«Il gioielliere entrando girò uno sguardo investigatore intorno a sè; ma nulla poteva fargli nascere sospetti, se non ne aveva, e nulla confermarglieli quando ne avesse avuti.
«Caderousse copriva sempre con ambo le mani i biglietti, e l’oro. Carconta sorrideva al suo ospite il più graziosamente che poteva. — Ah! ah! disse il gioielliere, sembra che abbiate paura di non aver ricevuto il conto vostro: che ritornavate a contare il vostro tesoro prima della mia partenza?
«— No, disse Caderousse, ma l’avvenimento che ce ne mette in possesso è così inatteso, che non vi possiamo ancora aggiustar fede, e quando non abbiamo la prova materiale sotto gli occhi, ci pare sempre di sognare. — Il gioielliere sorrise. — Avete viaggiatori nel vostro albergo? domandò egli. — No, rispose Caderousse, non diamo da dormire; siamo troppo vicini alla città e nessuno vi si ferma.
«— Allora vi procuro un grandissimo incomodo?
«— Incomodarci voi! mio caro signore, disse con grazia Carconta, niente affatto; ve lo giuro. — Vediamo, dove mi metterete? — Nella [243] camera in alto. — Ma quella non è la vostra camera? — Oh! non importa; abbiamo un secondo letto nella camera di fianco a questa. — Caderousse guardò con meraviglia la moglie. Il gioielliere canterellò una piccola canzonetta mentre si riscaldava il dorso ad una fascina che Carconta aveva accesa al caminetto per riscaldare il suo ospite. In questo mentre ella portava sopra un angolo della tavola, su cui aveva messa una salvietta, i magri avanzi di un pranzo al quale unì due o tre uova fresche.
«Caderousse aveva nuovamente racchiusi i biglietti nel portafogli, l’oro nel sacchetto, ed il tutto nell’armadio. Egli passeggiava in lungo ed in largo, cupo e meditabondo, alzando a quando a quando la testa sul gioielliere, che stava fumando davanti al caminetto, e che a seconda che si asciugava da un lato, si voltava dall’altro. — Ecco qua, disse Carconta mettendo una bottiglia sulla tavola, quando vorrete cenare, tutto è all’ordine. — E voi? domandò Giovanni.
«— Io non cenerò, rispose Caderousse. — Abbiamo pranzato tardissimo, si affrettò a dire Carconta. — Cenerò dunque solo? disse il gioielliere. — Vi serviremo, disse Carconta con una premura, che non le era naturale, neppure cogli ospiti del suo paese. — Di tempo in tempo Caderousse lanciava su lei degli sguardi rapidi come il baleno. L’uragano continuava. — Sentite? sentite? disse Carconta; avete fatto molto bene, in fede mia, a ritornare. — Ciò non impedisce che se il temporale diminuisce durante la mia cena, io ritorni a mettermi in via. — Spira maestrale, disse Caderousse scuotendo la testa, avremo questo tempo fino a domani. E dicendo ciò, mandò un sospiro. — In fede mia, disse il gioielliere mettendosi a tavola, tanto peggio per quelli che sono di fuori. — Sì, soggiunse Carconta, essi passeranno una cattiva notte. — Il gioielliere cominciò la cena, e la Carconta continuò ad avere per lui tutte quelle piccole premure di un’attiva albergatrice; essa d’ordinario così dispettosa e strana era divenuta il modello della pulitezza e della previsione. Se il gioielliere l’avesse conosciuta per lo innanzi, si sarebbe certamente meravigliato di un sì gran cangiamento, e ciò non avrebbe mancato di inspirargli qualche sospetto. In quanto a Caderousse, egli non diceva una parola; continuava la sua passeggiata, e sembrava perfino esitasse a guardare l’ospite. Quando la cena fu terminata Caderousse andò egli stesso ad aprire la porta. — Credo che l’uragano si calmi, diss’egli. — Ma nello stesso momento, come per dargli una mentita, un terribile scroscio di tuono fece tremare la casa, e l’impeto del vento pervenne a spegnere la lucerna. Caderousse richiuse la porta, e sua moglie accese una candela al fuoco che stava estinguendosi. — Prendete, diss’ella al gioielliere, dovete essere stanco, ho messo delle lenzuola di bucato al letto, salite per riposarvi, e dormite bene. — Giovanni si fermò ancora un momento per assicurarsi che il temporale non si calmava, e quando fu fatto certo che il tuono e la pioggia non facevano che aumentare, augurò la buona notte ai suoi albergatori, e salì la scala.
«Egli passava al di sopra della mia testa, e sentiva ciascuno scalino scricchiolare sotto i suoi passi.
«Carconta lo seguì con occhio avido, mentre che Caderousse gli voltò le spalle, e non guardò neppure da quella parte.
