Franz aveva ritrovata una via di mezzo, perchè Alberto potesse giungere al Colosseo senza passare davanti ad alcuna rovina antica, e per conseguenza senza che alcuna preparazione graduata togliesse neppure un cubito alle gigantesche proporzioni del Colosseo. Questa fu di passare per la via Sabina, voltare ad angolo retto davanti a S. Maria Maggiore e giungere per la via Urbana e S. Pietro in Vincoli alla via del Colosseo. D’altra parte questo itinerario offriva ancora un altro vantaggio, quello di non distrarre con altre impressioni Franz da quella prodotta in lui dalla storia raccontata dal Pastrini, e nella quale vi si trovava mischiato il suo anfitrione di Monte-Cristo. Perciò erasi appoggiato col gomito nell’angolo, ed era ricaduto in quelle mille interrogazioni che infinite volte aveva di già fatte a sè stesso, e nelle quali mai era riuscito a darsi una risposta soddisfacente. Un’altra cosa avevagli ancora fatto risovvenire il suo amico Sindbad il marinaro, e questa era la relazione tra i banditi ed i marinari. Ciò che aveva detto Pastrini sul rifugio che Vampa ritrovava nelle barche dei pescatori e dei contrabbandieri, ricordava a Franz quei due banditi corsi ch’egli aveva ritrovato cenare insieme all’equipaggio del piccolo yacht, che deviando a bella posta dal suo cammino aveva approdato a Porto-Vecchio col solo scopo di metterli a terra. Il nome che il suo ospite davasi di conte di Monte-Cristo, pronunciato dall’albergatore della locanda di Londra, gli provava che colui sosteneva la stessa parte filantropica sulle coste di Piombino, di Civitavecchia, d’Ostia e di Gaeta, come su quelle di Corsica, di Toscana, di Spagna, non meno che su quelle di Tunisi e di Palermo. Era una prova che egli abbracciava un circolo di relazioni molto esteso.
Ma per quanto queste riflessioni fossero presenti sullo spirito del giovine, esse svanirono quando cominciò a farsi scorgere davanti a sè il tetro e gigantesco spettro del Colosseo fra le aperture del quale la luna faceva passare quei lunghi e pallidi raggi, che sembra cadano dagli occhi dei fantasmi. La carrozza si fermò a qualche passo dalla Fontana denominata meta Sudans. Il cocchiere aprì la portiera, i due giovani saltarono a terra, e si trovarono in faccia ad un cicerone che sembrava uscito di sotto terra. Quello dell’albergo pure li aveva seguiti, e così ne ebbero due. Del resto però è impossibile di potere evitare a Roma questo lusso di guide; oltre il cicerone generale che s’impadronisce di voi dal momento che mettete il piede sulla porta di un albergo o di una locanda, e che non vi abbandona che il giorno in cui mettete piede fuor della città, vi è pure un cicerone addetto a ciascun monumento; si giudichi dunque se si può restar privi di cicerone al Colosseo, vale a dire al monumento per eccellenza, che faceva dire a Marziale: «Che Memfi cessi di vantare i barbari miracoli delle sue piramidi, che cessino di essere vantate le meraviglie di Babilonia; tutto deve annichilirsi davanti l’opera immensa dell’anfiteatro dei Cesari, e tutte le voci della celebrità devono riunirsi per lodare questo monumento.»
Franz ed Alberto non tentarono nemmeno di sottrarsi alla tirannide ciceroniana, molto più poi sarebbe stato difficile al Colosseo, perchè ivi le sole guide hanno il diritto di percorrere i diversi punti praticabili del monumento, colle torcie accese. Non fecero dunque alcuna resistenza, e si abbandonarono anima e corpo ai loro conduttori. Franz conosceva di già questa passeggiata per averla fatta dieci altre volte; ma siccome il suo compagno, più novizio, metteva per la prima volta il piede nell’anfiteatro di Flavio Vespasiano, debbo confessarlo a sua lode, non ostante il cicaleggiare ignorante delle guide, egli era commosso da vive impressioni. In fatto non è possibile, senza vederlo, formarsi un’idea della maestà di una simile rovina, le cui proporzioni sono eziandio tutte raddoppiate dalla misteriosa chiarezza di quella luna meridionale, i raggi della quale sembrano i crepuscoli d’occidente.
Il pensatore Franz, appena fatti cento [168] passi sotto i portici interni, lasciò Alberto alle guide, che non volevano rinunciare ai diritti loro particolari, la fossa dei Leoni, le stanze dei Gladiatori, il Palco dei Cesari, e salì per una scala mezzo rovinata, facendo loro continuare il metodico giro, si assise all’ombra di una colonna, dirimpetto ad una curva che gli permetteva di potere abbracciare collo sguardo il gigante di marmo in tutta la sua estensione. Franz era là da circa un quarto d’ora, nascosto dall’ombra della colonna, ed occupato a guardare Alberto che, accompagnato da coloro che gli portavano le torce, usciva in quel momento da un romitorio, posto all’altra estremità del Colosseo, simili ad ombre che seguano un fuoco fatuo; discendevano di scalino in scalino verso il luogo che era riservato alle vestali, allorchè gli sembrò udire il rumore di una pietra, che si staccasse e cadesse dalla scala ch’egli pure aveva ascesa per portarsi al luogo che occupava. Certo che non è cosa rara il sentir cadere una pietra che sotto i piedi del tempio si stacca e va a rotolare nell’abisso: ma questa volta gli sembrò fosse il piede di un uomo sotto il quale si staccava, e che il rumore dei passi giungesse fino a lui, sebbene chi li causava facesse tutto per renderli impercettibili. Di fatto, dopo un momento, comparve un uomo, uscendo gradatamente dall’ombra a seconda che saliva la scala, la cui apertura, posta dirimpetto a Franz era illuminata dalla luna, ma i gradini si perdevano nell’oscurità a seconda che si discendeva.
