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39. — LA COLAZIONE.
日期:2021-06-29 15:31  点击:250
 Nella casa strada Helder in cui Alberto de Morcerf aveva dato in Roma convegno al conte di Monte-Cristo, tutto veniva preparato nel mattino del 21 maggio, per fare onore alla parola data dal giovine. Alberto abitava un padiglione posto sull’angolo di un gran cortile rimpetto ad un altro stabile deputato ai comuni. Due sole finestre di questo padiglione guardavano sulla strada, delle altre tre davano sul cortile, e due sul giardino. Fra questo cortile ed il giardino, s’ergeva sebbene fabbricata con cattivo gusto d’architettura imperiale, l’abitazione elegante e vasta del conte e della contessa de Morcerf. Su tutta la larghezza del fabbricato [205] girava un muro, che metteva sulla strada, ad intervalli guernito da sovrapposti vasi di fiori, e diviso nel mezzo da un gran cancello a lance dorate, che serviva per le entrate di parata: una piccola porta, addossata all’abitazione del portinaro dava passaggio ai padroni e servitori quando entravano o uscivano a piedi. Nella scelta del padiglione destinato per abitazione d’Alberto si scorgeva la delicata previdenza di una madre, che non volendo dividersi dal figlio, aveva però capito che un giovine dell’età d’Alberto aveva bisogno di tutta la sua libertà. Dall’altra parte dobbiamo convenirne, si scorgeva pure l’intelligente egoismo del giovine, perduto in questa vita libera ed oziosa, propria dei figli di famiglia, al quale veniva, come all’uccello, dorata la sua gabbia. Da queste due finestre che guardavano sulla strada, Alberto poteva fare le sue esplorazioni all’esterno: vista tanto necessaria ai giovani che vogliono vedere passare innanzi ai loro occhi il proprio orizzonte, fosse pur quello della strada; fatta la sua esplorazione, se gli sembrava meritare un esame più profondo, Alberto poteva, per darsi alle proprie ricerche, uscir da una piccola porta che era dirimpetto all’altra di cui abbiamo parlato presso all’abitazione del portinaro, e che merita una particolare menzione.
 
Era una piccola porta, che sarebbesi detto dimenticata da tutti dal momento che fu fabbricata la casa, e sarebbesi creduta condannata a rimaner sempre chiusa, tanto sembrava meschina e polverosa, ma i catenacci e i gangheri erano talmente bene unti, che indicavano l’uso continuo e misterioso. Questa piccola porta segreta faceva concorrenza colle altre due, e si burlava del portinaro, di cui sfuggiva alla vigilanza ed alla responsabilità, aprendosi come la famosa porta della caverna delle Mille e una notte, a guisa del Sesamo incantato di Alì-Babà, per mezzo di qualche parola cabalistica, o di qualche segno convenuto pronunciato dalla più dolce voce, od eseguito dalla più bella mano del mondo.
 
Alla fine di un corridoio vasto e silenzioso, col quale comunicava e che formava anticamera, s’apriva a destra la sala da pranzo d’Alberto, che guardava il cortile, ed a sinistra la sua piccola camera da ricevere che guardava il giardino. Cespugli, e piante parassite si aprivano a ventaglio davanti alle finestre, e nascondevano al cortile ed al giardino l’interno di queste camere, le sole al piano terreno, che potevano essere esposte agli sguardi degl’importuni. Al primo piano queste due camere si ripetevano, aumentate da una terza che corrispondeva alla sottoposta anticamera: erano la camera da letto, quella da ricevere, ed un gabinetto.
 
La sala del piano terreno era una specie di divano algerino destinato ai fumatori. Il gabinetto del primo piano metteva nella camera da letto, e per una porta invisibile aveva comunicazione colle scale. Si ponga mente alle cautele.
 
Al di sopra di questo primo piano spaziava un vasto studio, ingrandito coll’atterrare i muri di divisione, pandemonio che disputava l’artista al damerino. Là erano rifugiati ed affastellati tutti i successivi capricci d’Alberto: i corni da caccia, i bassi, i flauti, un’orchestra completa, poichè per un momento ebbe non il gusto ma la fantasia della musica. I cavalletti, i tavolozzi, i pastelli, poichè alla fantasia della musica era succeduta la fatuità della pittura: finalmente i fioretti, i guanti da pugillatore, gli squadroni, e i bastoni d’ogni genere, poichè, seguendo il costume dei giovani alla moda, Alberto coltivava, con maggiore perseveranza di quel che non aveva fatto la musica e la pittura, le tre arti che formano il compimento dell’educazione da Lions, vale a dire la scherma, i pugni, ed il bastone, ed in questa camera destinata agli esercizi corporali, riceveva successivamente, Grisier, Cooks, e Carlo Lacour. Il rimanente della mobilia di questa sala privilegiata, si componeva di vecchi forzieri dei tempi di Francesco I, ripieni di porcellane della China, di vasi del Giappone, di terraglie di Luca della Robbia e di piatti di Bernardo di Palissy; di antichi seggioloni, ove forse erasi assiso Enrico IV o Sully, Luigi XIII o Richelieu, poichè due di essi ornati di uno scudo intagliato, ove sopra un campo azzurro brillavano i tre gigli di Francia sormontati dalla corona reale, uscivano visibilmente dal guardaroba del Louvre, o per lo meno da qualche castello reale. Sur essi erano gettate alla rinfusa ricche stoffe a vivi colori, tinte al sole della Persia o ricamate dalle dita delle donne di Calcutta o di Chandernayor. Ciò che si stessero a far là queste stoffe non si sarebbe potuto dire; aspettavano, ricreando gli occhi, un destino sconosciuto anche al loro stesso proprietario, e mentre aspettavano, rischiaravano l’appartamento coi loro riflessi dorati. Nel posto più apparente sorgeva un piano forte, fabbricato da Roller e Blanchet di legno di rosa, della forma [206] delle nostre sale di Lilliputiens, racchiudendo ciò non pertanto un’orchestra nella sua stretta e sonora capacità, e sopraccaricato dai capi d’opera di Beethoven, di Weber, di Mozart, d’Haydn, di Crètry, e di Porpora.
 
Quindi, lungo tutti i muri, sopra le porte, nel soffitto, erano disposte spade, pugnali, stocchi, mazze dorate, e complete armature, damascate, incrostate; arborari, massi di minerali, uccelli imbottiti di crini, che tenevano le ali aperte ad un volo immobile, colle penne color di fuoco, col becco che non chiudono mai. Non occorre dire, che questa era la stanza di predilezione di Alberto. Però, il giorno del convegno, il giovine in abito di mezza gala aveva fissato il suo quartier generale nel salotto del pian terreno. Ivi, sur una tavola, circondata da un divano largo e morbido, tutti i tabacchi sconosciuti, dal giallo di Pietroburgo fino al nero del Sinai passando per il porto-ricco, e il latakiè, erano racchiusi in vasi di terraglia smaltata che sono l’adorazione degli olandesi. Vicini ad essi, in cassette di legni odorosi, erano schierati per ordine di grandezza, e di qualità i sigari puros, regalia, avana ecc.; finalmente in un armadio aperto una collezione di pipe di Germania, di Turchia, coi bocchini d’ambra, ornate di corallo, e di fregi incrostati d’oro, con lunghe canne di marrocchino ripiegate a guisa di serpenti, aspettavano il capriccio o la simpatia dei fumatori. Alberto aveva presieduto da sè stesso all’ordinamento, o piuttosto a quel disordine simmetrico che, dopo il caffè i convitati di una colazione alla moderna amano di osservare per mezzo al fumo che loro sfugge di bocca dirigendosi al soffitto in lunghe e capricciose spirali.
 
Alle 10 meno un quarto entrò un cameriere, che unitamente ad un groom di 15 anni, il quale parlava soltanto l’inglese, e rispondeva al nome di John, erano i soli domestici di Alberto. Ben inteso ch’egli poteva disporre del cuoco di casa nei giorni ordinari, e negli straordinari il cacciatore del conte era a sua disposizione. Questo cameriere, che si chiamava Germano e che godeva tutta la confidenza del giovine padrone, teneva in mano un pacco di giornali che depose sul tavolo, ed alcune lettere che consegnò ad Alberto, il quale vi gettò sopra uno sguardo indifferente, ne scelse due con minuti caratteri, e con sopraccarta profumata, le dissigillò, e le lesse con qualche attenzione.
 
— Come sono arrivate queste lettere? domandò egli.
 
— Una è venuta per la posta, l’altra l’ha portata il cameriere della sig.ª Danglars.
 
— Fate dire alla sig.ª Danglars che accetto il posto che mi offre nel suo palco... aspettate, in giornata passerete da Rosa; le direte che andrò, come m’invita a cenare da lei uscendo dall’Opera, e le porterete sei bottiglie di vino assortito di Cipro, di Xeres, di Malaga ed un barile di ostriche d’Ostenda... prendete le ostriche da Borel, e raccomandategli che sono per me.
 
— A che ora comanda sia in ordine la tavola?
 
— Che ora abbiamo! — Manca un quarto alle dieci.
 
— Ebbene ordinate per le 10 e mezzo precise... Debray sarà forse obbligato di andare al suo ministero... e d’altra parte... (Alberto consultò il suo taccuino) questa è l’ora che ho indicata al conte, li 21 maggio alle 10 e mezzo a. m.; quantunque non faccia gran fondamento sulla promessa, desidero di essere esatto. A proposito sapete se la sig.ª contessa sia alzata?
 
