意大利语学习网
XXIX. — LA CASA MORREL.
日期:2021-06-29 15:28  点击:255
 Colui che avesse lasciato Marsiglia qualche anno prima, conoscendo l’interno della casa di Morrel, e che vi fosse rientrato all’epoca in cui siamo arrivati, vi avrebbe scorto un grandissimo cambiamento. Invece di quell’aura di vita, di comodo e di felicità, che per così dire esala da una casa che sia in corso di prospera fortuna: invece di quelle allegre figure che si fanno vedere dietro le portiere delle finestre, di quei commessi affaccendati che attraversano i corridori con una penna cacciata dietro l’orecchio, invece di quel cortile ingombro di balle, rimbombante di grida e di risa dei facchini, avrebbe trovato fin dal primo sguardo, un non so che di tristezza e di morte [128] in questi corridori deserti e in questo vuoto cortile. Dei tanti impiegati che in altri tempi popolavano gli scrittoi, appena due ne rimanevano; uno era Emmanuele Raymond, giovine di 23 anni, l’innamorato della figlia di Morrel, ed era tuttavia rimasto nel banco, quantunque i suoi parenti avessero fatto di tutto per togliervelo; l’altro era un vecchio cassiere, losco, chiamato Coclite, soprannome che eragli stato dato dai giovani che in altro tempo popolavano questo alveare fragoroso, in oggi quasi disabitato, e che aveva così bene e così perfettamente sostituito il suo vero nome, che secondo ogni probabilità, non si sarebbe neppur voltato, se oggi non lo avessero chiamato con questo soprannome.
 
Egli era rimasto al servizio di Morrel, e nella situazione di questo bravo uomo si era operato uno strano cambiamento, mentre era salito al grado di cassiere, era contemporaneamente disceso al rango di domestico. Ciò non gl’impediva di essere lo stesso Coclite, buono, paziente, affezionato, ma inflessibile sui punti di aritmetica, solo argomento sul quale avrebbe resistito contro il mondo intero, compreso il sig. Morrel, non conoscendo che la sua tavola pittagorica, che sapeva sulle punte delle dita, qualunque fosse il modo con cui gliela presentavano, qualunque fosse l’errore nel quale avessero tentato di farlo cadere. In mezzo alla tristezza generale che aveva invaso la casa Morrel, Coclite però era il solo che fosse rimasto impassibile. Ora, che nessuno s’inganni, questa impassibilità non proveniva da mancanza di affezione, ma al contrario da una inalterabile convinzione. Come i topi che, si dice, abbandonino poco a poco un bastimento che da qualche tempo è condannato dal destino a perire in mare, dimodocchè questi ospiti egoisti lo hanno completamente abbandonato al momento che si leva l’ancora; così tutta quella folla di commessi e d’impiegati che traevano la loro sussistenza dalla casa dell’armatore avevano un poco per volta resi deserti gli scrittoi ed i magazzini; Coclite li aveva veduti allontanare senza neppur pensare a rendersi conto della causa della loro partenza: tutto, come lo abbiam detto, si riduceva per Coclite ad una quistione di cifre, e da venti anni che era in casa Morrel aveva sempre veduto effettuarsi i pagamenti a cassa aperta con tale una regolarità da non fargli credere che questa avesse potuto variare, ed i pagamenti sospendersi, più di quanto un mugnaio che possiede un mulino messo in moto da un canale abbondante di acqua, può credere che un giorno o l’altro quest’acqua possa venir meno. Infatto fin allora, nulla era ancor sopraggiunto a portare ostacolo alla convinzione di Coclite. Gli ultimi giorni dello scorso mese erano passati con una rigorosa puntualità. Coclite aveva notato un errore di settanta centesimi commesso da Morrel in suo pregiudizio, e lo stesso giorno aveva riportato i quattordici soldi di eccedenza a Morrel, che con un sorriso malinconico li aveva presi e lasciati cadere in un cassetto quasi vuoto, dicendo: — Bravo, Coclite, voi siete la perla dei cassieri.
 