Questi poteva essere un viaggiatore come lui, che preferiva una meditazione solitaria al ciarlare insignificante delle guide, e per conseguenza la sua comparsa nulla aveva di sorprendente: ma all’esitazione colla quale salì gli ultimi scalini, al modo con cui, giunto sul piano, si fermò e parve mettersi in ascolto, era evidente, essere egli venuto là con qualcuno. Per un movimento istintivo Franz si nascose quanto più potè dietro la colonna. A dieci passi dal luogo ove si trovavano entrambi, la volta era diroccata, e, da una apertura rotonda come quella di un pozzo, lasciava vedere il cielo tutto brillante di stelle. Attorno a questa che forse da qualche secolo dava passaggio ai raggi della luna, vegetavano dei cespugli il cui verde spiccava con vigore sul pallido azzurro del firmamento, mentre che grandi frasche, e mazzi di ellera pendevano da questa terrazza superiore, e ondulavano sotto la volta a guisa di corde fluttuanti. Il personaggio che aveva attirata l’attenzione di Franz era posto in una mezza ombra che non gli permetteva di distinguerne i tratti, ma che però non era abbastanza oscura per impedirgli di conoscerne i particolari del vestito. Egli era avvolto in un gran mantello scuro, un lembo del quale, gettato sulla spalla sinistra, gli copriva la parte inferiore del viso, mentre che un cappello a larghe tese copriva la parte superiore. L’estremità sola del vestito era illuminata dai raggi obbliqui della luna che passavano dall’apertura, e che permettevano di distinguere i calzoni neri, che elegantemente finivano sur un paio di stivali di pelle lucida. Quest’uomo apparteneva evidentemente se non alla aristocratica, almeno alla buona società.
Erano già trascorsi alcuni minuti da che egli trovavasi là, e già cominciava a dare qualche segno d’impazienza, allorchè fecesi sentire un piccolo rumore nella terra soprapposta. Nel medesimo punto un’ombra intercettò la luce; un uomo apparve all’orlo dell’apertura, gettò uno sguardo penetrante nelle tenebre, e scoperse l’uomo dal mantello: tosto sorreggendosi ad un pugno di quelle frasche e di quei rami d’ellera ondulante, si lasciò scivolare, e, giunto a tre o quattro piedi dal suolo, saltò leggermente a terra. Questi era interamente vestito da Trasteverino. — Scusatemi eccellenza, se vi ho fatto aspettare, disse in dialetto romano; però non sono in ritardo che di pochi minuti; le dieci sono sonate or ora a S. Giovanni in Laterano.
— Sono stato io che sono venuto prima, e non voi che avete ritardato, rispose lo straniero nel più puro toscano; non facciamo cerimonie, perchè quand’anche mi aveste fatto aspettare, sarei ben certo che non sarebbe stato per qualche motivo dipendente dalla vostra volontà.
— Ed avete ragione, eccellenza, vengo da castel S. Angelo, ed ho avuto tutte le difficoltà possibili per poter parlare a Beppe. — Chi e questo Beppe? — Beppe è un impiegato delle prigioni al quale io passo una piccola rendita mensile per sapere ciò che succede in castello. — Ah! ah! vedo bene che siete un uomo pieno di cautele, mio caro. — Che volete, eccellenza, non si sa ciò che può accadere: forse io pure sarò un giorno o l’altro preso nella rete, come quel povero Peppino, ed avrò io pure bisogno di un sorcio per rodere qualche maglia della mia prigione.
— Alle corte, che avete saputo?
[169]
— Che martedì vi saranno due esecuzioni, a due ore, siccome è solito qui in certe ricorrenze particolari. Uno dei condannati sarà impiccato; è un miserabile che ha ucciso quella stessa persona che lo aveva allevato, e questi non merita alcun interessamento; l’altro sarà decapitato, e questi è il povero Peppino.
— Che volete, mio caro, voi ispirate un terrore così grande non solo al governo pontificio, ma eziandio agli stati vicini, che assolutamente si vuol dare un esempio.
— Ma Peppino non faceva neppur parte della mia banda; era un povero pastore che non ha commesso altro delitto, che quello di fornirci di viveri.
— E ciò lo costituisce vostro complice in piena regola. Anzi vedete che gli si usano dei riguardi. Invece di appiccarlo come faranno a voi se mai vi metteranno le mani addosso, si contentano di ghigliottinarlo. E vedete bene che daranno due spettacoli differenti.
— Senza contar quello che gli preparo io, e che non si aspettano, soggiunse il Trasteverino.
— Mio caro, permettetemi di dirvi che mi sembrate del tutto disposto a fare qualche sciocchezza.
— Sono disposto a far di tutto per impedire l’esecuzione di quel povero diavolo, che si trova nell’impaccio per avermi servito. Io mi terrei per un vile, se non facessi qualche cosa per questo bravo giovane.
— E che farete?
— Metterò una ventina di uomini intorno al patibolo, e quando vi verrà condotto, ad un segnale che darò io, ci slanceremo col pugnale alla mano sulla scorta, e lo porteremo via.
— Questa è una cosa troppo eventuale, ed io ritengo che il mio disegno sia migliore del vostro.
— E quale è il disegno di V. E.?
— Io farei in modo di parlare ad uno che conosco pregandolo ad ottenere che la esecuzione si differisse a quest’altro anno: quindi nel corso dell’anno, tornerò a parlare con commovente eloquenza ad un altro tale che pure conosco, e lo farei evadere di prigione.
— Siete voi sicuro della riuscita?
— Parbleu! disse in francese l’uomo dal mantello.
— Che vuol dire? domandò il Trasteverino.
— Vuol dire che io da solo farò più colle mie insinuanti espressioni che voi con tutta la vostra gente coi loro pugnali, le loro pistole, le loro carabine ed i loro tromboni. Lasciatemi dunque fare.
— A meraviglia! ma ricordatevi bene che, se non ci riuscite, ci terremo sempre preparati.
— Tenetevi sempre preparati, se così vi piace, ma siate certi che avrò la sua grazia.
— Ricordatevi che martedì è dopo domani. Voi non avete più che il solo domani.
— Sta bene, ma un giorno si compone di 24 ore, ciascun’ora di 60 minuti, ciascun minuto di 60 secondi, e in 86m, 400 secondi si fanno moltissime cose.
— Come sapremo se V. E. è riuscita?
— È semplicissimo: ho preso in fitto le tre ultime finestre del caffè Ruspoli, se ho ottenuta la grazia, le due finestre ai lati avranno un tappeto di damasco giallo, e quella di mezzo ne avrà uno di damasco bianco con una croce rossa.
— Sta benissimo; e da chi farete presentar la grazia?