— Se il sig. Visconte lo desidera, andrò ad informarmene.
 
— Sì... le chiederete una delle cassettine da liquori, poichè la mia è incompleta: le direte che avrò l’onore d’andar da lei verso le tre, e che le domando permesso di presentarle un signore.
 
Il cameriere uscito, Alberto si gettò sul divano, stracciò la fascetta a due o tre giornali, guardò gli annunzi degli spettacoli, fece la boccaccia vedendo che si rappresentava un’opera e non un ballo; cercò invano quegli annunzi di profumeria un oppiato pel dolore dei denti di cui gli era stato parlato, e gettò l’uno dopo l’altro i tre giornali più in voga a Parigi, mormorando in mezzo ad uno sbadiglio prolungato:
 
— In verità questi giornali divengono di giorno in giorno sempre più noiosi.
 
In questo mentre una carrozza si fermò avanti la porta, ed un momento dopo il cameriere rientrò annunziando il signor Luciano Debray. Un giovine biondo, alto, pallido, coll’occhio grigio e fermo, colle labbra sottili e fredde, coll’abito blu a bottoni cisellati, la cravatta bianca, una lente di cristallo sospesa ad un filo di seta, e che per uno sforzo del tendine sopracciliare e del tendine zigomatico arrivava a fissare avanti la cavità dell’occhio [207] destro, entrò senza sorridere, senza parlare, con un portamento semi-ufficiale:
 
— Buon giorno, Luciano, buon giorno! disse Alberto. Ah! voi mi spaventate, mio caro, colla vostra esattezza! Ma che dico? esattezza! Voi che non aspettava che per ultimo, giungete alle 10 meno 5 minuti, mentre il convegno definitivo non è che alle 10 e mezzo? Quest’è un miracolo! Il ministero sarebbe forse caduto?
 
— No, carissimo, disse il giovine gettandosi sul divano, tranquillatevi, trattiamo sempre, ma non cediamo mai, e comincio a credere che passeremo bonariamente alla immobilità, senza contare che gli affari della penisola vanno in modo da consolidarsi pienamente.
 
— Ah! è vero, scacciate Don Carlos dalla Spagna.
 
— No, carissimo, non confondete le cose; lo riconduciamo all’altra frontiera della Francia, e gli offriamo una ospitalità da re a Bourges. — A Bourges? — Sì, egli non avrà a lagnarsi; Bourges è la capitale del re Carlo VII. Come! voi non sapete nulla di tutto ciò? Tutta Parigi lo sa da ieri, e avanti ieri la cosa era già stata traspirata alla borsa, perchè Danglars (non so con qual mezzo quest’uomo ha le notizie nello stesso tempo di noi) perchè Danglars ha arrischiato sul rialzo de’ fondi; e vi ha guadagnato un milione.
 
— E voi una nuova decorazione, a quanto parmi: poichè vedo una striscia blu aumentata alla vostra spranghetta.
 
— Eh! mi hanno inviato la decorazione di Carlo III, rispose negligentemente Debray.
 
— Andiamo, non fate tanto l’indifferente, e confessate che avete avuto piacere a riceverla.
 
— In fede mia, sì, come compimento di toletta, una placca sta bene sopra un abito nero abbottonato, è cosa elegante.
 
— E, disse ridendo Morcerf, si ha l’aspetto del principe di Galles, o simili. — Ecco adunque, carissimo, il perchè mi vedete così di buon’ora. — Perchè avete la placca di Carlo III e volevate darmi questa notizia? — No, ma perchè ho passata tutta la notte a spedir lettere; 25 dispacci diplomatici. Ritornato in casa questa mattina a giorno, voleva dormire, ma mi ha assalito il dolor di testa, e mi sono rialzato per montare un’ora a cavallo. A Boulogne sono stato preso dalla noia, e dalla fame, due nemici che raramente vanno insieme, e che ciò non pertanto, si sono collegati contro di me: una specie di alleanza Carlo-repubblicana; allora mi sono ricordato che questa mane v’era festa in casa vostra, ed eccomi qua: ho fame, nutritemi: sono annoiato, divagatemi.
 
— Questo è il mio dovere d’anfitrione, amico caro, disse Alberto suonando pel cameriere, mentre che Luciano colla sua bacchettina, col pomo cesellato ed incrostato di turchinette, faceva saltare i giornali spiegati; — Germano, un bicchiere di Xeres, ed un biscotto. Frattanto, mio caro Luciano, ecco dei sigari di contrabbando, bene inteso: v’invito a fumarli, e a persuadere il vostro ministro a vendercene degli eguali, invece delle foglie di noce che condanna i buoni cittadini a fumare.
 
— Peste! me ne guarderò bene. Quando questi vi venissero dal governo non li vorreste più, e li ritrovereste esecrabili. D’altra parte ciò non ha rapporto coll’interno, spetta alle finanze; indirizzatevi al signor Humann, sezione delle contribuzioni indirette, corridore A, N. 26.
 
— In verità, disse Alberto, mi sorprendete per le vostre estese cognizioni. Ma prendete un sigaro!
 
— Ah! caro conte, disse Luciano accendendo un sigaro ad una candela color di rosa in una bugìa d’argento dorato, e rovesciandosi sul divano, quanto siete felice, per non avere nulla da fare! in verità, non conoscete la vostra felicità!
 
— E che fareste dunque, mio caro rappacificatore di regni, rispose Morcerf con una leggera ironia: se non aveste nulla da fare? Come! segretario particolare di persona influente, lanciato ad un tempo nella gran cabala europea e nei piccoli intrighi di Parigi; avendo dei re, e meglio ancora, delle regine da proteggere, dei partiti da riunire, delle elezioni da dirigere; facendo più nel vostro gabinetto e col vostro telegrafo di quel che non ha fatto Napoleone sui campi di battaglia colla spada, e colle vittorie; possedendo 25 mila lire di rendita, oltre il vostro impiego, un cavallo di cui Château-Renaud vi ha offerto 400 luigi e non glielo avete voluto dare, un sarto che non vi sbaglia mai un calzone; avendo l’Opera, il Jockey-Club, e il teatro delle varietà, non trovate dunque che tutto ciò sia buono per distrarvi? Ebbene, sia, vi distrarrò io.
 
— Ed in qual modo? — Col farvi fare una nuova conoscenza. — Un uomo o una donna? — Un uomo.
 
[208]
— Oh! ne conosco di già troppi. — Ma è uno come non ne conoscete quello di cui vi parlo. — E di dove viene dunque? di capo al mondo? — Fors’anche di più lontano.
 
— Oh! diavolo! spero bene che non sia quegli che deve portare la nostra colazione? — No, siate tranquillo, la nostra colazione è nelle cucine materne. Ma dunque avete fame?
 
— Sì, lo confesso, per quanto sia umiliante il dirlo. E ciò non ostante ieri ho pranzato dal sig. de Villefort: e non so se abbiate mai notato, che si pranza molto male dalle persone di tribunale: direbbesi che hanno sempre dei rimorsi.
 
— Ah! per bacco! voi disprezzate i pranzi degli altri come se si pranzasse bene dai vostri ministri.
 
— Sì, ma non invitiamo la gente di bonton almeno; e se non fossimo obbligati ad invitare quei miserabili che pensano, e quel che più importa, che danno buoni voti, ci guarderemmo, come dalla peste, di pranzare in casa nostra; questo vi prego a volerlo credere sul serio.
 
— Allora, mio caro, prendete un altro bicchiere di Xeres ed un altro biscotto.
 
— Il vostro vino di Spagna è eccellente; vedete bene che abbiamo avuto gran ragione a rappacificare quel paese.
 
— E ciò vi procurerà il tosone d’oro.
 
— Credo che questa mattina abbiate adottato il sistema di nutrirmi di fumo.
 
— Eh! questo è quanto diverte più lo stomaco; convenitene; ma ascoltate: sento appunto la voce di Beauchamp nell’anticamera, disputerete insieme, e ciò vi farà attendere con maggior pazienza.
 
— A proposito di che?
 
— A proposito di giornali.
 
— Ah! caro amico, disse Luciano, con un sovrano disprezzo, io leggo forse giornali?
 
— Ragione di più, allora disputerete maggiormente.
 
— Il Sig. Beauchamp, annunziò il cameriere.
 
— Entrate, entrate! penna terribile! disse Alberto alzandosi e andando incontro al giovine: ecco qui Debray che vi detesta senza leggervi, almeno a quanto ha detto.
 
— Egli ha ben ragione, disse Beauchamp, si conduce come me; io lo critico senza sapere quel che fa... Buon giorno commendatore.
 
— Ah! lo sapete di già? rispose il segretario particolare, scambiando col giornalista una stretta di mano ed un sorriso.
 
— Per bacco! riprese Beauchamp. — E che se ne dice nel mondo? — In qual mondo? abbiamo molti mondi nell’anno di grazia 1838. — Eh! nel mondo critico-politico di cui siete uno dei lions.
 
— Ma si dice che la cosa è giustissima.
 
— Andiamo, andiamo, non c’è male, disse Luciano; perchè mai non siete uno dei nostri, mio caro Beauchamp? Con tanto spirito quanto ne possedete, fareste fortuna in tre o quattro anni.
 