E Coclite si era ritirato soddisfatto in modo, che non si sarebbe potuto esserlo di più, perchè un elogio di Morrel, di questa perla degli uomini onesti di Marsiglia, lusingava Coclite molto più che una gratificazione di 50 scudi. Ma dopo la fine di quel mese così vittoriosamente compito, Morrel aveva passato ore crudeli; per farvi fronte aveva riunite tutte le sue risorse e temendo egli stesso che il rumore delle sue ristrettezze non si spandesse in Marsiglia vedendolo ricorrere a simili estremi, era andato a fare un viaggio alla fiera di Beaucaire per vendere qualche gioiello che apparteneva a sua moglie ed a sua figlia, non che una parte della sua argenteria: con tal sacrificio tutto era ancora passato per una volta ad onore della casa Morrel. Ma la cassa era rimasta completamente vuota. Il credito, spaventato dal rumore che correva, si era allontanato col suo ordinario egoismo, e per far fronte ai 100 mila fr. da pagarsi il dì 15 di quel mese al signor de Boville, e agli altri 100 mila fr: che scadevano il 15 del successivo mese, Morrel non aveva realtà o altra speranza che nel ritorno del Faraone di cui un bastimento che aveva levata l’ancora di conserva con lui e che era arrivato in porto, aveva annunziata la partenza. Ma questo legno che veniva da Calcutta come il Faraone, era già arrivato da 15 giorni, mentrechè del Faraone non si aveva alcuna notizia.
 
In questo stato di cose la dimane del giorno in cui aveva concluso l’affare con de Boville, da noi raccontato, l’incaricato della casa Thomson e French di Roma si presentò al sig. Morrel. Lo ricevette Emmanuele. Il giovine che si spaventava ad ogni nuova figura, perchè ella annunziava un nuovo creditore che nella sua inquietudine veniva ad interrogare il capo della casa, volle risparmiare al padrone [129] la noia di questa visita: interrogò il nuovo arrivato il quale dichiarò che non aveva cosa alcuna da dire: ma che voleva parlare a Morrel in persona.
 
Emmanuele sospirando chiamò Coclite; questi comparve e ricevette l’ordine di condurre lo straniero dal sig. Morrel: Coclite camminò avanti e lo straniero lo seguì. Sulla scala incontrarono una bella giovinetta di 17 anni che guardò lo straniero con inquietudine; Coclite non osservò questa espressione del viso di lei, che però non isfuggì al forestiero.
 
— Il sig. Morrel è nel suo gabinetto, n’è vero, madamigella Giulia? domandò il cassiere.
 
— Sì, almeno credo di sì, disse la giovinetta con esitazione; guardate dapprima, Coclite, e se mio padre vi è, annunziate il signore. — È inutile l’annunziarmi, madamigella, rispose l’inglese, il Sig. Morrel non conosce il mio nome. Questo brav’uomo ha da dirgli soltanto che io sono il primo commesso della casa Thomson e French di Roma, colla quale la Casa di vostro padre è in relazione. — La giovinetta impallidì e continuò a discendere, mentre che Coclite e lo straniero continuavano a salire. Ella entrò nel luogo ove era lo scrittoio d’Emmanuele; e Coclite, col mezzo di una chiave di cui era possessore, e che annunciava la sua familiarità col principale, aprì una porta del secondo piano, introdusse lo straniero in un’anticamera, aprì una seconda porta che richiuse dietro a sè, e dopo aver lasciato solo per un momento l’inviato della casa Thomson e French, ricomparve facendogli segno di poter entrare.
 
L’inglese entrando trovò il sig. Morrel assiso avanti al suo scrittoio impallidendo all’aspetto delle colonne spaventose dei registri su cui stava scritto il suo passivo. Vedendo lo straniero, Morrel chiuse i registri, si alzò, prese una sedia, e quando lo vide seduto, egli pure si assise.
 
