l’abate. Dantès stesso non sapeva che ciò che gli era puramente personale; poichè non ha più riveduto nessuna delle cinque persone che ho nominato, nè ha più inteso parlare di loro.
— Dopochè Dantès fu arrestato il sig. Morrel corse per prendere delle informazioni; esse furono tristissime. Il vecchio Dantès ritornò solo in casa sua, piegò gli abiti di nozze piangendo, passò tutta la giornata in andare e venire per la sua camera, e la sera non dormì; io che abitava sotto di lui, lo sentii in moto tutta la notte; io stesso, debbo dirlo, parimente non dormii: il dolore di questo povero padre mi faceva molto male, e ciascuno dei suoi passi ripercuotevami nel cuore, come se mi avesse in effetto posto il piede sul petto. La dimane Mercedès venne a Marsiglia per implorare la protezione del sig. de Villefort; ma nulla ottenne; dopo andò subito a far visita al vecchio. Quando lo vide così tristo ed abbattuto, che aveva passata tutta la notte senza riposare, e non aveva mangiato nel giorno innanzi, volle condurlo seco per prenderne cura; ma il vecchio non ha mai voluto acconsentirvi. No, diceva egli, non lascerò mai questa casa perchè son certo che il mio povero figlio mi ama sopra ogni altra cosa, e se esce di prigione, correrà a visitare me pel primo. Che direbbe se non fossi là ad aspettarlo? Io ascoltava tutto dal pianerottolo, perchè avrei desiderato che Mercedès avesse persuaso il vecchio a seguirla; quei passi ripetuti e giorno e notte sulla mia testa, non mi lasciavano avere un momento di riposo.
— E voi non salivate mai a consolarlo?
— Ah! sig. abate, non si giunge mai a consolare che coloro che vogliono esser consolati, ed egli non voleva esserlo. D’altra parte, non so perchè, sembrava che avesse repugnanza a vedermi. Una notte però, che intesi i suoi singhiozzi, non potei più resistere, e salii: ma quando giunsi alla porta, non singhiozzava più; pregava. Egli ritrovava parole eloquentissime, suppliche pietose che ora non saprei ripetere: era più che pietà, era più che dolore, ed io che non sono bigotto, diceva a me stesso «son ben felice d’esser solo e di non aver figli, perchè se io fossi padre e soffrissi un dolore come quello di questo povero vecchio, non potendo ritrovare nella mia memoria, nè nel mio cuore tutto ciò che egli dice al buon Dio, me ne andrei dritto dritto a precipitarmi nel mare per non soffrire più lungamente.»
— Povero padre! mormorò l’abate.
— Di giorno in giorno egli viveva più solo e più isolato; spesso il sig. Morrel o Mercedès venivano per vederlo, ma la sua porta era chiusa; e, quantunque fossero ben sicuri che era in casa, non rispondeva ad alcuno. Un giorno che contro il solito ricevè Mercedès, e che la [120] povera ragazza, quantunque essa pure disperata, cercava confortarlo; «Credimi, figlia mia, egli disse, Edmondo è morto, e invece di aspettar lui, egli aspetta noi... Io sono ben fortunato, perchè essendo più vecchio, sarò il primo a rivederlo.»
— Per quanto uno sia buono, si stanca ben presto di vedere le persone che vi attristano: il vecchio Dantès finì per rimanere affatto solo. Io non vedeva più salire da lui alcuno, se non a quando a quando certi sconosciuti che discendevano poi con degli involti mal nascosti: conobbi in seguito che cosa erano quegl’involti, egli vendeva a poco a poco tutto ciò che aveva, per vivere. Finalmente il buon uomo terminò i suoi poveri arredi... era debitore di tre rate di pigione; fu minacciato di esser cacciato; domandò una dilazione di otto giorni, che gli venne accordata. Io so questi particolari perchè l’esattore entrò da me, uscendo da lui. Nei primi tre giorni lo intesi camminare come d’ordinario; ma nel quarto non sentii più nulla. Mi arrischiai a salire, la porta era chiusa; guardai traverso la serratura, e lo vidi tanto pallido ed estenuato, che credendolo malato ne feci prevenire il sig. Morrel e corsi da Mercedès. Tutti e due si sollecitarono a venire. Morrel condusse seco un medico, che osservando in lui una gastro-enterite ordinò la dieta. Io era presente, signore, non dimenticherò mai il sorriso del vecchio a questa condizione. Da quel momento egli aprì la porta; aveva una scusa per non mangiar più: «il medico aveva ordinata la dieta.»