— Non aspetto che una cosa per seguire il vostro consiglio. Ora, una sola parola a voi, caro Alberto, poichè bisogna bene che lasci respirare Luciano: facciamo colazione o pranziamo? perchè io ho la camera che mi aspetta. Non sono tutte rose, come vedete, nel nostro mestiere.
 
— Faremo soltanto colazione; non aspettiamo più che due persone, e ci metteremo a tavola subito che saranno giunte.
 
— E chi aspettate? disse Beauchamp.
 
— Un gentiluomo, ed un diplomatico, rispose Alberto.
 
— Allora è l’affare di due piccole ore pel gentiluomo; e di due grandi ore pel diplomatico: ritornerò alle frutta. Serbatemi delle fragole, del caffè, e dei sigari: mangerò una costolina alla camera.
 
— Non ne fate niente, Beauchamp. Quando anche il gentiluomo fosse un Montmorency, e l’altro uno dei primi diplomatici, faremo colazione alle 11 precise; frattanto fate come Debray, assaggiate il mio Xeres, ed i miei biscotti.
 
— Andiamo dunque, sia così, resto. Bisogna assolutamente che questa mane mi distragga.
 
— Buono! eccovi come Debray: mi sembra però che quando il ministero è tristo l’opposizione debba essere allegra!
 
— Ah! vedete, amico caro, ciò nasce perchè non sapete da che cosa sono minacciato. Questa mattina sentirò alla camera dei deputati un discorso di Danglars, e questa sera in casa di sua moglie una tragedia di un pari di Francia.
 
— Capisco: avete bisogno di far provvigione d’ilarità.
 
— Non dite dunque male dei discorsi di Danglars, egli vota per voi, è dell’opposizione.
 
— Ecco, per bacco! dove sta il male: io aspetto che lo mandiate a discorrere al Lussemburgo per riderne a mio bell’agio.
 
— Caro mio, disse Alberto a Beauchamp, si vede bene che gli affari di Spagna [209] sono accomodati, questa mattina siete di un’asprezza stomachevole. Ricordatevi dunque che la cronaca parigina porta trattative di un matrimonio fra me ed Eugenia Danglars. Non posso dunque, in coscienza, lasciarvi parlar male dell’eloquenza di un uomo, che un giorno o l’altro può dirmi: «signor visconte, sapete che assegno in dote due milioni a mia figlia.»
 
— Su, via! disse Beauchamp, questo matrimonio non si farà mai. Il re ha potuto farlo conte, ma non potrà mai farlo diventar gentiluomo, ed il conte de Morcerf è una spada troppo aristocratica per acconsentire, per due meschini milioni, ad una cattiva alleanza. Il visconte de Morcerf non deve sposare che una marchesa.
 
— Due milioni, rispose Alberto, sono una bella cosa.
 
— Questo è il capitale sociale di un teatro dei baluardi, o di una strada di ferro dal giardino delle piante a Râpèe.
 
— Lasciatelo dire, Morcerf, riprese con noncuranza Debray, ed ammogliatevi. Voi sposate la cifra che sta scritta sopra un sacco, n’è vero? ebbene! che v’importa! è meglio allora su questa cifra un blasone di meno ed un zero di più; avete 7 merli nelle vostre armi, ne darete tre a vostra moglie, e ve ne resteranno ancor quattro.
 
— In fede mia, credo che abbiate ragione, Luciano, rispose con distrazione Alberto.
 
— Eh certamente! d’altra parte è milionario e nobile come un bastardo: cioè, come potrebbe esserlo.
 
— Zitto! non dite questo, Debray, rispose ridendo Beauchamp: poichè ecco qui Château-Renaud che per guarirvi dalla manìa di paradossare su tutto, vi passerebbe a traverso il corpo la spada di Renaud di Montauban, suo avolo.
 
— Egli allora derogherebbe, rispose Luciano, perchè io sono un villano, villanissimo.
 
— Bene! gridò Beauchamp, ecco il ministero che canta da pastore. Eh! come finiremo?
 
— Il sig. Château-Renaud! il sig. Massimiliano Morrel! disse il cameriere, annunziando i due nuovi convitati.
 
— Il numero è completo! disse Beauchamp, e noi andiamo a far colazione; perchè se non isbaglio, non aspettavate che due persone, Alberto?
 
— Morrel! mormorò Alberto! e chi è costui?
 
Ma prima che avesse terminato, il sig. de Château-Renaud, bel giovine di 30 anni, gentiluomo dalla testa ai piedi, vale a dire, coll’aspetto di un Guiche e lo spirito di un Mortemart, aveva preso Alberto per la mano.
 
— Permettetemi, mio caro, gli diss’egli, di presentarvi il sig. Massimiliano Morrel, capitano dei Spahis (specie di cavalieri affricani) mio amico, e di più mio salvatore. Del rimanente egli si presenta abbastanza bene da sè stesso, salutate il mio eroe, visconte.
 
E si scostò per lasciar vedere questo grande e nobile giovine, dalla fronte larga, dallo sguardo penetrante, dai baffi neri, che i nostri lettori si ricorderanno di aver veduto a Marsiglia in una congiuntura molto più drammatica, e che non avran certo dimenticata. Una ricca uniforme metà francese, e metà orientale, mirabilmente portata, faceva comparire il suo largo petto decorato della croce della legione d’onore, e l’inquadratura svelta delle sue forme.
 
Il giovine ufficiale s’inchinò con pulita eleganza; Morrel era grazioso in tutti i suoi movimenti perchè era forte.
 
— Signore, disse Alberto con affettuosa cortesia, il barone di Château-Renaud ben sapeva tutto il piacere che mi procurava nel farmi fare la vostra conoscenza. Voi siete uno de’ suoi amici, signore; siate ancora uno dei nostri.
 
— Benissimo, disse Château-Renaud, e desiderate, mio caro visconte, che presentandosi l’occasione faccia per voi quel che ha fatto per me.
 
— E che ha dunque fatto? domandò Alberto.
 
— Oh! non è mestieri di parlarne, il signore esagera.
 
— Come! è mestieri di parlarne! la vita non vale la pena che se ne parli?... In vero avete troppa filosofia nelle vostre parole, mio caro Morrel... Andrà bene per voi ch’esponete la vostra vita tutti i giorni, ma per me che l’ho esposta una volta per caso...
 
— Ciò che scorgo di più chiaro in tutto ciò, barone, è che il capitano Morrel vi ha salvata la vita.
 
— Oh! mio Dio! sì, semplicemente, replicò Château-Renaud. — E in quale occasione? domandò Beauchamp.
 
— Beauchamp amico mio, sapete ch’io muoio di fame! disse Debray; non andate dunque nelle storie.
 
— Ebbene! ma io, disse Beauchamp, non impedisco che si mettano a tavola... [210] Château-Renaud ci racconterà ciò a tavola.
 
— Signori, disse Morcerf, non sono che le 10 e un quarto, e noi aspettiamo un altro convitato.
 
— Ah! è vero, un diplomatico, riprese Debray.
 
— Un diplomatico, o qualche altra cosa, non so niente: ciò che so, si è che lo incaricai di un’ambasciata per conto mio, da lui disimpegnata con tanta mia soddisfazione che se fossi stato re, lo avrei fatto cavaliere di tutti i miei ordini ad un tempo, ancorchè avessi avuto a mia disposizione il Toson d’Oro e la Giarrettiera.
 
— Allora, dappoichè non si va ancora a tavola, disse Debray, versatevi un altro bicchiere di Xeres come abbiamo fatto noi, e raccontateci la vostra storia, barone.
 
— Voi tutti sapete che mi venne il capriccio di andare in Affrica? — Strada tracciatavi dai vostri antenati, mio caro Château-Renaud, disse con galanteria Morcerf.
 
— Sì, ma dubito che non vi sarete andato, com’essi, per liberare il santo sepolcro.
 
— Avete ragione, Beauchamp, disse il giovine aristocratico, fu solo per tirare il mio colpo di pistola come dilettante. Il duello mi ripugna, come voi sapete, da poi che due testimoni, che io aveva scelti per accomodare una contesa, mi costrinsero a rompere un braccio ad uno dei miei migliori amici... eh! per bacco a quel povero Franz d’Épinay, che voi tutti conoscete.
 
— Ah! è vero, vi batteste in allora, molto tempo fa,... ed a proposito di che?
 
— Il diavolo mi porti se me ne ricordo! disse Château-Renaud; ma ciò che mi ricordo perfettamente si è che, avendo vergogna di lasciar dormire un ingegno come il mio, ho voluto provare sugli Arabi delle pistole nuove di cui aveva avuto dono. In conseguenza m’imbarcai per Orano; di lì passai a Costantina, e giunsi precisamente in tempo per veder levare l’assedio. Mi misi in ritirata come gli altri. Per 48 ore sopportai abbastanza bene la pioggia di giorno, e la neve di notte; finalmente nella terza mattina il cavallo morì di freddo. Povera bestia! accostumato alle coperte ed al braciere della scuderia... un cavallo arabo che si è trovato spatriato per aver rinvenuto appena dieci gradi di freddo in Arabia.
 
— Per ciò volevate comprare il mio cavallo inglese, disse Debray; supponendo forse che sopporterebbe il freddo meglio del vostro arabo. — Siete in errore, poichè ho fatto voto di non ritornare più in Affrica.
 
— Voi dunque avete avuto paura; domandò Beauchamp.
 