Quattordici anni avevano cambiato assai la fisonomia del negoziante, il quale, di 36 anni al principio di questa storia stava per compiere i 50. I capelli erano incanutiti, la fronte si era solcata di due profonde rughe, e lo sguardo, in altri tempi così fermo e sicuro, era divenuto vago ed irresoluto, e sembrava dovesse sempre temere di fissarsi sopra un uomo o sopra un’idea. L’inglese lo guardò con un sentimento di curiosità misto ad interessamento. — Signore, disse Morrel a cui questo esame sembrava raddoppiare il mal essere, voi desideravate parlarmi?
 
— Sì, signore. Voi sapete da qual parte io vengo, è vero?
 
— A quanto mi ha detto il cassiere, da parte della casa Thomson e French. — Vi ha detto la verità. La casa Thomson e French ha tre in 400 mila franchi da pagare in Francia, parte nel mese corrente e parte nel vicino mese, e conoscendo la vostra rigorosa esattezza ha riunito tutte le cambiali che ha potuto ritrovare con la vostra firma, e mi ha incaricato, a seconda che queste scadono, di ritirare i fondi da voi, e di impiegarli. — Morrel mandò un profondo sospiro, e passò la mano sulla fronte coperta di sudore. — Voi dunque, signore, domandò Morrel, avete delle cambiali firmate da me?
 
— Sì, signore, e per una somma abbastanza considerevole.
 
— Per qual somma? domandò Morrel, con voce che invano cercava di render sicura.
 
— Ma, ecco qui, disse l’inglese levandosi di saccoccia un plico, primieramente due gire di 200 mila fr. del sig. de Boville, dell’Ispettore delle prigioni. Convenite voi di dovergli questa somma?
 
— Sì, signore, è un investimento che egli ha fatto nel mio banco al 4 e mezzo per cento, saranno ben presto cinque anni. — E che voi dovete rimborsare?...
 
— Metà ai 15 di questo mese, l’altra metà ai 15 del prossimo venturo. — Per questi è detto; ora ecco 82,500 fr. per la fine del corrente; queste sono cambiali firmate da voi e passate al nostro ordine da terzi giratari. — Le riconosco, disse Morrel, al quale saliva al viso il rossore della vergogna, pensando che per la prima volta in sua vita non avrebbe potuto fare onore alla sua firma. — Sta tutto qui? — No, signore, io ho ancora per la fine del mese venturo queste altre cambiali che sono passate dalla casa Pascale alla casa Wild e Turner di Marsiglia, 55 mila fr. circa, in tutto sono 287,500 fr.
 
Ciò che soffriva lo sfortunato Morrel in questa enumerazione è impossibile poterlo descrivere: — 287,500 fr., ripetè egli macchinalmente. — Sì, rispose l’inglese, il quale continuò dopo un momento di silenzio, non vi nasconderò, signor Morrel, che mentre tutti fanno gli elogi della vostra probità senza macchia fino al presente, corre una sorda voce per Marsiglia, che voi non siate in istato di far fronte ai vostri affari. — A questa introduzione, quasi brutale, Morrel impallidì [130] spaventevolmente. — Signore, diss’egli, fino a questo momento, e sono più di 24 anni che ho ricevuto la casa dalle mani di mio padre, e che egli aveva diretta per 35 anni, fino a questo momento una cambiale sottoscritta da Morrel e F. non fu presentata alla cassa senza essere pagata.
 
— Sì, lo so, rispose l’inglese, ma da uomo d’onore, parlate francamente, pagherete tal somma con la stessa esattezza?
 
Morrel rabbrividì e guardò colui che gli parlava in tal modo con una maggior sicurezza di quello che non aveva ancor fatto. — Ad una domanda fatta con tanta franchezza, diss’egli, bisogna dare una risposta egualmente franca. Sì, signore, io pagherò, se, come spero, il mio bastimento giunge a buon porto, poichè il suo arrivo mi renderà quel credito che mi fu tolto dagli accidenti successivi di cui sono stato la vittima. Ma se per disgrazia il Faraone, ultima risorsa sulla quale io conto, mi mancasse...
 