L’abate mandò una specie di gemito.
— Questa istoria desta in voi dell’interessamento? disse Caderousse.
— Sì, rispose l’abate; essa è commovente.
— Mercedès ritornò: ella lo trovò così cambiato che come la prima volta, lo voleva far trasportare nella sua capanna. Questo era pure il parere di Morrel; ma il vecchio gridò tanto, che essi ebbero paura. Mercedès restò al capezzale del letto, Morrel si allontanò facendo segno alla catalana ch’ei lasciava una borsa sul caminetto. Ma, forte dell’ordinazione del medico, il vecchio non volle prender nulla. Finalmente, dopo nove giorni di disperazione e di astinenza, il vecchio spirò, maledicendo quelli che erano stati causa della sua disgrazia, e dicendo a Mercedès: «Se un giorno vedrete il mio Edmondo, ditegli che io muoio benedicendolo.»
L’abate si alzò, fe’ due giri intorno alla camera portando la mano fremente all’arida gola. — E voi credete che egli sia morto...?
— Di fame... signore, disse Caderousse, ne rispondo io, quanto è vero che siamo qui.
L’abate prese con mano convulsa il bicchiere d’acqua ancora a metà, lo vuotò di un fiato, e si rimise a sedere con gli occhi rossi e le guance pallide.
— Confessate che fu una gran disgrazia, diss’egli con voce rauca. — E tanto più grande, perchè causata da finta amicizia. — Passiamo adunque a questi uomini, disse l’abate; ma pensatevi bene, continuò egli con un tuono quasi minaccioso, vi siete impegnato a dirmi tutto; sentiamo dunque, chi son quelli che hanno fatto morire il figlio di disperazione, ed il padre di fame? — Fernando e Danglars, due uomini gelosi di Edmondo, uno per amore, l’altro per ambizione. — Ed in qual modo si manifestò questa loro gelosia? — Essi denunziarono Edmondo come messo bonapartista. — Ma chi dei due lo denunciò? chi dei due fu il vero colpevole? — Tutti e due, l’uno scrisse la lettera, l’altro la mise alla posta. — Questa lettera dove fu scritta?
— All’osteria stessa della Réserve il giorno prima degli sponsali. — Sta bene, sta bene, mormorò l’abate. Oh! Faria! Faria! come conoscevi bene gli uomini e le cose!
— Che dite, signore? domandò Caderousse. — Niente! continuate. — Danglars scrisse la denunzia con la mano sinistra, perchè non fosse riconosciuto il carattere, e Fernando l’inviò. — Ma, gridò d’improvviso l’abate, voi eravate là! — Io? disse Caderousse meravigliato, e chi vi ha detto che v’era? — L’abate s’accorse che erasi lasciato troppo trasportare. — Nessuno, disse egli, ma per essere così bene informato di tutti questi particolari, bisogna essere stato presente. — È vero, disse Caderousse con voce soffocata: io vi era. — E non vi siete opposto a quest’infamia? disse l’abate; voi dunque siete loro complice.
— Signore, essi mi avevano fatto tanto bere che quasi avevo perduto la ragione: non vedeva più che attraverso una nebbia. Dissi quanto poteva dire un uomo in quello stato, ma essi mi risposero, essere stato uno scherzo che avevano voluto fare, e che non avrebbe avuto alcuna conseguenza.