— In fede mia sì, lo confesso, disse Château-Renaud; e ne ho avuto ben d’onde! Il mio cavallo dunque era morto; io faceva la mia ritirata a piedi, sei arabi vennero al galoppo per tagliarmi la testa, ne ammazzai due con due colpi del mio fucile, due colle mie due pistole; ma ne restavano altri due, ed io era disarmato. L’uno mi prese pei capelli, per questo ora li porto corti, non si sa mai ciò che può accadere; l’altro mi circondò il collo col suo yatagan, e già sentiva il freddo acuto del ferro, quando questo signore che vedete, caricò a sua volta sopra di essi, atterrò quello che mi teneva pei capelli con un colpo di pistola, e colla sciabola spiccò la testa a quello che si apparecchiava a tagliarmi la gola. Questo signore si era imposto in quel giorno l’obbligo di salvare un uomo, la combinazione volle che questi foss’io: quando diventerò ricco voglio far fare da Klugmann o da Marochetti una statua che rappresenti l’accaduto.
 
— Sì, disse sorridendo Morrel; era il 5 settembre, cioè l’anniversario del giorno in cui mio padre fu miracolosamente salvato; così, per quanto è in mio potere, celebro tutti gli anni questo giorno con qualche azione.
 
— Eroica, n’è vero? interruppe Château-Renaud; alle corte fui l’eletto, ma qui non sta il tutto. Dopo avermi salvato dal ferro mi salvò dal freddo dandomi, non già una metà del suo mantello come fece, non mi ricordo chi, ma tutto intero. Poi dalla fame, dividendo meco, indovinate un poco che cosa?
 
— Un pasticcio di Felix? chiese Beauchamp.
 
— No, il suo cavallo, di cui mangiammo entrambi un pezzo con grandissimo appetito; sebbene fosse un poco duro...
 
— Il cavallo? domandò ridendo Morcerf.
 
— No, il sacrificio, rispose Château-Renaud. Domandate a Debray se sacrificherebbe il suo cavallo inglese per un estraneo? — Per un estraneo, no; per un amico potrebbe darsi, rispose Debray. — Ed io pronosticai che sareste divenuto mio amico, signor conte, disse Morrel; d’altra parte ho già avuto l’onore di dirvelo: eroismo o no, sacrificio o no, doveva un olocausto alla cattiva fortuna, in compenso del favore che altravolta ci aveva fatta la buona.
 
[211]
— Questa storia a cui Morrel fa allusione, è una bellissima storia che poi vi racconterà un giorno, quando avrete fatto con lui una più estesa conoscenza; per oggi approvvigioniamo lo stomaco, e non la memoria. A che ora fate colazione?
 
— Alle 10 e mezzo.
 
— Precise? domandò Debray cavando l’orologio.
 
— Oh! mi accorderete 5 minuti di tolleranza, disse Morcerf, poichè io pure aspetto un salvatore — Di chi?
 
— Di me per bacco! rispose Morcerf. Credete forse che non possa essere salvato come un altro, e che non vi siano che gli Arabi che tagliano la testa? La nostra colazione è una colazione filantropica, ed avremo alla nostra tavola, spero almeno, due benefattori dell’umanità.
 
— E come faremo? disse Debray, non abbiamo che un sol premio Monthyon?
 
— Ebbene! verrà dato a qualcuno che nulla abbia fatto per meritarlo, disse Beauchamp, in questo modo d’ordinario fa l’accademia per togliersi da qualunque impaccio.
 
— E di dove viene? domandò Debray, scusate l’insistenza; avete di già, lo so bene, risposto a questa domanda, ma molto vagamente perchè possa permettermi di potervela fare una seconda volta.
 
— In verità, disse Alberto, non lo so. Quando l’ho invitato, or son tre mesi, era a Roma, ma da quel tempo chi può dire il viaggio che ha fatto?
 
— E lo credete capace di essere esatto?
 
— Lo credo capace di tutto, rispose Morcerf.
 
— Fate attenzione che, compresi i minuti di tolleranza, non ne mancano più che dieci.
 
— Ebbene! ne approfitterò per dirvi una parola sul mio convitato.
 
— Perdono disse Beauchamp: vi sarà materia per un fogliettone in ciò che siete per narrare? — Sì, certamente, disse Morcerf, ed anche dei più curiosi. — Allora raccontate, poichè vedo bene che non potrò andare alla Camera, e bisogna che ne abbia un compenso.
 
— Io ero a Roma nell’ultimo carnevale.
 
— Questo lo sappiamo di già, disse Beauchamp.
 
— Ma ciò che non sapete si è, che fui rapito dai Briganti.
 
— Non vi sono più briganti, disse Debray.
 
— Ve ne sono, e ve ne sono anche degli orridi, cioè ammirabili, mentre ne ho trovati dei belli ma da far paura.
 
— Vediamo, mio caro Alberto, disse Debray; confessate che il vostro cuoco è in ritardo, che le ostriche non sono ancora giunte da Marennes o da Ostenda, e che a guisa della sig.ª di Maintenon, volete sostituire un racconto ad un piatto. Ditelo, mio caro, siamo abbastanza di buona compagnia per perdonarvelo, e per ascoltare la vostra storia; tuttochè sembri favolosa.
 
— Ed io vi dico, per quanto possa comparir favolosa, che ve la garantisco per vera dal principio alla fine. I briganti adunque mi avevano condotto in un luogo molto tristo, chiamato le Catacombe di S. Sebastiano.
 
— Lo conosco, disse Château-Renaud, e per poco non vi presi le febbri.
 
— Ed io ho fatto ancora più; l’ebbi realmente. Mi fu annunziato che ero prigioniero, salvo il riscatto, una bagattella, 4 mila scudi romani, circa 26 mila lire tornesi. Disgraziatamente non ne aveva più che 1,500, era alla fine del mio viaggio, e il mio credito era esausto. Scrissi a Franz. Ah perbacco! Franz era là, e potete chiedergli se mentisco di una virgola; scrissi dunque a Franz che se non giungeva alle 6 del mattino coi 4 mila scudi, alle 6 e 10 minuti sarei passato all’eterna gloria, e Luigi Vampa, questo è il nome del capo dei briganti, vi prego a crederlo, mi avrebbe mantenuta scrupolosamente la sua parola.
 
— Ma Franz sarà giunto coi 4 mila scudi? disse Château-Renaud. Che diavolo! non può trovarsi in impaccio per 4 mila scudi chi porta il nome di Franz d’Épinay o d’Alberto de Morcerf!
 
— No, ma egli giunse solamente, e semplicemente accompagnato dal convitato che vi ho annunziato, e che spero potervi presentare.
 
— E che! è dunque Ercole che uccide Caco questo signore? un Perseo che libera Andromeda?
 
— No, è un uomo in circa della mia corporatura.
 
— Armato fino ai denti? — Non aveva neppure un ferro da calzetta. — Egli dunque contrattò il vostro riscatto?
 
— Disse due parole all’orecchio del capo ed io fui liberato.
 
— Anzi gli fecero perfino le scuse d’avervi arrestato, disse Beauchamp. — Precisamente, rispose Morcerf
 
— Ma che! era dunque l’Ariosto quest’uomo?
 
— No, era semplicemente il conte di Monte-Cristo.
 
— Non v’è nessuno che si chiami così, disse Debray.
 
[212]
— Io non credo, soggiunse Château-Renaud colla presenza d’animo dell’uomo che tiene sulla punta delle dita tutte le genealogie delle famiglie nobili dell’Europa; chi è che conosca in alcuna parte un conte di Monte-Cristo?
 
— È forse un qualche casato proveniente dalla Terra Santa, disse Beauchamp, uno dei suoi avi avrà posseduto il Calvario, come i Mortmart il Mar morto.
 
— Perdono, disse Massimiliano, ma io credo di potervi togliere d’impaccio, signori: Monte-Cristo è una piccola isola, di cui ho sovente inteso parlare dai marinari impiegati da mio padre; un grano di sabbia in mezzo al Mediterraneo, un atomo nell’infinito.
 
— Ed è perfettamente ciò, signore, disse Alberto. Ebbene! di questo grano di sabbia, di questo atomo è signore e re colui di cui vi parlo; egli avrà comprato il diploma di conte in qualche parte della Toscana.
 
— È dunque ricco il vostro conte? — In fede mia, lo credo! — Ma ciò deve vedersi, mi sembra? — Ecco ciò che v’inganna, Debray. — Io non vi capisco affatto.
 
— Avete letto le Mille e una notte?
 
— Per bacco! bella domanda!
 
— Ebbene! sapete se le persone che vi si vedono sono ricche o povere? se i loro grani di frumento sono rubini o diamanti? essi hanno l’aspetto di miserabili pescatori, n’è vero? voi li trattate come tali, e d’un subito vi aprono qualche caverna misteriosa, e vi trovate un tesoro da comprare le Indie: il mio conte di Monte-Cristo è uno di quei pescatori: ha perfino un nome tolto da quella professione, si chiama Sindbad il marinaro, e possiede una caverna piena d’oro.
 
— L’avete veduta? domandò Beauchamp.
 
— Io no; Franz sì. Ma zitti! non bisogna dire una parola di tutto ciò davanti a lui. Franz vi discese cogli occhi bendati, e fu servito da uomini muti, e da donne, in paragone delle quali Cleopatra non era, a quanto pare che una lorette. Soltanto delle donne egli non è ben sicuro, attesochè esse non apparvero che dopo aver mangiato dell’hatchis; di modo che potrebbe darsi che quelle che ha prese per donne, non fossero state bonariamente che statue.
 