Le lagrime sgorgarono dagli occhi del povero armatore.
 
— Ebbene? domandò l’interlocutore, se quest’ultima risorsa vi mancasse? — Ebbene, se quest’ultima risorsa mi mancasse, continuò Morrel, quantunque sia cosa crudele a dire... ma abituato ormai alla sventura bisogna che mi abitui all’onta... Ebbene! allora credo che sarei obbligato a sospendere i pagamenti. — E non avete amici che possano aiutarvi in tal congiuntura? — Morrel sorrise tristamente. — In commercio, signore, diss’egli, non si hanno che corrispondenti.
 
— È vero, mormorò l’inglese. Per tal modo non avete più che una sola speranza? — Una sola, ed ultima.
 
— Dimodochè se questa fallisce... — Sono perduto, signore, compiutamente perduto! — Quando sono venuto da voi, un bastimento entrava nel porto. — Lo so, signore. Un giovine che è rimasto fedele alla mia cattiva fortuna passa una parte del suo tempo in un belvedere situato sulla cima della mia casa, nella speranza di venire pel primo ad annunziarmi una buona notizia. Da lui ho saputo l’entrata in porto di questo bastimento — E non è il vostro? — No; è un naviglio bordolese la Gironda, esso pure viene dalle Indie, ma non è quello che aspetto. — Forse avrà notizie del Faraone.
 
— Fa egli d’uopo che ve lo dica? io temo quasi tanto di chiedere notizie del mio bastimento, quanto di restare nella incertezza, la quale è pure una speranza.
 
Quindi Morrel aggiunse con voce commossa: — Questo ritardo non è naturale: il Faraone è partito da Calcutta il 5 febbraio, e dovrebbe essere in porto già da un mese.
 
— Ma che è questo, disse l’inglese tendendo l’orecchio; che vuol dire questo rumore? — Oh! mio Dio! mio Dio! gridò Morrel impallidendo, che vi è ancora di nuovo.
 
Infatto un gran rumore si fe’ sentire sulle scale, un andare e venire, e s’intese perfino un grido di dolore. Morrel si alzò per andare ad aprire la porta, ma le forze gli vennero meno, e ricadde sulla sedia.
 
I due uomini rimasero in faccia l’un dell’altro, Morrel non aveva membro che non tremasse, lo straniero guardavalo con una espressione di profonda pietà. Il rumore era cessato, ciò nonostante sarebbesi detto che Morrel aspettava qualche cosa; questo rumore aveva dovuto avere un principio, e doveva avere un fine. Sembrò allo straniero che qualcuno salisse pian piano la scala, e molte persone si fossero fermate sul pianerottolo. Una chiave venne introdotta nella serratura della prima porta, e questa cigolò sui cardini.
 
— Non vi son che due persone che han la chiave di questa porta, mormorò Morrel; Coclite e Giulia. Nello stesso tempo la seconda porta si aprì, e comparve la giovinetta, pallida e colle guance bagnate di lagrime. Morrel si alzò tutto tremante, e si appoggiò ai bracciuoli del seggiolone, perchè non avrebbe avuto la forza di sostenersi in piedi. La sua voce voleva interrogare, ma voce più non aveva.
 
— Oh! padre mio! disse la giovinetta giungendo le mani, perdonatemi di essere messaggera di una trista notizia.
 
Morrel si ricoprì di un pallore mortale; Giulia venne a gettarsi fra le sue braccia. — Oh! padre mio! diss’ella, coraggio! — E così, il Faraone è perduto? domandò Morrel con voce soffocata. — La giovinetta non rispose, ma fece un segno affermativo con la testa che teneva appoggiata al petto del padre. — E l’equipaggio? domandò Morrel.
 