— Va bene, disse l’abate, voi avete [121] parlato con franchezza; e l’accusarsi in tal modo è un meritare il perdono.
— Disgraziatamente Edmondo è morto, e non mi ha perdonato. — Egli ignorava tutto ciò.
— Ma ora forse lo saprà. Si dice che i morti sappian tutto.
Fecesi un momento di silenzio: l’abate si era alzato e passeggiava pensieroso, ritornò al suo posto e si assise di bel nuovo. — Voi mi avete nominato due o tre volte un certo sig. Morrel, diss’egli. Chi era quest’uomo? — Era l’armatore del Faraone, il padrone e protettore di Dantès.
— E qual parte ha sostenuto in tutta questa trista faccenda?
— La parte dell’uomo onesto, coraggioso e affezionato. Venti volte fu ad intercedere per Edmondo; quando ritornò l’Imperatore scrisse, pregò, minacciò, e tanto che, nella seconda restaurazione fu grandemente perseguitato come bonapartista. Dieci volte, come vi ho detto, è venuto dal padre di Dantès per ritrovarlo in casa sua, e il giorno prima della sua morte aveva lasciato sul caminetto una borsa colla quale furono pagati i debiti del buon uomo e le spese dei funerali; dimodochè il povero vecchio, potè almeno morire come aveva vissuto senza far danno ad alcuno. Sono io ancora possessore di quella borsa, una borsa di cordonetto rosso.
— E questo sig. Morrel vive ancora?
— Sì, disse Caderousse. — In questo caso dev’essere un uomo benedetto dal cielo, dev’esser ricco... felice? — Caderousse sorrise amaramente. — Sì, felice come lo sono io, diss’egli.
— Come! Morrel sarebbe disgraziato! gridò l’abate.
— Egli è vicino alla miseria, e peggio ancora, è vicino al disonore. — E come? — Sì, rispose Caderousse; dopo vent’anni di fatiche, dopo essersi acquistato il posto più onorevole nel commercio di Marsiglia, Morrel è rovinato da cima a fondo. In due anni ha perduto cinque bastimenti, sofferto tre fallimenti terribili ed ora non ha più altre speranze che in quello stesso Faraone, che era comandato dal povero Dantès, e che deve ritornare dalle Indie con un carico di cocciniglia e d’indaco. Se questo bastimento si perde come gli altri, è rovinato del tutto.
— E il disgraziato ha moglie, figli?
— Sì, ha una moglie che in tutte queste avversità si è condotta come una santa; ha una figlia che stava per isposare l’uomo da lei amato, e la famiglia del quale si è opposta ad un matrimonio colla figlia di un rovinato; finalmente ha un figlio sotto-tenente nell’esercito. Ma voi lo capirete bene, tutto ciò invece di sollevarlo non fa che raddoppiare il dolore del pover’uomo; se fosse stato solo si sarebbe bruciate le cervella, e tutto sarebbe finito.
— Ciò è spaventevole! mormorò l’abate.
— Ecco come in questa vita viene ricompensata la virtù, disse Caderousse. Osservate, io che non ho mai fatto una cattiva azione a nessuno, meno quella che vi ho raccontato, sono nella miseria; dopo che avrò veduto morire la povera mia moglie di febbre senza poter fare nulla per lei, morirò di fame come è morto il padre di Dantès, mentre che Fernando e Danglars nuotano nell’oro.
— E come avviene ciò? — Perchè ad essi tutto gira in bene, nel mentre che ai galantuomini gira in male. — Che è divenuto di questo Danglars, il più colpevole, n’è vero, l’instigatore? — Che n’è divenuto? egli abbandonò Marsiglia con una raccomandazione di Morrel, che ignorava il suo delitto, e potè entrare commesso d’ordine presso un banchiere spagnuolo. All’epoca della guerra di Spagna, s’incaricò di una parte delle forniture dell’esercito francese, e fece fortuna: allora con questo primo danaro, speculò sui fondi pubblici, ed ha triplicato, e quadruplicato i suoi capitali, e, vedovo egli pure della figlia del suo banchiere, sposò una vedova, la sig.ª di Nargonne, figlia di de Servieux ciambellano del Re attuale, e che gode dei più grandi favori in corte. Divenuto milionario lo hanno creato conte, dimodochè ora è il conte Danglars che ha un palazzo nella strada di Mont-Blanc, dieci cavalli nelle scuderie, sei lacchè in anticamera, e non so quanti milioni in casa.