I giovani amici guardarono Morcerf con uno sguardo che voleva dire: — Ma che mio caro, diventate voi insensato, o vi burlate di noi?
 
— In fatto, disse Morrel pensieroso, ho inteso raccontare anch’io da un vecchio marinaro, chiamato Penelon qualche cosa di consimile a ciò che dice il signor di Morcerf.
 
— Ah! fece Alberto, sono ben fortunato che Morrel venga in mio aiuto. Vi dispiace, n’è vero, ch’egli getti un gomitolo di filo nel mio laberinto? — Perdonate, mio caro ma ci raccontate cose tanto inverisimili... — Ah! per bacco! perchè i vostri ambasciatori, i vostri consoli non ve ne parlano! essi non ne hanno il tempo, hanno troppo da fare nel molestare i loro compatriotti che viaggiano.
 
— Ah! ecco che v’inquietate, e ve la prendete coi nostri poveri diplomatici. Eh! mio Dio! con che volete che vi proteggano? la Camera corrode ogni giorno i loro stipendi, ed ora è al punto di non trovarne più. Volete diventare ambasciatore? vi farò nominare a Costantinopoli.
 
— No, perchè il sultano alla prima nota in favore di Mehemet-Alì, mi manderebbe il cordone, e i miei segretari mi strangolerebbero.
 
— Vedete bene! disse Debray. — Sì, tutto ciò non toglie che esiste il mio conte di Monte-Cristo! — Per bacco! tutti gli uomini esistono, bel miracolo! — Tutti gli uomini esistono, ma non in simili condizioni. Tutti gli uomini non hanno schiavi neri, gallerie principesche, armi alla Casauba, cavalli da 6 mila franchi l’uno, e greche mantenute.
 
— L’avete voi veduta la Greca da lui mantenuta?
 
— Sì, l’ho veduta ed intesa; veduta al teatro Valle, intesa un giorno che facevo colazione dal conte.
 
— Il vostro uomo straordinario dunque mangia?
 
— In fede mia, che mangia! e tanto poco, che non merita la pena di parlarne.
 
— Voi vedrete poi che sarà un vampiro.
 
— Ridete, se volete, questa era l’opinione della contessa G***, che, come voi sapete, ha conosciuto lord Ruthwen.
 
— Ah! buono! disse Beauchamp, ecco per un uomo non giornalista, il simile del famoso serpente di mare del Constitutionel; un vampiro, perfettamente!
 
— Occhio rossiccio, la cui pupilla si dilata e restringe a volontà, disse Debray, volto ad angolo sviluppato, fronte spaziosa, tinta livida, barba nera, denti bianchi ed acuti, compitezza tutta particolare.
 
— Ebbene! precisamente è tutto ciò, Luciano, disse Morcerf, ed i connotati sono riportati a puntino. Sì, compitezza acuta ed incisiva. Quest’uomo spesso mi [213] ha fatto fremere, e particolarmente un giorno, fra gli altri, che guardavamo insieme una esecuzione, ho creduto di essere presso a svenirmi, molto più per vederlo e sentirlo ragionare freddamente su tutti i supplizi della terra, di quella che per guardare il carnefice eseguire il suo ufficio, e sentire le grida del paziente.
 
— E non vi ha condotto fra le rovine del Colosseo per succhiarvi il sangue, Morcerf? disse Beauchamp.
 
— Ovvero dopo avervi liberato non vi ha fatto firmare qualche pergamena color di fuoco, in virtù della quale gli cediate la vostra anima?
 
— Scherzate! scherzate quanto volete, signori! disse Morcerf punto sul vivo. Quando osservo voi altri belli parigini, abituati al baluardo di Gand, passeggiatori del bosco di Boulogne, e mi ricordo di quest’uomo, mi pare che non siamo della stessa specie.
 
— Me ne glorio, disse Beauchamp.
 
— Il vostro conte di Monte-Cristo, soggiunse Château-Renaud, è però sempre un galantuomo nelle ore d’ozio, salvo però le sue piccole intelligenze coi banditi Italiani.
 
— Ma se non vi sono banditi Italiani! soggiunse Debray.
 
— Non vi sono vampiri! disse Beauchamp.
 
— Non esiste il conte di Monte-Cristo! riprese Debray.
 
— Ascoltate, caro Alberto, suonano le dieci e mezzo.
 
— Confessate che avete veduto un fantasma, e andiamo a far colazione, disse Beauchamp.
 
Ma la vibrazione dell’orologio a pendolo non era ancora estinta, quando la porta si aprì, e Germano annunziò:
 
— S. E. il conte di Monte-Cristo!
 
Tutti gli uditori fecero loro malgrado un movimento che dinotava la preoccupazione da Morcerf infiltrata nelle loro anime col suo racconto. Alberto stesso non potè esimersi da una commozione momentanea. Non era stato inteso nè carrozza sulla strada, nè passi nell’anticamera; la porta stessa si era aperta senza rumore. Il conte comparve sul limitare, vestito colla più grande semplicità, ma il lion più esigente non avrebbe saputo trovarvi la più piccola mancanza. Tutto era di un gusto squisito, tutto usciva dalle mani dei più eleganti fornitori, abiti, cappello, biancheria.
 
Sembrava avere appena 35 anni, ma ciò che sorprese tutti si fu l’estrema rassomiglianza col ritratto che ne aveva descritto Debray. Il conte si avanzò sorridendo in mezzo al salotto, e andò direttamente da Alberto, che venendogli incontro gli offerse con trasporto la mano. — L’esattezza, disse Monte-Cristo, è la gentilezza dei re, per quanto ha preteso, io credo, uno dei vostri sovrani. Ma qualunque sia la loro buona volontà, non è però sempre quella dei viaggiatori. Però io spero, mio caro visconte, che mi scuserete, in grazia della mia buona volontà, i due o tre secondi di ritardo al nostro convegno; 500 leghe non si fanno senza qualche contrattempo, particolarmente in Francia ove è proibito, a quanto sembra, di battere i postiglioni.
 
— Signor conte, rispose Alberto, io era sul punto di annunziare la vostra visita ad alcuni dei miei amici, da me riuniti ad occasione della promessa che mi faceste, e che ho l’onore di presentarvi. Questi signori sono, il conte di Château-Renaud, la cui nobiltà risale a 12 Pari, i cui antenati hanno avuto posto alla tavola rotonda: Luciano Debray, segretario particolare del ministro dell’Interno; Beauchamp, terribile giornalista, il terrore del governo francese, e di cui forse, ad onta dalla sua celebrità non avrete inteso parlare in Italia, atteso che il suo giornale non vi può entrare; finalmente Massimiliano Morrel capitano degli Spahis. — A questo nome, il conte, che fino allora aveva salutato cortesemente, ma con una freddezza ed una impassibilità tutta inglese, fe’ suo malgrado un passo in avanti, ed una leggera tinta vermiglia passò come un lampo sulle sue pallide guance: — Il signore porta l’uniforme dei nuovi vincitori francesi? diss’egli, è una bell’uniforme.
 
Non sarebbe stato possibile poter dire quale fosse il sentimento che dava alla voce del conte una così profonda vibrazione e che faceva brillare suo malgrado l’occhio tanto bello, tanto sereno e limpido, quando non aveva alcun motivo per velarlo. — Voi non avevate mai veduti i nostri affricani, sig. conte? disse Alberto. — Giammai, replicò il conte, ritornato perfettamente padrone di sè stesso.
 
— Ebbene, sig. conte, sotto quest’uniforme batte uno dei cuori più bravi e più nobili dell’esercito...
 
— Oh! sig. conte, interruppe Morrel.
 
— Lasciatemi dire, capitano... Non ha guari, continuò Alberto, abbiamo inteso un tratto così eroico del signore, che, quantunque io lo veda oggi per la prima volta, reclamo da lui il favore di potervelo [214] presentare come un mio amico. — E sarebbesi potuto anche a queste parole, scorgere nel conte quello strano sguardo di fissazione, quel rossore fuggitivo, e quel leggero tremore della palpebra, che in lui dinotava emozione: — Ah il signore ha un cuor nobile, disse il conte; tanto meglio!
 
Questa specie di esclamazione che corrispondeva piuttosto col pensiero del conte, che col discorso d’Alberto sorprese tutti, ma particolarmente Morrel, che guardò il conte di Monte-Cristo con istupore. Ma in pari tempo il tuono della voce era stato sì dolce e per così dire sì soave, che, per quanto strana fosse apparsa questa esclamazione non v’era ragione in alcun modo d’offendersene.
 
— Perchè dunque ne dubiterebbe egli? disse Beauchamp a Château-Renaud.
 
— In verità, ripose questi, che, coll’abitudine del gran mondo e la chiarezza pel suo colpo d’occhio aristocratico, aveva penetrato in Monte-Cristo tutto ciò che era in lui penetrabile, in verità Alberto non ci ha ingannati, è un personaggio singolare questo conte; che ne dite Morrel?
 
— In fede mia, rispose questi, ha l’occhio franco e la voce simpatica di modo che mi piace ad onta della bizzarra riflessione che ha fatta sul conto mio.
 
— Signore! disse Alberto, Germano m’avvisa che la colazione è all’ordine. Mio caro conte, permettetemi che v’insegni la strada. — Passarono silenziosamente nella sala da pranzo, e ciascuno si mise al suo posto.
 