— Salvato, disse la giovinetta, salvato da quello della Gironda entrato or ora nel porto. — Morrel alzò le mani al cielo con una espressione di sublime rassegnazione e riconoscenza. — Grazie, grazie, mio Dio! disse Morrel; almeno voi non colpite che me solo. — Per quanto flemmatico fosse l’inglese, una lagrima gli bagnò le palpebre.
 
[131]
— Entrate, disse Morrel, entrate perchè suppongo che voi sarete tutti alla porta.
 
Infatto aveva appena pronunciate queste parole, che la signora Morrel entrò singhiozzando, Emmanuele la seguiva; nel fondo dell’anticamera si vedevano le rozze figure di sette o otto marinari seminudi. Alla vista di quegli uomini l’inglese rabbrividì: fe’ un passo per andar loro incontro, ma si contenne, ed invece si nascose nell’angolo più oscuro ed appartato del gabinetto. La signora Morrel andò ad assidersi presso il marito, prese fra le sue le mani di lui, mentre che Giulia restava in piedi appoggiata al petto del padre. Emmanuele era rimasto a metà della stanza e sembrava servir di legame fra il gruppo della famiglia Morrel, e i marinari che stavano fermi sulla porta.
 
— E come avvenne questo infortunio? domandò Morrel.
 
— Avvicinatevi Penelon, disse il giovine, e raccontate il caso. — Un vecchio marinaro, abbronzito dal sole dell’equatore, si avanzò ravvolgendo fra le mani gli avanzi di un cappello.
 
— Buon giorno, Sig. Morrel, diss’egli come se avesse lasciato Marsiglia dal giorno precedente o giungesse da Tolone, o da Aix. — Buon giorno, amico mio, disse l’armatore non potendo fare a meno di sorridere in mezzo alle lagrime; ma dov’è il capitano? — Il capitano è rimasto malato a Palma; ma se piace a Dio, è cosa da nulla, e voi lo vedrete giungere fra qualche giorno, tanto bene in salute quanto voi ed io.
 
— Sta bene... ora parlate Penelon, disse Morrel.
 
Penelon fece passare da una parte all’altra della bocca il tabacco che masticava, quindi ponendo la mano davanti, lanciò nell’anticamera un getto di saliva nerastra, avanzò il piede e si equilibrò sulle anche:
 
«Noi eravamo circa qualche cosa più o meno fra il capo-Blanc e il capo-Boyador camminando con una buona brezza di sud-sud-ovest dopo essere stati senza muoverci otto giorni per la calma, quando il capitano Gaumard mi si avvicina; bisogna che sappiate, che allora io era al timone, e mi dice:
 
«Papà Penelon, che pensate voi di quelle nubi che s’innalzano laggiù sull’orizzonte?» — Io le guardava precisamente in quel momento. «Che ne penso io capitano? Io ne penso che s’innalzano un poco più presto di quello che ne abbiano diritto, e che sono più nere di quello che si convenga a nuvoli che non abbiano cattive intenzioni.» «Questo è pure il mio avviso, disse il capitano, e vado subito a prendere le necessarie cautele. Noi abbiamo le vele troppo spiegate pel vento che farà in breve... Olà, eh! preparatevi a serrare le vele, ed a mandare a basso quella di trinchetto.» Era tempo; non fu appena eseguito l’ordine, che il vento infuriava su noi e il bastimento dava di banda. «Bene! disse il capitano, abbiamo ancora troppa tela, accomoda, o serra la gran vela.» Cinque minuti dopo la gran vela era chiusa, e noi camminavamo colla mezzana, colla vela di gabbia e i parrocchetti.
 
«Ebbene! Papà Penelon, dissemi il Capitano, che avete, scuotete la testa?» — «Gli è perchè nel vostro posto, vedete, non resterei in così bel cammino.» — «Credo che tu abbia ragione, vecchio, diss’egli, noi avremo in breve un colpo di vento.»
 