— Inviatemi uno dei vostri uomini travestito da confratello, e la consegnerò a lui. Mediante questo travestimento, egli potrà giungere fino ai piedi del patibolo, e rimetterà il foglio al capo della confraternita che lo passerà al carnefice. Frattanto, fate sapere questa notizia a Peppino che egli non abbia a morire di paura o non abbia a divenir pazzo, che sarebbe lo stesso che farci fare un’opera buona inutilmente.
— Ascoltate, eccellenza, disse il Trasteverino, io vi sono affezionato, ve ne siete convinto? — Lo spero almeno.
— Ebbene, se voi salvate Peppino, la mia non sarà più affezione, ma per l’avvenire sarà cieca obbedienza.
— Ebbene, fa attenzione a ciò che tu dici, mio caro, forse un giorno avrò a ricordarti questo discorso, forse un giorno io pure avrò bisogno di te...
— Allora, eccellenza, mi troverete nel momento del bisogno, come io avrò trovato voi; allora, foste ancora all’altra estremità del mondo, non avreste che a scrivermi: «fate questo» ed io lo farei sulla fede di...
— Zitto, disse lo sconosciuto, sento del romore.
— Sono viaggiatori che visitano il Colosseo.
— È inutile che ci trovino insieme. Queste spie di guide potrebbero riconoscervi, e per quanto sia onorevole la vostra relazione, pur nonostante se si sapesse [170] che siamo uniti in amicizia, questo legame mi farebbe perdere non poco il mio credito. — E così, se voi avrete la grazia?...
— La finestra del mezzo avrà il tappeto bianco con una croce rossa. — Se non la ottenete....? — Tutte e tre le finestre saranno addobbate coi tappeti gialli. — E allora?... — Allora, menate il pugnale a vostro piacere, vi prometto di essere là per vedervi fare. — Addio, eccellenza; io conto sopra di voi, e voi contate sopra di me. — A queste parole il Trasteverino disparve per la scala, mentre che lo sconosciuto, coprendosi più che mai il viso col mantello, passò a due passi da Franz, e discese nell’arena per la gradinata esterna. Un minuto dopo, Franz intese il suo nome ripetersi sotto le volte: era Alberto che lo chiamava; egli aspettò per rispondere, che i due interlocutori si fossero allontanati, non avendo gran volontà che si sapesse da loro esservi stato un testimonio, il quale, se non aveva veduto i loro volti, non aveva però perduto una parola della loro conversazione; dieci minuti dopo, Franz percorreva la strada per andare alla piazza di Spagna ascoltando con una distrazione molto impertinente la dotta dissertazione che Alberto faceva, dietro la testimonianza di Plinio e Calpurnio, sulle reti guarnite di punte di ferro che impedivano agli animali feroci di slanciarsi sugli spettatori. Egli lo lasciò discorrere senza contradirlo; aveva troppa fretta di trovarsi solo, per pensare senza distrazione a quanto era avvenuto vicino a lui.
Di questi due uomini l’uno certamente era straniero, ed era la prima volta che lo vedeva e lo sentiva; ma non era così dell’altro, e quantunque Franz non ne avesse distinte le forme del viso, sempre nascoste nell’ombra o nel mantello, l’accento di questa voce lo aveva troppo colpito la prima volta che avevala intesa, perchè potesse mai più risuonare a lui vicino senza riconoscerla. Vi era particolarmente nelle intonazioni ironiche qualche cosa di stridulo e di metallico che lo aveva fatto rabbrividire fra le rovine del Colosseo, non meno che nella grotta di Monte-Cristo; per tal modo egli era ben convinto che questi non era se non che Sindbad il marinaro. In tutt’altra congiuntura, la curiosità che gli veniva inspirata da quest’uomo sarebbe stata sì grande, che egli sarebbesi fatto riconoscere; ma in questa occasione, la conversazione che aveva intesa era troppo intima per non essere trattenuto dal timore che una sua comparsa non sarebbe stata troppo gradita; egli avevalo adunque lasciato allontanare, come si è veduto, ma ripromettevasi, se lo avesse incontrato un’altra volta, di non lasciarsi sfuggire una seconda occasione come aveva fatto per la prima.
Franz era troppo preoccupato per potere dormire bene. La notte fu da lui impiegata a passare e ripassare nello spirito tutte le più minute particolarità che avevano relazione all’uomo della grotta, e allo sconosciuto del Colosseo, e che tendevano a formare uno stesso individuo di questi due personaggi; e più Franz ci pensava, più si convinceva della sua opinione. Egli si addormì sul far del giorno, per il che svegliossi molto tardi. Alberto, da vero parigino, aveva già prese le sue mire per la serata. Egli aveva mandato a cercare un palco al teatro Argentina. Franz aveva molte lettere da scrivere in Francia, e abbandonò la carrozza ad Alberto per tutta la giornata. Alle cinque questi ritornò; aveva già portate le lettere di raccomandazione, ricevuto inviti per tutte le conversazioni serali, e veduto Roma.
Un giorno era bastato ad Alberto per far tutto questo, ed aveva ancora avuto il tempo d’informarsi dell’opera che si cantava, e degli attori che la eseguivano. L’opera portava per titolo la Parisina; gli attori erano Coselli, Moriani, e la Spech. I nostri due giovani non erano disgraziati, come si vede: essi avrebbero intesa la musica di una delle migliori opere dell’Autore della Lucia di Lammermoor, cantata da tre artisti più rinomati d’Italia. Alberto non avea mai potuto abituarsi ai teatri oltramontani, nell’orchestra dei quali non è permesso d’andare e che non hanno nè palchi, nè logge scoperte; ciò era penoso per un uomo che avea il suo posto agl’Italiani, e nella loggia infernale all’Opera.