— Ah! fece l’abate con un’espressione singolare; ed egli è felice. — Ah! felice, chi può dir questo? la felicità e l’infelicità sono il segreto delle mura, le mura hanno orecchie, ma non lingua, se uno è felice con una grande fortuna, Danglars è felice. — E Fernando? — Fernando? è tutt’altra cosa. — Ma come mai un povero pescatore catalano senza risorse e senza educazione ha potuto fare una fortuna? ciò mi sorprende, ve lo confesso. — E ciò pure sorprende tutti; bisogna che nella sua vita siavi qualche strano segreto che nessuno sa.
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— Ma finalmente per quali gradini visibili ha potuto salire a quest’alta fortuna od a quest’alta posizione? — Ad entrambe, signore, ad entrambe: egli ha fortuna insieme e posizione. — Ma è una favola che mi raccontate?
— Ne ha tutte le sembianze, ma è una cosa reale, ascoltate e risolvete voi stesso. Pochi giorni prima che ritornasse Dantès, Fernando era caduto in coscrizione. I Borboni lo lasciarono stare tranquillo ai Catalani, ma al ritorno di Napoleone fu ordinata una leva straordinaria, e Fernando fu costretto a partire. Io pure partii; ma essendo più vecchio di Fernando, ed avendo da poco sposata la mia povera moglie, fui inviato soltanto sulle coste. Fernando, incorporato nelle schiere attive, venne mandato col suo reggimento alla frontiera, ed assistè alla battaglia; egli era di piantone alla porta di un generale che aveva segrete relazioni con l’inimico, e che quella notte stessa doveva riunirsi agl’inglesi, il quale gli propose di accompagnarlo; Fernando accettò, abbandonò il posto e seguì il generale. Ciò che avrebbe fatto passare un consiglio di guerra a Fernando, gli servì di raccomandazione. Rientrò in Francia con la spallina di sotto-tenente; e siccome non gli mancava la protezione del suo generale, che in allora godeva molto favore, divenne capitano nel 1823, alla epoca della prima guerra di Spagna, vale a dire al tempo in cui Danglars arrischiava le sue speculazioni. Siccome Fernando si poteva considerare quasi spagnuolo, fu inviato a Madrid per esplorarvi lo spirito dei suoi compatriotti: là ritrovò Danglars, si abboccarono insieme, promise al suo generale l’appoggio dei regii della capitale e delle province, e ricevè delle promesse, assunse sul suo conto degl’impegni, guidò il reggimento per sentieri a lui solo noti, fra le gole guardate dai regii, e finalmente in questa breve campagna rese servigi tali, che dopo la presa di Trocadero venne nominato colonnello, e ricevette la croce di ufficiale della Legion d’onore unitamente al titolo di Barone.
— Destino! destino! mormorò l’abate.
— Sì, ma ascoltate, che non è ancor tutto. Finita la guerra di Spagna, la carriera di Fernando si trovava messa a rischio dalla lunga pace che doveva regnare in Europa; la Grecia soltanto era sollevata contro la Turchia, e cominciava la guerra della sua indipendenza; tutti gli occhi erano sopra Atene; era di moda il compiangere e sostenere i Greci. Fernando domandò ed ottenne il permesso di andare al servizio della Grecia, continuando però a comparire inscritto sui registri dell’esercito. Qualche tempo dopo si seppe che il Barone di Morcerf, che tale era il nome che portava, era entrato al servizio d’Alì-Pascià col grado di generale istruttore. Alì-Pascià fu ucciso come sapete; ma prima di morire ricompensò i servigi di Fernando lasciandogli una somma considerevole, colla quale tornò in Francia ove gli venne confermato il grado di Tenente-Generale.