«Ah! capitano, gli rispondo io, chi volesse riscattare con un colpo di vento ciò che si prepara laggiù, guadagnerebbe assai; questa è una buona e bella tempesta dove io non mi rinvengo.» Vale a dire che si vedeva venire il vento come si vede la polvere a Montredon; fortunatamente che aveva che fare con un uomo che lo conosceva. «Attenti a prendere tre terzaroli nelle gabbie, gridò il capitano, allarga le boline, braccio al vento, abbasso i pennoni!»
 
— Ciò non era abbastanza in quei paraggi, disse l’inglese, io avrei preso quattro terzaroli, e mi sarei spacciato della mezzana. — Questa voce ferma, sonora ed inattesa fece scuotere tutti. Penelon mise la mano sugli occhi e guardò colui che rivedeva con tanta aggiustatezza la manovra del suo capitano.
 
— Noi facemmo ancor meglio, signore, disse il vecchio con un certo rispetto, perchè caricammo a orza la brigantina, e mettemmo le barre al vento per correre avanti la tempesta. Dieci minuti dopo caricammo le gabbie e ce ne andammo senza vele. — L’inglese scosse la testa: — Il bastimento era troppo vecchio per arrischiar questo, diss’egli.
 
— È vero! è detto giustamente! questo fu quello che ci perdè. In capo a 12 ore che eravamo trabalzati come se il diavolo avesse preso l’armi, si dichiarò una via d’acqua.
 
«— Penelon, mi disse il capitano, credo che coliamo a fondo; dammi la sbarra del timone, e discendi alla stiva.»
 
[132]
«Gli do la sbarra, e discendo; vi erano già tre piedi di acqua.
 
«Risalgo gridando — «Alle pompe! alle pompe!» Ebbene! sì! egli era troppo tardi. Tutti ci mettemmo all’opera e io credo che quanta più ne cavavamo più ne entrava. — «Ah! in fede mia, diss’io dopo quattro ore di lavoro, giacchè noi coliamo, lasciamoci colare; già non si muore che una volta.»
 
«— È così che tu dai l’esempio, maestro Penelon? disse il capitano; ebbene! aspetta! aspetta!» egli andò nel gabinetto a prendere un paio di pistole. «Il primo che lascia la pompa, disse egli, gli brucio le cervella!»
 
— Bravo! disse l’inglese.
 
— Non c’è nulla che infonda tanto coraggio quanto le buone ragioni, continuò il marinaro, tanto più che in questo mentre il tempo si era rischiarato, e il vento cominciava a indebolire; non è però men vero che l’acqua saliva sempre; non molto, ma circa due pollici l’ora, vedete, sembra che non sia niente, ma in 12 ore non sono men di 24 pollici, che fan due piedi; e tre che ne avevamo già, formano cinque; ciò vuol dire che quando un bastimento ha cinque piedi d’acqua nel ventre, può già passare per un idropico. «Andiamo, disse il capitano, basta così, ed il sig. Morrel non avrà nulla a rimproverarci: abbiamo fatto tutto ciò che si è potuto fare per salvare il bastimento; bisogna ora cercare di salvare gli uomini. Alla scialuppa, giovinotti, e più presto che si può.»
 
— Ascoltate, sig. Morrel, continuò Penelon, noi amavamo molto il Faraone; ma per grande che sia l’amore che i marinari portano al loro bastimento, essi però amano sempre di più la loro pelle. Così noi non ce lo facemmo ripetere due volte; con ciò però, che il bastimento aprendosi sembrava dirci: «andatevene dunque! ma andatevene dunque!»
 
«E non mentiva il povero Faraone; noi lo sentivamo abbassarsi sotto i nostri piedi. Tanto fu, con un giro di mano la scialuppa era in mare, e in un batter d’occhio gli otto marinari erano dentro. Il capitano fu l’ultimo a discendere, o piuttosto no, egli non discese; non voleva abbandonare il naviglio, fui io che lo presi abbracciandogli il corpo e lo gettai ai camerati, dopo di che saltai io pure a mia volta. Ed era tempo. Appena ebbi fatto il salto, il ponte si spaccò con un rumore tale, che si sarebbe detta una bordata di un vascello da 48. Dieci minuti dopo affondò in avanti, poi in dietro, quindi si mise a girare su sè stesso, come un cane che corre dietro la propria coda; finalmente, buona sera alla compagnia, brrrrru! tutto fu finito, il Faraone non v’era più!
 