Ciò però non gl’impediva di vestirsi con acconciature tutte le volte che andava al teatro con Franz, tolette perdute, perchè, bisogna confessarlo a vergogna di uno dei rappresentanti più degni del nostro bonton, in quattro mesi che viaggiava l’Italia in tutti i sensi, non aveva avuta ancora alcuna avventura. Alberto qualche volta cercava di scherzare su questo argomento; ma nel fondo del cuore era grandemente mortificato, egli, Alberto Morcerf, uno dei giovani più scapati non aveva ancora fatta alcuna conquista. La cosa era ancor tanto più penosa, che, secondo l’abitudine modesta dei nostri cari compatriotti, [171] Alberto era partito da Parigi con la ferina convinzione di avere in Italia il più felice successo, e di ritornare a formar la delizia del Baluardo di Gand col racconto delle sue buone avventure. Ahimè! non ne aveva avuta alcuna: le graziose contesse Genovesi, Fiorentine, e Napoletane si erano conservate pei loro mariti, pei loro amanti, ed Alberto aveva acquistata la crudele convinzione, che le Italiane sanno essere almeno fedeli: non voglio però dire che in Italia, come in ogni altro luogo, non vi sieno le loro eccezioni. Eppure Alberto non era solo un cavaliere molto elegante, ma aveva ancor dello spirito; più, era visconte, visconte di nobiltà recente, ciò è vero; ma oggi che non si fanno più le prove, che importa, che la propria nobiltà porti la data del 1399, o del 1815? Oltre a tutto ciò egli avea 50 mila lire di rendita; e questo è molto più di quanto bisogna, come si vede, per essere un giovine alla moda in Parigi. Era dunque un poco umiliante il non essere stato ancora seriamente osservato da alcuna signora nelle città in cui aveva soggiornato.
Ma egli avea stabilito di rivendicarsi nel carnevale, essendo questo un tempo di libertà in tutti i paesi della terra in cui è introdotta questa istituzione, e nella quale anche i più stoici cadono in qualche follia.
Ora, siccome il carnevale si apriva la dimane, era necessario che Alberto facesse conoscere il suo programma prima di quest’apertura.
Alberto adunque, con questa idea, aveva preso in fitto uno dei palchi più esposti al teatro, e prima di portarvisi fece una toletta irreprensibile. Era al primo ordine, che tien luogo della galleria in Francia, del resto però le tre prime file di palchi sono egualmente ed indistintamente aristocratiche, e per questo si chiamano gli ordini nobili. Questo palco nel quale si poteva stare in dodici senza pigiarsi, era costato molto meno che non sarebbero costati quattro posti in una loggia all’Ambigu. Alberto aveva ancora un’altra speranza, ed era, che se giungeva a prendere un posto nel cuore di qualche bella romana, ciò lo avrebbe naturalmente condotto puranche a conquistare un posto nella carrozza, e per conseguenza a vedere il corso dall’alto di una carrozza aristocratica, e da una finestra principesca.
Tutte queste considerazioni lo rendevano dunque di una estrema mobilità. Egli volgeva le spalle agli attori, sporgeva per metà fuori del palco, guardando tutte le più belle donne con un cannocchiale lungo sei pollici, cosa che non invitava alcuna signora a ricompensare di un solo sguardo, anche di semplice curiosità, tutti i movimenti che si dava Alberto. Di fatto ciascuna parlava dei suoi affari, dei suoi piaceri, del carnevale che cominciava la dimane, senza fare attenzione nè agli attori, nè alla musica, ad eccezione dei migliori motivi, chè allora ciascuno si volgeva verso il palco scenico, sia per sentire un recitativo di Coselli, sia per applaudire a qualche bella nota del Moriani, sia per gridare bravo alla Spech. Indi le particolari conversazioni riprendevano il loro corso abituale. Verso la fine del secondo atto si aprì la porta di un palco rimasto vuoto fino allora, e Franz vide entrarvi una persona alla quale egli aveva avuto l’onore di essere stato presentato a Parigi e che credeva ancora in Francia. Alberto vide il movimento che fece il suo amico a questa comparsa, e volgendosi a lui:
— Conoscete forse quella signora? diss’egli.
— Sì, che ve ne pare? — Graziosa, mio caro, e bionda. Oh! che capelli adorabili! È una francese? Come si chiama? — La Contessa G***.
— Oh! io la conosco di nome, esclamò Alberto; dicono che sia tanto spiritosa quanto è bella. Per bacco! avrei potuto farmi presentare a lei a Parigi all’ultimo ballo della de Villefort, ov’era, e non la ho curata, sono un gran stupido!
— Volete che io ripari a questo torto? domandò Franz.
— Come! voi la conoscete con abbastanza intimità per presentarmi nel suo palco? — Io non ho avuto l’onore che di parlarle tre o quattro volte in mia vita, ma a tutto rigore ciò basta per non commettere una inconvenienza.
In questo momento la contessa riconobbe Franz, e colla mano gli fece un saluto grazioso, al quale egli rispose con un rispettoso inchino di testa. — Ma mi sembra che siate molto nelle sue grazie? disse Alberto.
— Ebbene! ecco ciò che v’inganna, e che a noi francesi farà fare sempre mille sciocchezze all’estero; ed è di sottomettere tutto ai nostri punti di vista parigini. Nella Spagna, e soprattutto in Italia, non giudicate mai della intimità delle persone sulla libertà dei rapporti. Noi ci siamo trovati simpatici colla contessa, ed ecco tutto.
— Simpatici di cuore? domandò ridendo Alberto.
[172]
— No, di spirito; rispose seriamente Franz.
— Ed in quale occasione? — Nell’occasione di una passeggiata al Colosseo, come quella che abbiamo fatto insieme.
— Al chiaro di luna? — Sì. — Soli? — Quasi.
— Ed avete parlato... — Di morti.
— Ah! doveva essere una cosa assai piacevole. Ebbene vi prometto che se avrò la fortuna d’essere il cavaliere della bella contessa in una simile passeggiata, non le parlerò che di vivi.
— E forse farete male.
— Frattanto, presentatemi alla contessa come mi avete promesso. — Subito che sarà calato il sipario.
— Quanto è lungo questo diavolo di primo atto!
— Ascoltate il finale, è bellissimo, e Coselli lo canta mirabilmente. — Sì, ma che portamento!
— Non si può però essere più drammatici della Spech.
— Quando si è intesa la Sontag e la Malibran...
— Non trovate eccellente il metodo di Moriani?
— A me non piacciono i bruni che cantano biondo.
— Ah! mio caro, disse Franz volgendosi, mentre Alberto continuava a puntare col suo cannocchiale, in verità siete molto difficile a contentarvi.