— Dimodochè in oggi..., domandò l’abate.
— Dimodochè in oggi, proseguì Caderousse, egli è conte, e deputato, possiede un palazzo magnifico a Parigi strada di Helder N. 27.
L’abate aprì la bocca, ma rimase un momento come un uomo che esita, quindi facendo uno sforzo su sè stesso:
— E Mercedès? diss’egli, venni assicurato che ella disparve.
— Disparve, disse Caderousse, come sparisce il sole per rialzarsi la dimane più risplendente. — Ella pure ha fatto fortuna? domandò l’abate con un sorriso ironico. — Mercedès a quest’ora si ritrova d’essere una delle più grandi dame di Parigi, riprese Caderousse. — Continuate, disse l’abate; mi sembra di ascoltare il racconto di un sogno. Ma io stesso ho veduto cose sì straordinarie che mi sorprendono poco quelle che voi mi dite.
— Mercedès dapprima fu disperata pel colpo che le tolse il suo Edmondo. Vi ho detto le sue istanze presso il sig. de Villefort e la sua devozione pel padre di Dantès. In mezzo alla sua disperazione un altro dolore venne a colpirla, e questo fu la partenza di Fernando di cui ella ignorava il delitto, e che considerava come un fratello. Fernando partì e Mercedès rimase sola. Tre mesi passarono in lagrime; nessuna notizia di Fernando; null’altro avanti gli occhi che un vecchio moribondo per la disperazione. Una sera, dopo essere rimasta tutto il giorno assisa, come era sua abitudine, presso l’angolo delle due strade che dai Catalani conducono a Marsiglia, ritornò nella capanna, trista più del consueto; nè l’amante, nè l’amico ritornavano da una di quelle due strade e non riceveva notizie nè dell’uno nè dell’altro.
«D’improvviso le sembrò udire un passo conosciuto, si volse con ansietà, la porta s’aprì, e vide comparire Fernando coll’uniforme di sotto-tenente. Non era la [123] metà di ciò che piangeva, ma era una parte della sua vita passata che ritornava a lei. Mercedès strinse le mani di Fernando con trasporto tale, che questi credè fosse amore per lui, mentre non era che la gioia di non esser più sola al mondo, e di vedere un amico dopo sì lunghe ore di trista solitudine; e poi bisogna pur dirlo, Fernando non era mai stato odiato, egli non era amato, ecco tutto; un altro occupava interamente il cuore di Mercedès; quest’altro era assente... era disparso... forse morto... A quest’ultima idea Mercedès scoppiò in singhiozzi, e si contorse le braccia pel dolore; ma quest’idea, ch’ella respingeva altre volte, quando le veniva da un altro suggerita, ora le veniva spontaneamente da sè sola allo spirito; d’altra parte il vecchio Dantès non cessava di dirle «il nostro Edmondo è morto, se non fosse morto ritornerebbe.»
«Il vecchio morì, come vi dissi, se fosse vissuto, Mercedès forse non diveniva mai la moglie di un altro, perchè il buon vecchio sarebbe sempre rimasto là a rimproverarle ognora la sua infedeltà. Fernando lo capì e non ritornò che quando seppe la morte del vecchio. Questa volta era tenente. Nel primo viaggio non aveva detto una parola d’amore a Mercedès; nel secondo le ricordò che l’amava sempre. Mercedès domandò sei mesi ancora per aspettare e piangere Edmondo».
— Gran cosa! disse l’abate con un sorriso amaro, non erano che diciotto mesi in tutto. Che può domandare di più l’amante più adorato? poi mormorò queste parole del poeta inglese. — Frailty, thy name is woman! = Fragilità, sei femmina! — Sei mesi dopo, riprese Caderousse si effettuò il matrimonio nella chiesa degli Accoules.