«In quanto a noi, siamo stati tre giorni senza bere e senza mangiare, ed era tale la nostra fame che già si cominciava a parlare di fare alla sorte per sapere chi alimenterebbe gli altri, quando scoprimmo la Gironda, le facemmo dei segnali, ella ci vide, volse capo verso di noi, ci spedì la sua scialuppa e ci raccolse. Ecco come è andata, sig. Morrel, parola d’onore! sulla fede di marinaro! n’è vero compagni?»
 
Un mormorio generale d’approvazione indicò che il narratore aveva riunito tutti i suffragi per la verità del racconto ed il pittoresco dei particolari dati.
 
— Bene, amici miei, disse Morrel, voi siete brava gente; io già sapeva che nella disgrazia che mi sarebbe toccata, niuno avrebbe avuto colpa fuorchè il mio destino: questa è la volontà di Dio, e non la colpa degli uomini. Adoriamo la volontà di Dio. Ora ditemi quanto vi debbo per il vostro soldo!
 
— Oh! bah! non parliamo di questo, signor Morrel.
 
— Al contrario, parliamone, disse l’armatore con un tristo sorriso. — Ebbene! dobbiamo avere tre mesi di soldo; disse Penelon.
 
— Coclite pagate 200 fr. a ciascuno di questi bravi uomini. In altri tempi, amici miei, avrei detto: date loro cento fr. a ciascuno di gratificazione, ma i tempi sono disgraziati, cari amici, e il poco di danaro che mi resta non è più mio; scusatemi adunque, e non per questo non cessate dall’amarmi.
 
Penelon fece una mossaccia di tenerezza, si volse ai compagni, cambiò con loro qualche parola e replicò:
 
— Per quello che riguarda a ciò, sig. Morrel, diss’egli masticando tabacco, e lanciando nell’anticamera un secondo getto di saliva che andò a tener compagnia al primo, per quello che riguarda a ciò... — A che? — Al danaro. — Ebbene? — Ebbene! sig. Morrel, i camerati dicono che pel momento son loro sufficienti 50 fr. per ciascuno, e che pel resto aspetteranno. — Grazie, amici miei, grazie! gridò Morrel commosso fino al cuore; siete tutti brava gente; ma prendete! prendete! e se trovate un buon servizio, entratevi pure; siete liberi.
 
[133]
Quest’ultima parte della frase produsse un effetto prodigioso sui degni marinari; essi guardaronsi gli uni e gli altri con aspetto scomposto. Penelon, a cui mancava il fiato, poco mancò non inghiottisse la boccata di tabacco; fortunatamente portò a tempo la mano alla gola: — Come! sig. Morrel, diss’egli con voce soffocata, come! voi ci licenziate, siete dunque malcontento di noi? — No, figli miei, disse l’armatore; no, non sono malcontento di voi, tutto il contrario; no, io non vi licenzio. Ma che volete farci, non ho più bisogno di marinari.
 
— Come? non avete più bastimenti? disse Penelon, ebbene! ne farete costruire degli altri; aspetteremo. Grazie a Dio noi sappiamo ciò che vuol dire... — Io non ho più danari per far costruire bastimenti, disse l’armatore con un tristo sorriso. Quindi non posso accettare la vostra offerta, per quanto ella sia cortese. — Ebbene! se non avete più danari, allora non dovete pagarci; faremo come ha fatto il povero Faraone, correremo in secco, ecco tutto.
 