Finalmente calò il sipario con grande soddisfazione del visconte di Morcerf, che prese il cappello, dette colla mano un’assestata ai capelli, alla cravatta, ai manichetti, e fe’ osservare a Franz ch’egli aspettava. E siccome la contessa, che Franz interrogava con lo sguardo, avevagli fatto un segno impercettibile cogli occhi, per fargli conoscere che sarebbe stato il ben venuto, così non tardò a soddisfare la premura di Alberto, e mentre faceva il giro del corridoio, il compagno che lo seguiva approfittava di questi momenti per accomodare le false pieghe, che i movimenti del collo avevano potuto produrre sul colletto della camicia, e sui rovesci dell’abito; in questo batterono alla porta del N. 4 che era il palco occupato dalla contessa. Prestamente il giovine che sedeva a lato della contessa sul davanti del palco, si alzò cedendo il posto, giusta il costume italiano, al nuovo arrivato, che deve poi cederlo a sua volta quando entra un’altra visita.
Franz presentò Alberto alla contessa come uno dei giovani parigini più distinti per la sua posizione sociale, e pel suo spirito, cosa d’altra parte vera, perchè a Parigi e nel circolo in cui viveva Alberto era ritenuto per un cavaliere irreprensibile. Egli aggiunse che afflitto di non aver potuto approfittare del soggiorno della contessa a Parigi per farsi presentare a lei, lo aveva incaricato di riparare a questo errore, missione della quale si disimpegnava pregando la contessa, presso la quale aveva bisogno egli stesso di un introduttore, di perdonare la sua indiscretezza. La contessa rispose facendo un grazioso saluto ad Alberto e stendendo la mano a Franz. Invitato da lei, Alberto prese il posto rimasto vuoto sul davanti, e Franz si assise nella seconda fila presso la contessa.
Alberto aveva ritrovato un eccellente argomento di conversazione, era Parigi; parlava alla contessa delle loro comuni conoscenze. Franz capì ch’egli era sul terreno che gli conveniva, lasciollo andare, e chiestogli il gigantesco cannocchiale, si mise anch’egli ad esplorare il teatro. Sola, sul davanti di un palco al terz’ordine, in faccia ad essi, era una donna quanto può dirsi bella, con un costume alla greca, portato con tanta disinvoltura, che compariva evidente essere quello il suo costume ordinario. Dietro ad essa, nell’ombra delineavasi la forma di un uomo di cui era impossibile distinguere il viso. Franz interruppe la conversazione di Alberto colla contessa per chiedere a quest’ultima se conosceva la bella Albanese che tanto era degna di attirare l’attenzione non solo degli uomini, ma ben anche delle donne. — No, diss’ella, tutto ciò che io so, si è che trovasi a Roma dal principio della stagione: perchè all’apertura del teatro l’ho veduta ove è ora, e da un mese non è mancata ad una rappresentazione, ora accompagnata dall’uomo che è con lei in questo momento, ora semplicemente seguita da un domestico moro.
— Come la trovate contessa? — Estremamente bella. Medora doveva rassomigliare a questa donna.
Franz e la contessa si contraccambiarono un sorriso; poi questa riprese il dialogo con Alberto, e Franz, seguitò a fissare la bella Albanese. Il sipario si alzò per la rappresentazione del ballo. Era uno dei buoni balli italiani, messo in iscena dal famoso Henry, che come coreografo, si è fatta in Italia una riputazione colossale, che poi il disgraziato perdè al Teatro Nautico, uno di quei balli ove dal primo personaggio fino all’ultima comparsa [173] tutti prendono una parte così attiva all’azione, che 150 persone fanno nello stesso tempo lo stesso gesto, ed alzano insieme o il medesimo braccio, o la medesima gamba. Questo ballo era intitolato Dorliska.
Franz era troppo preoccupato della sua bella greca per potersi occupare del ballo. Quanto a lei, prendeva un manifesto piacere a questo spettacolo, piacere che formava una singolare opposizione colla non curanza di quello che l’accompagnava, e che durante tutta la rappresentazione coreografica non fece un movimento, sembrando che in mezzo al rumore infernale che facevano le trombe, i cembali, e i cappelli chinesi in orchestra, egli si godesse le celestiali dolcezze di un sonno pacifico.
Finalmente il ballo terminò, ed il sipario calò in mezzo agli applausi frenetici di una platea entusiasta. Mercè quest’abitudine di separare col ballo i due atti dell’opera, gli intermezzi fra un atto e l’altro sono cortissimi in Italia: i cantanti hanno tutto il tempo di riposarsi e di fare i loro travestimenti mentre che i ballerini eseguiscono le loro danze. L’introduzione del second’atto cominciò. Franz vide che, ai primi colpi d’archetto, il dormiente andava alzandosi lentamente, e si avvicinava alla greca, che si volse per dirigerli qualche parola, quindi tornò ad appoggiarsi al davanti del palco. La figura però dell’interlocutore si teneva sempre fra l’ombra, e Franz non poteva distinguerne i tratti del volto.
Rialzato il sipario, gli attori attirarono necessariamente l’attenzione di Franz: gli occhi lasciarono per un momento il palco della bella greca per dirigersi alla scena. Il secondo atto, come ognuno sa, comincia col duetto del sogno: Parisina, dormendo, lasciasi sfuggire, davanti ad Azzo, il segreto del suo amore per Ugo. Lo sposo tradito passa per tutti i furori della gelosia, fino a che, convinto che la moglie è infedele, la sveglia per annunziarle la sua vicina vendetta. Questo duetto è uno dei più belli, dei più espressivi, dei più terribili usciti dalla penna di Donizetti. Franz lo sentiva per la terza volta, e quantunque non passasse per un melomaniaco arrabbiato, produsse su lui un effetto profondo. Egli per conseguenza stava per congiungere i suoi applausi a quelli del pubblico, allorchè le sue mani, atteggiate a percuotersi, restarono allontanate; ed i bravi che gli sfuggivano di bocca, si estinsero sulle labbra. L’uomo del palco si era alzato in piedi e la sua testa veniva rischiarata dalla luce: Franz riconosceva in lui il misterioso abitante di Monte-Cristo, quello che la sera innanzi gli era sembrato di aver riconosciuto fra le rovine del Colosseo alla voce ed alla persona. Non v’era più dubbio, lo strano viaggiatore abitava in Roma. Senza fallo la fisonomia di Franz era in armonia al turbamento che gettava nel suo spirito quest’apparizione, poichè la contessa lo guardò, scoppiò in una risata, e gli chiese ciò che avesse. — Signora contessa, rispose Franz, poco fa vi ho domandato se conoscevate quella donna albanese; ora vi domanderò se conoscete suo marito.
— Niente più di lei, rispose la contessa.