— Era la medesima chiesa ove doveva sposare Edmondo, mormorò l’abate; il marito solo era cambiato, ecco tutto.
— Mercedès adunque si maritò, continuò Caderousse; e quantunque agli occhi di tutti sembrasse tranquilla, ella però svenne passando davanti la Réserve, ove diciotto mesi prima erano stati celebrati gli sponsali con colui che avrebbe veduto di amare tuttora, se avesse osato di guardare nel fondo del cuore. Fernando più felice, ma non più tranquillo, poichè io l’ho allora veduto, e temeva sempre il ritorno di Edmondo, Fernando si occupò subito di spatriare con sua moglie e di esiliarsi insiem con lei; vi erano troppi pericoli a temere, e nello stesso tempo troppi ricordi da combattere restando ai Catalani. Otto giorni dopo le nozze partirono.
— Rivedeste più Mercedès? domandò l’abate.
— Sì, nel momento della guerra di Spagna a Perpignano, ove Fernando l’aveva lasciata; ella si occupava dell’educazione di suo figlio.
L’abate rabbrividì. — Di suo figlio? diss’egli.
— Sì, rispose Caderousse, del piccolo Alberto.
— Ma per istruire questo figlio, continuò l’abate, avrà ricevuto anch’essa un’educazione? Mi sembra di avere inteso dire da Edmondo che era figlia di un semplice pescatore, bella, ma non istruita.
— Oh! disse Caderousse, conosceva egli dunque così male la propria fidanzata? Mercedès avrebbe potuto divenir regina, se la corona dovesse posare soltanto sulle teste più belle, e più intelligenti. La sua fortuna ingrandiva da sè, ed ella diveniva grande con la sua fortuna. Ella imparava il disegno, la musica; tutto. D’altra parte io credo, sia detto fra noi, che non facesse tuttociò che per distrarsi, per dimenticare, e che non mettesse tante cose in testa che per combattere quelle che avea in cuore. Ma ora che tutto deve dirsi, continuò Caderousse; la fortuna, e gli onori l’hanno senza dubbio consolata. Ella è ricca, è contessa, e ciò non pertanto... — Caderousse si fermò.
— Ciò non pertanto, che? domandò l’abate.
— Ciò non pertanto son sicuro che non è felice.
— E che cosa ve lo fa credere?
— Ebbene; quando io stesso mi sono ritrovato troppo disgraziato, ho pensato che i miei antichi amici mi avrebbero aiutato in qualche cosa. Mi sono presentato a Danglars, che non mi ha voluto neppure ricevere. Sono stato da Fernando, e mi ha fatto passare cento franchi per le mani del cameriere.
— Così non li vedeste, nè l’uno nè l’altro.
— No, ma videmi bene la signora de Morcerf.
— E come? — Quando sono uscito, una borsa cadde ai miei piedi; essa conteneva 25 luigi. Alzai la testa e vidi Mercedès che chiudeva il balcone. — E de Villefort? domandò l’abate.
— Oh! egli non era mio amico, non lo conoscevo, non avevo nulla a domandargli. — Ma non sapete ciò che sia accaduto [124] di lui, e qual parte abbia preso alla disgrazia di Edmondo? — No; so soltanto che qualche tempo dopo averlo fatto arrestare, sposò madamigella di S. Méran, e ben presto lasciò Marsiglia. Senza dubbio la fortuna gli avrà sorriso come agli altri, senza dubbio egli sarà ricco come Danglars, considerato come Fernando; io solo, lo vedete, io solo sono rimasto povero, miserabile, e dimenticato da tutti.
— V’ingannate, amico mio, disse l’abate: qualche volta può sembrare che Dio dimentichi qualcuno; ma viene il giorno della giustizia, viene il giorno in cui si ricorda, ed eccovene una prova. — A queste parole l’abate cavò il diamante dalla saccoccia, e presentandolo a Caderousse: — Prendete, gli disse, prendete questo diamante, poichè è vostro.