— Basta, basta, amici miei, disse Morrel soffocato dall’emozione; basta ve ne prego; ci rivedremo in tempi migliori. Emmanuele, accompagnateli e invigilate affinchè siano compiti i miei desideri. — Almeno a rivederci, n’è vero sig. Morrel? disse Penelon. — Sì, amici miei, almeno lo spero. Andate. — E fece un segno a Coclite che camminò avanti; i marinari seguirono il cassiere. Emmanuele lor tenne dietro.
 
— Ora, disse l’armatore a sua moglie, ed a sua figlia, lasciatemi solo un momento, poichè debbo parlare con questo signore. — E indicò con gli occhi il mandatario della casa Thomson e French che era rimasto in piedi ed immobile in un angolo durante tutta questa scena, alla quale egli non aveva presa altra parte che quella delle poche parole che abbiamo riportate. Le due donne alzarono gli occhi sullo straniero che avevano compiutamente obbliato, e si ritirarono; ma nel ritirarsi la giovinetta lanciò a quest’uomo uno sguardo di sublime preghiera al quale egli corrispose con un sorriso, che un freddo osservatore si sarebbe maravigliato di vedere spuntare su questo viso di ghiaccio.
 
I due uomini rimasero nuovamente soli.
 
— Ebbene! signore, disse Morrel lasciandosi ricadere sul suo seggio, avete tutto veduto ed inteso, non ho più altro da aggiungere.
 
— Io ho veduto, disse l’inglese, che vi è sopraggiunta una nuova disgrazia, immeritata come le altre, e ciò mi ha confermato nel desiderio di esservi aggradevole. — Oh signore! disse Morrel. — Vediamo, continuò lo straniero, sono uno dei vostri principali creditori, n’è vero? — Voi siete almeno quello che possiede le cambiali a più corta scadenza.
 
— Desiderate voi una dilazione per pagarmi? — Una dilazione potrebbe salvarmi l’onore, disse Morrel, e per conseguenza la vita. — Quanto tempo desiderate?
 
Morrel esitò:
 
— Due mesi, diss’egli. — Bene, fece lo straniero, ve ne darò tre. — Ma, credete che la casa Thomson e French... — State tranquillo, prendo tutto sopra di me. Oggi siamo ai 5 giugno?
 
— Sì. — Ebbene, rinnovatemi tutti questi biglietti al 5 settembre, e il 5 settembre ad ore 11 del mattino mi presenterò da voi. — La pendola in quel momento segnava appunto le 11 precise. — Vi aspetterò, signore, disse Morrel, e sarete pagato, o io sarò morto.
 
Queste ultime parole furono pronunciate a sì bassa voce che lo straniero non potè intenderle. Le cambiali furono rinnovate; vennero stracciate le antiche, ed il povero armatore si trovò almeno ad avere innanzi a sè tre mesi per potere riunire le sue ultime risorse. L’inglese ricevette i suoi ringraziamenti colla flemma particolare alla sua nazione, e prese congedo da Morrel, che lo ricondusse benedicendolo, fino alla porta. Sulla scala incontrò Giulia; la giovinetta faceva sembiante di discendere, ma in realtà lo aspettava.
 
— Oh! Signore! disse ella giungendo le mani. — Madamigella, disse lo straniero, voi un giorno riceverete una lettera firmata... Sindbad il marinaro... fate appuntino ciò che vi dirà questa lettera, per quanto strana vi possa sembrare la raccomandazione. — Sì, signore, rispose Giulia. — Mi promettete voi di farlo? — Ve lo giuro. — Basta così! addio madamigella; siate sempre buona e savia fanciulla come siete, ed ho fiducia che Iddio vi ricompenserà, dandovi per marito Emmanuele. — Giulia mandò un piccolo grido, divenne rossa come una ciliegia, e si attenne al passamano per non cadere. Lo straniero continuò il cammino facendole un gesto di addio. Nel cortile egli incontrò Penelon che teneva un rotolo di cento fr. in ciascuna mano, e che sembrava non potersi risolvere a portarli via.
 
[134]
— Venite, amico mio; gli diss’egli, ho bisogno di parlarvi.
 

分享到:

顶部
11/30 11:38