— L’avete mai osservato? — Ecco una domanda alla francese! Sapete bene che per noi italiane non vi ha alcun altro uomo al mondo se non che quello che amiamo!
— È giusto, rispose Franz. — In ogni modo, diss’ella applicando ai suoi occhi il cannocchiale di Alberto, e dirigendolo verso il palco, egli dev’essere un qualche disotterrato, qualche morto uscito dalla tomba col permesso dei becchini, poichè mi sembra spaventosamente pallido.
— Egli è sempre così, rispose Franz. — Voi dunque lo conoscete? domandò la contessa; allora sono io che vi domando chi è. — Credo di averlo veduto altre volte, e mi sembra di riconoscerlo. — Infatto, diss’ella, facendo un movimento colle sue belle spalle, come se un brivido le percorresse le vene, capisco che quando un tal uomo si è veduto una volta non si dimentica più.
L’effetto che Franz aveva provato non era dunque un’impressione particolare, perchè un altro l’aveva risentita al pari di lui. — Ebbene! domandò allora alla contessa dopo che l’ebbe guardato una seconda volta, che pensate di quell’uomo? — A me sembra che sia lord Ruthwen in carne ed ossa. — Infatto questo nuovo ricordo di Lord Byron colpì Franz: se qualcuno poteva fargli credere l’esistenza dei Vampiri, era quest’uomo.
— Bisogna che io sappia chi è, disse Franz alzandosi.
— Oh! no, gridò la contessa; no, non mi lasciate, ho calcolato su voi per accompagnarmi a casa, ed or vi trattengo.
— Come! veramente, gli disse Franz, accostandosele all’orecchio, avete paura.
— Ascoltate, gli diss’ella, Byron mi [174] ha giurato che credeva ai Vampiri, mi ha assicurato di averne veduti, e me ne ha descritto i loro visi; ebbene! assomigliano perfettamente a quell’uomo là, con i capelli neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma, quel pallone mortale; poi aggiungete che non è con una donna come tutte le altre; è con una straniera... una greca... una scismatica... senza dubbio con una maga al par di lui... ve ne prego, non partite. Domani vi metterete sulle ricerche, se così vi aggrada, ma questa sera io vi dichiaro che vi ritengo impegnato. — Franz insistè.
— Ascoltate, diss’ella, alzandosi, io me ne vado; non posso fermarmi sino alla fine dello spettacolo, perchè ho gente in casa che mi aspetta; sareste così poco galante da negarmi la vostra compagnia? — Franz non aveva altra risposta a dare che prendere il cappello, aprire la porta, e presentare il braccio alla contessa. E questo fece. La contessa era veramente molto commossa: lo stesso Franz non poteva sfuggire ad un certo terrore superstizioso, tanto più naturale in quanto che nella contessa era il prodotto di una sensazione distinta, ed in lui il resultato di strani ricordi.
Nel salire in carrozza sentì che la contessa tremava. Egli la ricondusse fino a casa: non era vero che era attesa; gliene fece perciò dei rimproveri.
— In verità, diss’ella, io non mi sento bene ed ho bisogno di esser sola, la vista di quell’uomo mi ha tutta sconvolta.
Franz fece atto di ridere. — Non ridete, gli diss’ella, da altra parte voi non ne avete la volontà. Promettetemi una cosa. — E quale? — Promettetemela. — Tutto quel che vorrete, eccetto di rinunziare a scoprire chi è quell’uomo. Ho dei motivi che non posso dirvi per desiderare di sapere chi sia, donde venga, e dove vada. — Donde venga, nol so, ma dove vada, vel posso dire a colpo sicuro; va all’inferno.
— Ritorniamo alla promessa che volevate esigere da me. — Ah! trattasi di tornare direttamente all’albergo e procurare di non veder questa sera quell’uomo. Vi è una certa affinità fra le persone che si lasciano e quelle che si raggiungono; non vogliate servire di conduttore fra quest’uomo e me. Domani corretegli dietro come più vi aggrada, ma non me lo presentate mai, se non volete vedermi morire di paura. Dopo ciò buona sera, cercate di dormir bene, quanto a me sento che non dormirò — A queste parole la contessa si allontanò da Franz, lasciandolo irresoluto per sapere se erasi divertita alle sue spalle, o se aveva veramente risentita la paura espressa.
Ritornando all’albergo, Franz ritrovò Alberto in veste da camera, con larghi calzoni, e voluttuosamente disteso sopra una poltrona fumando un sigaro.
— Ah! siete voi! diss’egli; in fede mia non vi aspettavo che domattina. — Mio caro Alberto, rispose Franz, son ben persuaso di trovar l’occasione di dirvi una volta per sempre che avete la più falsa idea delle donne italiane; sembrami pertanto che le vostre sconfitte amorose avrebbero dovuto farvela perdere.
— Che volete, non c’è niente da capire con queste diavole di donne; esse vi danno la mano, ve la stringono, vi parlano a bassa voce all’orecchio, si fanno riaccompagnare a casa: con un quarto di questo modo di fare una parigina perderebbe la sua riputazione.
— Eh! questo accade precisamente perchè esse nulla hanno a nascondere, perchè vivono in pieno giorno, che le donne usano tanto pochi riguardi nel bel paese là ove il sì suona come dice Dante. D’altra parte vedeste bene che la contessa ha avuto veramente paura.
— Paura! di che? di quell’onest’uomo che era in faccia a noi con quella bella greca? Ma io ho voluto vederci chiaro quando sono usciti, e sono loro andato incontro nel corridoio. Non so dove diavolo avete prese tutte le vostre idee dell’altro mondo! è un bellissimo giovine messo molto elegantemente, e gli abiti hanno l’aspetto d’esser fatti in Francia da Blin o da Humann. È un poco pallido, è vero, ma voi sapete che il pallore è un marchio di distinzione.
Franz sorrise, perchè Alberto aveva molta pretensione di esser pallido.
— Io pure, disse Franz, sono convinto che le idee della contessa su quest’uomo non hanno senso comune. Ha egli parlato vicino a voi ed avete intesa qualcuna delle sue parole?
— Egli ha parlato, ma in dialetto; ho riconosciuto l’idioma a qualche parola greca sfigurata. Bisogna che sappiate, mio caro, che in collegio io era molto valente nel greco.
— Parlava adunque un dialetto greco?