— Signori, disse il conte sedendosi, permettetemi una confessione che sarà la mia scusa per tutte le inconvenienze che potrò commettere: sono forestiere ma forestiere a tal punto che questa è la prima volta che vengo a Parigi. La vita francese mi è dunque perfettamente sconosciuta, non avendo fino ad ora seguita che la sola orientale, la più antipatica alle buone tradizioni parigine. Vi prego dunque a scusarmi se ritroverete in me qualche cosa di troppo turco, o di troppo arabo. Detto ciò, signori, facciamo colazione.
 
— Dal modo come ha detto tutto ciò, mormorò Beauchamp, si conosce che è un gran signore.
 
— Un gran signore straniero, soggiunse Debray.
 
— Un gran signore cosmopolita, disse Château-Renaud.
 
Ognuno ricorderà che il conte era un convitato sobrio. Alberto ne fece le sue osservazioni, e manifestò il timore che non avesse a dispiacergli la vita parigina fin dal suo bel principio nella parte più materiale, è vero, ma nello stesso tempo più necessaria: — Mio caro conte, diss’egli, voi mi vedete colpito da un timore, ed è che la cucina della strada d’Helder non abbia a dispiacervi tanto, quanto quella della piazza di Spagna. Avrei dovuto chiedervi ciò che più vi gusta, o farvi preparare qualche piatto di vostra fantasia.
 
— Se voi mi conosceste di più, rispose sorridendo il conte, non vi preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore quale io sono, che ha successivamente vissuto con maccheroni a Napoli, con polenta a Milano, con olla pudrida a Valenza, con riso asciutto a Costantinopoli, con karrick nelle Indie, e con nidi di rondinelle nella China. Non vi è una cucina particolare per un cosmopolita come sono io: mangio di tutto, ed in ogni luogo; solo mangio poco, ed oggi che voi mi rimproverate la mia sobrietà, sono in una delle giornate del mio massimo appetito, perchè da ieri mattina non ho più mangiato.
 
— Come da ieri mattina? esclamarono i convitati, non avete mangiato da 26 ore?
 
— No, rispose il conte, fui obbligato di deviare dalla mia strada per portarmi a Nimes a prendere in quei dintorni alcune informazioni, di modo che era un poco in ritardo; e non ho voluto fermarmi.
 
— Ma avrete mangiato in carrozza? chiese Morcerf.
 
— No, ho dormito, come mi succede quando mi annoio senza avere il coraggio di distrarmi, o quando ho fame senza aver volontà di mangiare.
 
— Ma dunque, comandate al sonno? domandò Morrel.
 
— Presso a poco. — Avete voi una ricetta per questo?
 
— Infallibile. — Ecco ciò che sarebbe eccellente per noi Affricani, che non abbiamo sempre che mangiare, e che difficilmente abbiamo di che bere, disse Morrel.
 
— Sì, disse il conte, disgraziatamente la mia ricetta, buona per un uomo come me, che conduco una vita di eccezione, sarebbe molto pericolosa applicata ad un esercito che non si sveglierebbe più, quando se ne avesse bisogno.
 
— Si può sapere che è questa ricetta? chiese Debray.
 
— Oh! mio Dio! sì, disse il conte, non ne faccio alcun segreto; è un mischio [215] di eccellente oppio che io stesso sono stato a cercare a Canton per esser certo d’averlo puro, e del miglior hatchis che si raccolga in Oriente, cioè fra il Tigri e l’Eufrate. Si riuniscono questi due ingredienti in porzioni eguali, e se ne formano delle specie di pillole che s’inghiottiscono quando uno ne ha bisogno. L’effetto si produce dieci minuti dopo. Domandatene al barone Franz d’Épinay, che credo un giorno ne abbia gustato.
 
— Sì, rispose Morcerf, me ne ha detto qualche parola, ed anzi ne ha conservato grata memoria.
 
— Ma, disse Beauchamp, che nella sua qualità di giornalista era molto incredulo, porterete sempre questa droga con voi?
 
— Sempre, rispose il conte di Monte-Cristo.
 
— Sarei indiscreto se vi domandassi di vedere queste pillole? continuò Beauchamp nella speranza di cogliere lo straniero in fallo.
 
— No, signore, rispose il conte. E cavò di tasca una maravigliosa bomboniera scavata in un solo smeraldo, e chiusa con un fermaglio d’oro, che, aprendosi, dava passaggio ad una pillola di color verdastro della grossezza di un pisello. Questa pillola aveva un odore acre e penetrante; ve ne erano 4, o 5 nella cavità dello smeraldo che ne poteva contenere circa una dozzina.
 
La bomboniera fece il giro della tavola, ed i convitati se la facevano passare più per esaminare la magnificenza dell’ammirabile smeraldo che per guardare e fiutare le pillole che conteneva. — È forse il vostro cuoco che vi prepara questo regalo? domandò Beauchamp.
 
— No, signore, disse il conte di Monte-Cristo; non abbandono in tal modo i miei piaceri reali all’arbitrio di mani indegne; sono abbastanza buon chimico per prepararmi da me stesso queste pillole.
 
— Questo è uno smeraldo ammirabile, ed è il più grosso che abbia mai veduto, quantunque mia madre abbia qualche gioia di famiglia molto notevole, disse Château-Renaud.
 
— Di questi ne aveva tre, soggiunse il conte di Monte-Cristo; uno ne regalai al Gran signore che ne ha adornata la sua sciabola; l’altro a persona che non debbo nominare; il terzo l’ho riserbato per me, e l’ho fatto scavare, la qual cosa gli ha tolto la metà del valore, ma lo ha reso più comodo per l’uso al quale l’ho destinato.
 
Ciascuno guardò il conte di Monte-Cristo con meraviglia; parlava con tanta semplicità, che faceva conoscere ad evidenza essere vero ciò che diceva, o essere pazzo: ciò non ostante lo smeraldo che rimaneva nelle sue mani faceva piuttosto inclinare a credere la prima supposizione.
 
— E che vi hanno dato in contraccambio le persone cui avete fatti simili doni? chiese Debray.
 
— Il Gran-signore mi concesse la libertà di una donna, rispose il conte; l’altra persona la vita di un uomo. Di modo che per due volte sono stato così possente, come se fossi nato sui gradini di un trono.
 
— E forse fu Peppino che liberaste, n’è vero? gridò Morcerf; a lui forse applicaste il vostro diritto di grazia?
 
— Può darsi, disse Monte-Cristo sorridendo.
 
— Sig. conte, disse Morcerf, non potete formarvi un’idea del piacere che provo nel sentirvi parlare in tal modo. Vi aveva di già annunziato ai miei amici come un uomo favoloso, come un mago delle Mille e una Notte, come uno stregone del medio evo; ma i parigini sono persone talmente sottili nei paradossi, che prendono per capricci dell’immaginazione le verità più incontrastabili, quando esse non entrano nelle condizioni della loro giornaliera esistenza. Per esempio, ecco Debray che legge, e Beauchamp che stampa tutti i giorni, essere stato fermato e spogliato sul baluardo qualche membro Jockey-Club in ritardo, che furono assassinate quattro persone sulla strada Saint-Denis o nel sobborgo San-Germano; che sono stati arrestati 4, 10, 20 ladri, sia in un caffè sul baluardo del Tempio, sia alle Terme di Giulio, e negano l’esistenza dei banditi nelle Maremme, nella Campagna Romana, e nelle paludi Pontine. Dite dunque voi stesso, ve ne prego, signor conte, che sono stato preso da questi banditi, e che, senza la vostra generosa intercessione, io oggi aspetterei, secondo tutte le probabilità, la resurrezione finale nelle catacombe di San Sebastiano, invece di dar loro da colazione nella mia piccola ed indegna casa strada di Helder.
 
— Bah! voi mi avete promesso di non parlarmi più di questa miseria. — Non sono io che vi ho fatto questa promessa, sig. conte, gridò Morcerf, sarà stato qualche altro cui avete reso un simile servigio, e che ora confondete con me. Parliamone anzi, ve ne prego; perchè se vi risolvete a parlare di questa particolarità, non solo ridirete alcune cose che so, ma molte altre ancora che non so.
 
— Ma mi sembra che in tutto questo [216] affare, soggiunse il conte ridendo, abbiate sostenuto una parte di troppa importanza, per sapere al par di me tutto ciò che è accaduto.
 
— Volete promettermi, che, se dico tutto quel che so, mi direte tutto quello che non so?
 
— È troppo giusto, rispose Monte-Cristo.
 
— Ebbene! soggiunse Morcerf, dovesse il mio amor proprio ancora soffrirne, mi sono creduto per tre giorni l’oggetto delle civetterie di una maschera che aveva presa per discendente delle Tulie, o delle Poppee, nel mentre che ero puramente e semplicemente l’oggetto delle frascherie di una contadina; e notate bene che dico contadina per non dire villana. Ciò che io so si è, che a guisa di un gonzo, più gonzo ancora di colui di cui si parlava non ha guari, ho preso per questa persona un giovine bandito dai 15 ai 16 anni, col mento imberbe, la vita sottile, che al momento in cui voleva emanciparmi fino a depositare un bacio sulla sua casta spalla, mi ha messo le pistole alla gola, e coll’aiuto di altri sette o 8 banditi, mi ha condotto o piuttosto mi ha trascinato nel fondo delle catacombe di San Sebastiano, ove trovai un capo di banditi molto letterato, in fede mia, che leggeva i commentari di Giulio Cesare, e che si è degnato d’interrompere la lettura per dirmi che se la dimane alle 6 del mattino non aveva versati 4 mila scudi nella sua cassa alle sei ed un quarto avrei perfettamente cessato di vivere. La lettera vi è, essa è nelle mani di Franz, firmata da me, con post-scriptum di Mastro Luigi Vampa. Se ne dubitate, scriverò a Franz che farà legalizzare le firme. Ecco ciò che so. Or quello che mi resta a sapere si è, come mai, voi, sig. conte, siate giunto ad incutere ai banditi di Roma un sì gran rispetto, ad essi che nulla rispettano. Vi confesso che Franz ed io ne fummo rapiti d’ammirazione.
 