— Come? a me solo? gridò Caderousse; ah! signore, non vi burlate di me?
— Questo diamante doveva essere diviso fra gli amici di Edmondo: Edmondo non aveva che un solo amico, la divisione diventa dunque inutile. Prendete questo diamante, e vendetelo; vale 50mila fr., ve lo ripeto, e spero che questa somma basterà per togliervi dalla miseria.
— Oh! signore, disse Caderousse avanzando timidamente una mano, mentre con l’altra si asciugava il sudore che gli stillava dalla fronte; oh! non vi fate uno scherzo della felicità, o della disperazione di un uomo!
— Io so ciò che è la felicità, e ciò che è la disperazione, e non mi prenderei mai giuoco di questi sentimenti, rispose l’abate. Prendete adunque, ma in cambio...
Caderousse, che già toccava il diamante, ritirò la mano.
L’abate sorrise. — In cambio, continuò egli, regalatemi quella borsa di seta rossa che il sig. Morrel avea lasciata sul caminetto del vecchio Dantès, e che mi avete detto essere ancora nelle vostre mani. — Caderousse sempre maravigliato, aprì un grand’armadio di quercia, e dette all’abate una lunga borsa di seta di un rosso scolorato, e intorno alla quale scorrevano due anelli, stati in altro tempo dorati. L’abate la prese, ed in sua vece dette il diamante a Caderousse. — Oh! voi siete un uomo di Dio, gridò Caderousse; perchè in verità nessuno sapeva che Edmondo vi avesse dato questo diamante, ed avreste potuto conservarlo per voi.
— Bene, disse l’abate a sè stesso, tu l’avresti fatto, a ciò che sembra. Indi si alzò, prese il cappello, ed i guanti.
— Soprattutto, quanto mi avete detto è del tutto vero, posso credervi su tutti i punti? — Vi giuro sul mio onore, e per quanto vi è di più sacro che non vi ho detto una parola che non sia vera. — Basta così, disse l’abate convinto, sta bene; che questo danaro possa esservi di profitto. Addio, io ritorno lontano dagli uomini che fanno tanto male ai loro simili.
E l’abate, liberandosi a gran fatica dall’entusiastiche dimostrazioni di Caderousse, levò da sè stesso la sbarra della porta, uscì, risalì a cavallo, salutò un’ultima volta l’albergatore che si confondeva in addii clamorosi, e partì, seguendo la stessa direzione che aveva tenuta nel venire.
Quando Caderousse si volse, vide dietro a sè la Carconta più pallida, e più tremante che mai: — Ed è ben vero ciò che ho inteso? diss’ella. — Che cosa? che egli ci ha dato il diamante per noi soli? disse Caderousse quasi pazzo dalla gioia. — Sì. — Non vi è nulla di più vero, poichè eccolo qua. — La donna lo guardò un momento, poi riprese con voce rauca: — E se fosse falso?
Caderousse impallidì, e traballò: — Falso, mormorò egli, falso... e perchè quest’uomo avrebbe dovuto regalarmi un diamante falso? — Per avere il tuo segreto senza pagarlo.
Caderousse rimase un momento stordito sotto il peso di questa supposizione.
— Oh! diss’egli, dopo breve silenzio, e prendendo il cappello che mise sul fazzoletto che teneva annodato intorno alla testa, lo sapremo ben presto. — Ed in qual modo? — Oggi è la fiera a Beaucaire; vi sono dei gioiellieri di Parigi; vado a farlo vedere. Tu guarda la casa; fra due ore sarò di ritorno.
E Caderousse si slanciò fuori di casa prendendo a tutta corsa la strada opposta a quella tenuta dallo sconosciuto.
— 50 mila franchi! mormorò la Carconta rimasta sola; è danaro... ma non è una fortuna.