— È probabile. — Non vi ha dubbio, mormorò Franz, è lui. — Che dite?... — Niente... ma che facevate voi là?
— Io vi preparava una [175] sorpresa. — Quale? — Sapete che è impossibile di ritrovare una carrozza? — Perbacco! dopochè abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente possibile di fare. — Ebbene! io ho un’idea meravigliosa.
Franz guardò Alberto, come un uomo che non avesse gran fiducia nella sua immaginazione. — Mio caro, disse Alberto, voi mi onorate di uno sguardo tale, che meriterebbe che vi domandassi una soddisfazione. — Io sono disposto a darvela, amico mio, se la vostra idea è tanto ingegnosa quanto dite. — Ascoltate. — Ascolto. — Non v’è mezzo di procurarsi una carrozza?
— No. — Neppur cavalli?
— No, egualmente. — Ma sarà facile procurarsi un carretto? — Forse. — E un paio di bovi? — È probabile.
— Ebbene! mio caro, ecco ciò che ci conviene. Io faccio ornare il carretto, ci mascheriamo da mietitori napoletani, e rappresentiamo al naturale il magnifico quadro di Leopoldo Robert. Se per una maggiore rassomiglianza la contessa volesse vestirsi alla foggia delle donne di Pozzuoli o di Sorrento, compirebbe la mascherata, ed ella è tanto bella che verrebbe presa per l’originale del quadro.
— Perbacco! gridò Franz, questa volta avete ragione, ecco un’idea veramente felice.
— E tutta nazionale, rinnovata dai re dei poltroni, mio caro. Ah! signori romani voi credete che si voglia andare a piedi come lazzaroni, e ciò perchè avete penuria di carrozze e di cavalli, ebbene! ne inventeremo.
— E avete voi già partecipato a qualcuno questa trionfante invenzione? — Al nostro albergatore. Quando sono ritornato, l’ho fatto salire, e gli ho esposti i miei desideri; egli mi ha assicurato che non vi è nulla di più facile. Io voleva far dorare le corna dei bovi, ma egli mi ha detto che ciò richiederebbe almeno tre giorni: bisognerà dunque che passiamo sopra a questa superfluità. — E dove è egli? — Chi?
— Il nostro albergatore.
— In cerca del necessario, domani forse sarebbe tardi.
— Di maniera che ci darà la risposta questa stessa sera?
— Io l’aspetto. — A queste parole la porta si aprì, e Pastrini avanzò la testa: — È permesso? diss’egli.
— Certamente, gridò Franz. — Ebbene! disse Alberto, avete rinvenuto il carretto ricercato ed i bovi domandati?
— Ho ritrovato anche meglio di ciò, rispose egli con un’aria indicante essere perfettamente soddisfatto di sè stesso.
— Ah! mio caro Pastrini, guardatevi, disse Alberto; il meglio è nemico del bene.
— Le V. E. si fidino di me, disse Pastrini col tuono di persona sicura di sè.
— Ma finalmente che c’è? domandò Franz a sua volta.
— Sapete, disse l’albergatore, che il conte di Monte-Cristo abita su questo medesimo piano.
— Credo bene, che lo sappiamo, disse Alberto, poichè è per lui che noi siamo alloggiati come due studenti della strada Saint-Nicolas-du-Chardonnet.
— Ebbene! egli sa il vostro impaccio, e vi offre col mio mezzo due posti nella sua carrozza, e due posti alle sue finestre del palazzo Ruspoli.
Alberto e Franz si guardarono.
— Ma, domandò Alberto, dobbiamo accettare l’offerta di questo straniero? di un uomo che non conosciamo?
— Che uomo è questo conte di Monte-Cristo? domandò Franz all’albergatore.
— Un ricchissimo signore siciliano o maltese, non lo so precisamente, ma nobile come un Borghesi, e ricco come una miniera d’oro.
— Mi sembra, disse Franz, che se questo signore avesse avuto le maniere che decanta il nostro albergatore, avrebbe dovuto farci giungere il suo invito in altro modo, o con un biglietto, o...
In questo momento fu battuto alla porta.
— Entrate, disse Franz.
Un domestico in elegante livrea comparve sulla soglia della camera: — Vengo per parte del conte di Monte-Cristo a recare questo biglietto pel sig. Franz di Épinay e pel sig. visconte Alberto di Morcerf, diss’egli.
E consegnò all’albergatore il biglietto che questi passò ai giovani. — Il sig. conte di Monte-Cristo, continuò il domestico, domanda a questi signori il permesso di potersi presentare a loro, come vicino, domattina; egli avrà l’onore d’informarsi in che ora saranno visibili.
— In fede mia, disse Alberto a Franz, non vi è niente a ridire; qui c’è tutto.
— Dite al conte, rispose Franz, che sarà nostro l’onore di fargli la visita. — Il domestico si ritirò. — Ecco ciò che si chiama fare un assalto di eleganza, disse Alberto, andiamo avanti! davvero avete ragione, Pastrini, il vostro conte di Monte-Cristo è un uomo che conosce perfettamente le convenienze.
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— Allora voi accettate la sua offerta, disse Pastrini.
— In fede mia, sì, rispose Alberto. Pure ve lo confesso, mi dispiace pel nostro carretto da mietitori; e se non vi fosse stata la finestra del palazzo Ruspoli per compensare ciò che perdiamo, credo che ritornerei al mio primo disegno: che ne dite Franz?
— Dico che sono precisamente le finestre del palazzo Ruspoli che mi hanno fatto risolvere ad accettare, rispose Franz.
Infatto quest’offerta dei due posti ad una finestra del palazzo Ruspoli aveva ricordato a Franz la conversazione intesa alle rovine del Colosseo, fra lo sconosciuto ed il Trasteverino, conversazione nella quale l’uomo dal mantello scuro si era impegnato di ottenere la grazia del condannato. Or se questi era, come tutto lo faceva credere a Franz, il medesimo che gli era apparso al teatro Argentina, egli lo riconoscerebbe senza dubbio, ed allora non avrebbe più alcun ostacolo a soddisfare la sua curiosità sul conto di lui.
Franz passò buona parte della notte nel pensare alle due apparizioni, e nel desiderare la dimane. Infatto, la dimane tutto doveva schiarirsi, e a meno che il suo ospite di Monte-Cristo non possedesse l’anello di Gyges, e mercè questo la facoltà di rendersi invisibile, era evidente che questa volta non gli sfuggirebbe. Si svegliò prima delle otto.