— Niente di più semplice, signore, rispose il conte, io conosceva il famoso Vampa da più di dieci anni. Quand’egli era ancor giovine e pastore, un giorno gli regalai, non mi sovviene ora qual moneta d’oro, perchè m’indicò la strada, ed egli, per non avere niente del mio, mi dette in cambio un pugnale, intagliato colle sue mani, e che voi forse avrete notato nella mia collezione d’armi. Col tempo, sia ch’egli dimenticasse questo ricambio di piccoli regali che doveva mantenere l’amicizia fra di noi, sia che non mi avesse riconosciuto, tentò di arrestarmi; ma io al contrario arrestai lui con una dozzina dei suoi compagni. In allora poteva abbandonarlo alla giustizia romana che è speditiva, e che si sarebbe ancora sollecitata di più a suo riguardo, ma non lo feci; invece lo rimandai con tutti i suoi.
 
— A condizione che non peccassero più, disse il giornalista ridendo. Vedo con piacere ch’essi hanno mantenuta scrupolosamente la parola.
 
— No, signore, rispose Monte-Cristo, a condizione che rispettassero sempre me ed i miei amici.
 
— Alla buon’ora, gridò Château-Renaud, ecco il primo uomo coraggioso che sento predicare lealmente e brutalmente l’egoismo; ciò è bellissimo, bravo! signor conte.
 
— Almeno ciò è molto franco, disse Morrel; ma sono sicuro che il conte non si è pentito di avere una volta mancato a questi principi, che ora ci ha esposti in modo così assoluto.
 
— Ed in qual modo ho mancato ai miei principi, signore? domandò Monte-Cristo che di tempo in tempo non poteva esimersi dal guardare Massimiliano con tanta attenzione, che già due o tre volte l’ardito giovine era stato costretto ad abbassar gli occhi, rimpetto allo sguardo limpido e chiaro del conte.
 
— Mi sembra, rispose Morrel, che liberando il sig. di Morcerf che non conoscevate voi servivate al prossimo, ed alla società...
 
— Di cui egli fa il più bell’ornamento, disse con gravità Beauchamp, vuotando in un sol fiato un bicchiere di Champagne.
 
— Sig. conte, gridò Morcerf, eccovi preso dal ragionamento, voi, uno dei più aspri logici che io conosca. E starete a vedere, che quanto prima vi sarà dimostrato, che in vece d’essere un egoista, siete un filantropo. Ah! voi vi spacciate per Orientale, Levantino, Maltese, Indiano, Chinese, Selvaggio, vi chiamate Monte-Cristo per nome di famiglia, Sindbad il marinaro per nome di battesimo, ed eccovi, che il primo giorno che mettete il piede in Parigi, già possedete il più gran merito, od il più gran difetto della nostra eccentricità parigina, vale a dire vi usurpate i vizi che non avete!
 
— Mio caro visconte, disse Monte-Cristo, non vedo in tutto ciò che ho detto o fatto, una sola parola che possa meritarmi, per parte vostra e di questi signori, l’elogio che ricevo. Voi non mi eravate [217] estraneo, poichè vi avevo data una colazione, vi aveva prestata per otto giorni una carrozza, avevamo veduto insieme passare le maschere pel Corso, e perchè avevamo guardato dalla stessa finestra della piazza del Popolo quella esecuzione che vi fece tanta impressione che quasi sveniste. Ora, lo domando a questi signori, poteva io lasciare il mio ospite nelle mani di quei spaventosi banditi, come voi li chiamate? D’altra parte lo sapete, aveva nel salvarvi un secondo fine, qual era quello di servirmi di voi per introdurmi nella società di Parigi quando fossi venuto a visitare la Francia. Per qualche tempo avete potuto considerare questa risoluzione come un disegno vago ed incerto; ma oggi lo vedete, è una bella e buona realtà, alla quale bisogna che vi sottomettiate, sotto pena di mancare alla vostra parola.
 
— Ed io la manterrò, disse Morcerf, ma temo che presto vi cadrà ogni illusione, mio caro conte, voi, avvezzo ai luoghi pieni d’avventure, agli avvenimenti pittoreschi, ai fantastici orizzonti. Presso noi non vi accadrà il più piccolo episodio di quelli cui la vita fantastica vi ha abituato. Il nostro Chimboraco è Montmartre; il nostro Himalaya è il monte Valérien, il nostro Gran Deserto è la pianura di Grenelle, e vi forano ancora un pozzo artesiano perchè le carovane vi trovino dell’acqua. Noi abbiamo dei ladri ed anche molti, quantunque non ve ne siano tanti quanti si dice; ma essi temono egualmente la più piccola spia come il più gran signore; finalmente la Francia è un paese così prosaico, e Parigi una città tanto incivilita, che non troverete, cercando ancora per tutti gli 85 nostri dipartimenti (dico 85 dipartimenti, perchè, ben inteso eccettuo la Corsica dalla Francia) che non troverete una sola montagna in cui non vi sia un telegrafo, la più piccola grotta un poco oscura nella quale un commissario di polizia non abbia fatto porre un becco a gas. Non vi è dunque che un solo servigio che posso rendervi, mio caro conte, e per questo mi metto interamente a vostra disposizione; ed è di presentarvi ovunque, e farvi presentare dai miei amici; abbenchè voi per questo non abbiate bisogno d’alcuno: col vostro nome, la vostra fortuna, ed il vostro spirito (Monte-Cristo s’inchinò con un sorriso leggermente ironico), ognuno si presenta ovunque da sè stesso, ed ovunque è ben ricevuto. In realtà adunque non posso essere buono per voi che ad una cosa sola: se l’abitudine della vita parigina, se la esperienza dei nostri comodi, se la conoscenza dei nostri bazar possono raccomandarmi a voi mi metto a vostra disposizione per ritrovarvi una conveniente abitazione. Non oso proporvi di farvi parte del mio alloggio, come ho partecipato del vostro a Roma, non professo l’egoismo ma sono egoista per eccellenza; perchè il mio alloggio non potrebbe contenere oltre me neppure un’ombra.... a meno che non fosse quella di una donna.
 
— Ah! fece il conte, ecco una riserva del tutto matrimoniale; voi infatto a Roma mi avete detto qualche parola di un matrimonio in trattativa; debbo congratularmi sulla vostra prossima felicità?
 
— La cosa è sempre allo stato di disegno, sig. Conte.
 
— E chi dice disegno, soggiunse Debray, vuol dire eventualità. — No, no, disse Morcerf; mio padre vi ha dell’impegno, e spero fra poco di presentarvi se non mia moglie, almeno la mia fidanzata in madamigella Eugenia Danglars.
 
— Eugenia Danglars! riprese Monte-Cristo; aspettate dunque; suo padre non è il Conte Danglars? — Sì rispose Morcerf; ma conte di nuova formazione. — Oh! che importa! rispose Monte-Cristo, s’egli ha reso allo stato dei servigi che gli abbiano meritata questa distinzione.
 
— Servigi enormi, disse Beauchamp. Quantunque liberale nell’anima, nel 1829, completò un prestito di sei milioni a Carlo X che lo ha, sulla mia fede, fatto conte e cavaliere della legione d’onore, di modo che egli porta la decorazione non al taschino del giubbetto, come si potrebbe credere, ma bell’e bene all’occhiello dell’abito.
 
— Ah! disse Morcerf ridendo, Beauchamp, riserbate questi frizzi per inserirli sul Corsaire o sul Charivari; ma in mia presenza risparmiate il mio futuro suocero. — Quindi volgendosi a Monte-Cristo: — Ma voi poco fa ne pronunciaste il nome come se conosceste il conte?
 
— Non lo conosco, disse negligentemente Monte-Cristo, ma probabilmente non tarderò molto a fare la sua conoscenza, atteso che ho dei crediti aperti su lui dalla casa Richard e Blount di Londra, Arstein e Esheles di Vienna, Thomson e French di Roma. — Pronunciando questi due ultimi nomi, Monte-Cristo guardò colla coda dell’occhio Massimiliano Morrel. Se lo straniero aveva calcolato di produrre dell’effetto sopra Massimiliano Morrel, non s’era ingannato. Massimiliano si commosse come se avesse ricevuta una scossa elettrica. — Thomson [218] e French! diss’egli, conoscete questa casa signore? — Sono i miei banchieri nella capitale del mondo cristiano, rispose tranquillamente il conte: posso esservi giovevole con essi? — Ah! signore, voi potreste aiutarmi forse in certe ricerche, che fino ad oggi sono state infruttuose. In altro tempo questa casa ha reso un grandissimo servigio alla nostra, e non so perchè, essa ha sempre negato di avercelo reso. — Sono ai vostri comandi, rispose Monte-Cristo inchinandosi. — Ma noi, disse Morcerf, ci siamo allontanati in modo particolare ed a proposito di Danglars dall’argomento della conversazione. Si trattava di ritrovare una casa conveniente al conte di Monte-Cristo. Andiamo signori, orizzontiamoci per averne un’idea: ove alloggeremo questo nuovo ospite del gran Parigi?
 
— Nel sobborgo San Germano, disse Château-Renaud; là il signore ritroverà una graziosa abitazione posta fra il cortile ed il giardino.
 
— Bah! Château-Renaud, disse Debray, voi non conoscete che il vostro tristo ed ammuffito sobborgo San Germano; non lo ascoltate, signor conte, alloggiate Chaussée-d’Antin, è il vero centro di Parigi.
 
— Baluardo dell’Opera, disse Beauchamp; al primo piano, una casa con ringhiera; il signor conte vi farà portare dei cuscini di broccato d’argento, e vedrà, fumando la sua pipa turca, o inghiottendo le sue pillole, tutta la capitale sfilare sotto i suoi occhi.
 
— E voi, disse Château-Renaud, voi Sig. Morrel non avete alcuna idea? nulla proponete.
 
— Anzi, disse il giovine militare, al contrario, ne ho una, ma aspettava che il signore si fosse lasciato tentare da qualcuna delle brillanti proposizioni che gli sono state fatte. Ora, non avendo egli risposto, credo potergli offrire un appartamento in una casa piccola ma graziosa, tutta alla Pompadour, che mia sorella ha preso in fitto da circa un anno nella strada Meslay.
 
— Voi avete una sorella? domandò Monte-Cristo.
 
— Sì, signore, ed una eccellente sorella.
 
— Maritata? — Ben presto saranno 9 anni.
 
— E felice? domandò di nuovo il conte.
 
— Tanto felice, quanto è permesso d’esserlo a creatura umana, rispose Massimiliano. Ella sposò l’uomo che amava, quello che ci rimase fedele nella nostra avversa fortuna, Emmanuele Herbaut. — Monte-Cristo sorrise impercettibilmente. — Io abito là durante il mio semestre, continuò Massimiliano, e di unita a mio cognato Emmanuele noi saremo a disposizione del sig. conte per tutte quelle informazioni che potesse desiderare.
 
— Un momento, gridò Alberto prima che Monte-Cristo avesse avuto il tempo di rispondere; ponete mente a ciò che fate, volete rinchiudere un viaggiatore, come Sindbad il marinaro, nella vita di famiglia. Un uomo che è venuto a vedere Parigi, volete farlo diventare un patriarca?
 
— Oh! no, rispose Morrel sorridendo, mia sorella ha 25 anni, mio cognato 30: sono giovani, allegri, e felici; d’altra parte il sig. conte avrà il proprio appartamento, e non incontrerà gli ospiti che quando gli piacerà di scendere da loro.
 
— Grazie, signore, grazie, disse Monte-Cristo, mi contenterò di essere da voi presentato a vostra sorella ed a vostro cognato, se volete farmi questo onore: ma non posso accettare le offerte di nessuno di questi signori, attesochè ho già la mia abitazione preparata.
 
— Come! gridò Morcerf, voi andate a smontare ad una locanda? sarebbe troppo disdicevole per voi.
 
— Ma stava io forse tanto male a Roma? domandò Monte-Cristo.
 
— Per bacco! a Roma, disse Morcerf, avevate speso 50 mila scudi per farvi ammobiliare un appartamento, e presumo che non sarete tutti i giorni disposto ad una simile spesa.
 
— Non è ciò che mi ha trattenuto, rispose Monte-Cristo; aveva stabilito d’avere una casa a Parigi, intendo una casa mia. Ho mandato avanti il mio cameriere, ed a quest’ora deve già averla comprata, e fatta ammobiliare.
 
— Ma diteci dunque, che avete un cameriere che conosce Parigi, gridò Beauchamp.
 
— È la prima volta, signore, ch’egli, come me viene in Francia, è moro, e non parla, disse Monte-Cristo. — Allora è Alì? domandò Alberto in mezzo alla sorpresa generale.
 
— Sì, è Alì, egli stesso, il mio Nubiese, il mio Moro, che voi, cred’io, avete veduto a Roma.
 
— Sì, certamente, rispose Morcerf, me lo ricordo benissimo.
 
— Ma come mai avete voi incaricato uno della Nubia di comprarvi una casa a Parigi, e un muto di farvela ammobiliare? Il povero disgraziato avrà fatte tutte le cose di traverso.
 
[219]
— Disingannatevi, signore, anzi sono certo che avrà scelto ogni cosa a seconda del mio gusto; poichè voi sapete che il mio gusto non è quello di tutti; è giunto or sono otto giorni, avrà percorsa tutta la città con quell’istinto naturale che userebbe un bravo cane da caccia che andasse cacciando da sè solo; egli conosce i miei capricci, le mie fantasie, i miei bisogni; avrà ordinato tutto a modo mio; sapeva che sarei arrivato qui alle dieci; fin dalle 9 mi aspettava alla barriera di Fontainebleau. Mi ha consegnato questo biglietto, che è il mio nuovo indirizzo: prendete e leggete.
 
— Campi-Elisi n. 30, lesse Morcerf.
 
— Ah! è veramente originale! non potè far di meno di dire Beauchamp. — E grandemente principesca! aggiunse Château-Renaud. — Come, voi non conoscete la vostra casa? domandò Debray. — No, disse Monte-Cristo. Vi dissi già che non voleva tardare al convegno. Feci la mia toletta in carrozza, e sono venuto a discendere alla porta del visconte.
 
I giovani si guardarono l’un l’altro; essi non sapevano se Monte-Cristo avesse voluto rappresentare una commedia; ma tutto ciò che usciva dalla bocca di quest’uomo, aveva, non ostante la sua originalità, una tale impronta di semplicità, che non potevasi supporre ch’egli avesse dovuto mentire. D’altra parte, perchè avrebbe egli mentito? — Bisognerà dunque contentarsi di rendere al sig. conte, disse Beauchamp, tutti quei piccoli servigi che saranno in nostro potere. Io, nella mia qualità di giornalista, gli apro tutti i teatri di Parigi. — Grazie, signore, disse sorridendo Monte-Cristo, il mio intendente ha di già ricevuto l’ordine di prendere in fitto un palco in ciascuno d’essi. — E il vostro intendente è pure uno della Nubia, un muto? domandò Debray.
 
— No, signore, egli è semplicemente un vostro compatriotta, se pure un Corso è compatriotta di qualcuno; ma voi lo conoscete, sig. de Morcerf.
 
— Sarebbe egli per caso quel bravo Bertuccio, che è così esperto a prendere in fitto le finestre?
 
— Precisamente, e voi lo avete veduto da me, quel giorno ch’ebbi l’onore di avervi a colazione meco. È un bravissimo uomo, che è stato un po’ soldato, un po’ contrabbandiere, un po’ infine di tutto ciò che si può essere. Non giurerei neppure che non abbia avuto qualche intrigo colla polizia, per una miseria, qualche cosa di consimile ad un colpo di coltello.
 
— Ed avete scelto quest’onesto cittadino del mondo, per vostro intendente, sig. conte? disse Debray; e quanto vi ruba ogni anno?
 
— Ebbene! parola d’onore! disse il conte, niente più di un altro, ne sono sicuro; ma mi conviene, non conosce l’impossibilità, ed io lo tengo.
 
— Allora, disse Château-Renaud, eccovi con una casa montata; voi avete un’abitazione ai Campi-Elisi, domestico, intendente: non vi manca più che una moglie.
 
Alberto sorrise: pensava alla bella Greca veduta nel palco del conte al teatro Valle, e al teatro Argentina.
 
Da lungo tempo erano passati alle frutta, ed ai sigari.
 
— Mio caro, disse Debray alzandosi, sono le due e mezzo, il vostro convito è grazioso, ma non vi è buona compagnia che non si sia obbligati di lasciare, e qualche volta ancora per una cattiva; bisogna che ritorni al ministero. Parlerò del conte al ministero, e bisognerà bene che sappiamo chi sia.
 
— Astenetevene, disse Morcerf, i più maligni vi hanno rinunciato.
 
— Bah! noi abbiamo tre milioni, per la nostra polizia; è vero che sono quasi sempre spesi prima; ma non importa: resterà ben sempre un 50mila fr. da impiegarsi in questo.
 
— E quando saprete chi è, me lo direte?
 
— Ve lo prometto. A rivederci, Alberto. Signori, servo umilissimo. — Ed uscendo, Debray gridò ad alta voce:
 
— Fate avanzare. — Buono, disse Beauchamp ad Alberto, io non andrò alla camera, ma avrò ad offrire ai miei lettori molto di meglio che un discorso del sig. Danglars.
 
— Di grazia, Beauchamp, disse Morcerf, neppure una parola, ve ne supplico; non mi togliete il merito di presentarlo, e di spiegarlo. N’è vero ch’egli è curioso?
 
— Anche molto meglio che ciò, rispose Château-Renaud, egli è veramente uno degli uomini più straordinari che abbia mai veduto in vita mia. Venite Morrel?
 
— Solo il tempo di dare il mio biglietto al sig. conte, che vorrà promettermi di venire a farci una visita, strada Meslay n. 14.
 
— State sicuro che non mancherò, signore, disse inchinandosi il conte. — E Massimiliano Morrel uscì col barone di Château-Renaud, lasciando Monte-Cristo solo con Morcerf.
 

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