In quanto ad Alberto, siccome non aveva gli stessi motivi di Franz per essere mattinante, dormiva ancora tranquillamente. Franz fece chiamare l’albergatore, che si presentò coi soliti ossequi. — Pastrini, gli disse egli, non vi deve essere oggi una esecuzione?
— Sì: eccellenza; ma se lo domandate per avere una finestra è troppo tardi.
— No, rispose Franz, d’altra parte se volessi assolutamente vedere questo spettacolo, credo che ritroverei un posto sul monte Pincio.
— Oh! io presumeva che V. E. non volesse mettersi con tutta quella canaglia di cui il Pincio è in qualche modo l’anfiteatro naturale.
— È probabile che non vi andrò, disse Franz; ma desidererei qualche particolarità. — Quale?
— Vorrei sapere il numero dei condannati, i loro nomi, e il genere del loro supplizio.
— Non poteva cadere più in acconcio, eccellenza; precisamente in questo momento mi hanno portato le tavolette.
— Che cosa sono queste tavolette?
— Le tavolette sono quadretti di legno che vengono attaccati agli angoli delle contrade il dì prima dell’esecuzione e sulle quali sono inscritti i nomi dei condannati, la causa della loro condanna ed il genere di supplizio. Questo avviso ha per iscopo d’invitare i fedeli a pregar Dio di concedere ai colpevoli un sincero pentimento.
— E ve le portano perchè uniate le vostre preghiere a quelle dei fedeli? domandò Franz.
— No, eccellenza, io me la sono intesa con quello che le attacca, e me ne porta una copia, come un altro mi porterebbe un avviso dello spettacolo, affinchè se qualcuno dei miei forestieri desidera assistere all’esecuzione, sia prevenuto.
— Ma questa è proprio un’attenzione delicata!
— Oh! disse Pastrini, non faccio per vantarmi, ma cerco di fare tutto il possibile per soddisfare i nobili avventori che mi onorano della loro confidenza.
— Me ne avveggo, e lo ripeterò a chi vorrà intenderlo, siatene pur sicuro. Frattanto desidererei una di queste tavolette. — È presto fatto, disse l’albergatore, aprendo la porta, ne ho fatto mettere una qui sul pianerottolo.
Uscì, staccò la tavoletta e la presentò a Franz. Ecco le parole dell’affisso patibolario.
«Si rende noto a tutti che martedì 22 febbraio, primo giorno di carnevale, saranno per decreto del Tribunale della Rota, giustiziati sulla piazza del popolo i nominati Andrea Rondolo, reo di assassinio sulla persona di un rispettabilissimo cittadino di Roma; ed il nominato Peppino detto Rocca Priori, convinto di complicità col detestabile bandito Luigi Vampa, e gli uomini della sua banda. Il primo sarà impiccato, ed il secondo decapitato. Le anime caritatevoli sono pregate di domandare a Dio un sincero pentimento per questi due infelici condannati.»
Questo era ciò che Franz aveva inteso fra le rovine del Colosseo, e non era stata cambiata alcuna cosa al programma: i nomi dei condannati, la causa del supplizio e il genere di esecuzione erano esattamente gli stessi. Così, secondo ogni probabilità, il Trasteverino non era altro che il bandito Luigi Vampa, e l’uomo dal mantello scuro Sindbad il marinaro, che a Roma come a Portovecchio e a Tunisi proseguiva il corso delle sue filantropiche spedizioni.
[177]
Frattanto il tempo passava, erano le nove, e Franz si disponeva di andare a svegliare Alberto, allorquando con sua grande sorpresa lo vide uscir di camera vestito di tutto punto.
— Ebbene! disse Franz all’albergatore, ora che siamo all’ordine tutti e due, credete che potremmo presentarci al conte di Monte-Cristo?
— Certamente; egli ha l’abitudine di alzarsi di buon mattino, e sono sicuro che è alzato da più di due ore.
— E credete che non sarà un’indiscretezza il fargli visita a quest’ora? — No, certamente.
— In questo caso, Alberto se siete pronto...
— Perfettamente pronto. — Andiamo a ringraziare il nostro vicino della sua cortesia. — Andiamo.
Franz e Alberto non avevano che il pianerottolo da attraversare. L’albergatore li precedeva, e suonò in loro vece; un domestico venne ad aprire.
— I signori Francesi, disse l’albergatore.
Il domestico s’inchinò e fece loro segno di entrare. Essi traversarono due camere ammobigliate con un lusso che non credevano ritrovare nell’albergo di Pastrini, e furono introdotti in un salotto di una perfetta eleganza. Un tappeto di Turchia era steso sul pavimento, e i mobili più comodi offrivano i loro cuscini imbottiti e presentavano gli schienali inclinati in addietro. Magnifici quadri di pennello maestro, frammezzati da trofei di splendidissime armi, erano appesi alle pareti, e ricche portiere di trapunto pendevano davanti a tutte le aperture.
— Se le loro eccellenze vogliono sedersi, disse il domestico, io vado ad avvisare il signor conte.
E disparve da una porta.
Al momento in cui questa si aprì, il suono di una guzla giunse fino ai due amici, ma si estinse subito; la porta, richiusa quasi nello stesso momento che fu aperta, non aveva lasciato passare nel salone che, per così dire, una buffata d’armonia. Franz ed Alberto si cambiarono uno sguardo, e tornarono a volgere la loro attenzione sui mobili, sui quadri e sulle armi. A questa seconda ispezione tutto sembrò loro ancor più magnifico che alla prima.
— Ebbene! domandò Franz al suo amico, che ne dite?
— In fede mia, mio caro, dico che bisogna che il nostro vicino sia un qualche agente di cambio che ha giuocato sui ribassi dei fondi spagnuoli, o qualche principe che viaggia in incognito. — Zitto, gli disse Franz, questo è ciò che sapremo in breve, poichè eccolo.
Infatto il rumore di una porta che girava sui cardini si fe’ sentire ai visitatori, e quasi subito fu alzata una portiera che lasciò passare il proprietario di tutte queste ricchezze.
Alberto gli andò incontro, ma Franz rimase al suo posto.
Quegli che entrava era infatto l’uomo dal mantello scuro del Colosseo, lo sconosciuto del palco, l’ospite misterioso di Monte-Cristo.