«Tutti questi particolari che mi sono poi ritornati in memoria dopo quel tempo, non mi fecero in allora alcuna impressione mentre avvenivano sotto i miei occhi, e non v’era nulla di straordinario in ciò che accadeva, ed eccettuata la storia del diamante che mi sembrava un poco inverosimile, tutto andava in regola. Così, essendo spossato dalla fatica, e contando di approfittare del primo riposo che la tempesta avrebbe accordato agli elementi, risolvetti di dormire lì alcune ore, e di allontanarmi nel mezzo della notte. Io sentiva nella camera superiore che anche il gioielliere faceva tutti i preparativi per passare la notte il meglio che potesse. Ben presto il letto gemè sotto il peso di lui: egli era andato a riposare. Sentiva i miei occhi chiudersi mio malgrado, e siccome non aveva concepito alcun sospetto, così non misi alcun ostacolo al mio sonno. Gettai un ultimo sguardo nell’interno della cucina. Caderousse era assiso di fianco ad una lunga tavola, sur una di quelle panche di legno, che negli alberghi dei villaggi tengono le veci di sedie. Egli mi voltava le spalle, sì che non potei vederne i lineamenti; ma fosse ancor stato nella situazione contraria, nulla avrei potuto vedere, poichè teneva il viso sepolto nelle mani.
«La Carconta lo guardò per qualche tempo, poi si strinse nelle spalle e andò a sedersi vicino a lui.
«In questo mentre la fiamma morente si appiccò ad un avanzo di legno ch’ella [244] aveva dimenticato; una luce un poco più viva illuminò l’interno. Carconta teneva gli occhi fissi sul marito, e siccome questi rimaneva sempre nella stessa posizione, la vidi stendere verso di lui la scarna mano, e toccarlo in fronte. Caderousse fremette. Mi sembrò che la donna movesse le labbra, ma sia ch’ella parlasse troppo piano, sia che i miei sensi fossero già presi dal sonno, il rumore della sua parola non giunse fino a me. Io non ci vedeva neppur più, che come a traverso una nebbia, e con quella incertezza annunziatrice del sonno, nella quale si crede di cominciare a sognare. Finalmente i miei occhi si chiusero, e perdei la conoscenza di me stesso.
«Io era nel più profondo del mio sonno, quando fui svegliato da un colpo di pistola seguito da un grido terribile. Alcuni passi barcollanti rumoreggiarono sul piancito della camera, ed una massa inerte venne a cadere dalla scala precisamente sopra la mia testa.
«Io non era ancora ben padrone di me. Intesi dei gemiti, poi delle grida soffocate come quelle che accompagnano una lotta. Un ultimo grido, che terminò in un gemito prolungato, venne a togliermi del tutto dal mio letargo. Mi sollevai sopra un braccio, aprii gli occhi, che non videro niente nelle tenebre, e portai la mano alla fronte, sulla quale mi pareva che cadesse, dalle fenditure della scala, una pioggia tiepida ed abbondante. Il più profondo silenzio era succeduto a questo spaventoso rumore; intesi il passo di un uomo che camminava al di sopra; questi passi fecero scricchiolare la scala; l’uomo discese nella camera inferiore, si avvicinò al caminetto, ed accese una candela. Era Caderousse; egli aveva il viso pallido, e la camicia insanguinata. Accesa la candela risalì rapidamente la scala, e intesi di nuovo i suoi passi rapidi ed inquieti. Un momento dopo ritornò a discendere; teneva in una mano l’astuccio, e si assicurò che entro v’era ancora il diamante. Cercò un momento in quale delle sue saccocce doveva metterlo; quindi, senza dubbio, non ritenendo la saccoccia per un nascondiglio abbastanza sicuro, lo avvolse nel fazzoletto rosso, e se lo aggirò intorno al collo. Poi corse all’armadio, ne cavò i biglietti e l’oro e mise gli uni nelle tasche dei suoi calzoni, l’altro nella saccoccia del suo abito, prese due o tre camice, si slanciò verso la porta, e disparve nell’oscurità. Allora tutto venne per me chiaro e manifesto; mi figurai l’accaduto, come se fossi stato il vero reo. Mi sembrò sentire dei gemiti: il gioielliere poteva non essere ancora morto; forse poteva riparare, apportandogli soccorso, una parte di quel male, che non aveva fatto, ma che aveva lasciato fare. Appoggiai le spalle contro l’assito di quella specie di tamburo che mi separava dalla sala inferiore, l’assito cedè, ed io mi ritrovai in casa. Corsi a prendere la candela, e mi slanciai verso la scala; un corpo la sbarrava di traverso, era il cadavere della Carconta. Il colpo di pistola che aveva inteso era stato scaricato per lei, aveva la gola trapassata da parte a parte, ed oltre a questa doppia apertura che gettava a rivi, vomitava il sangue dalla bocca. Ella era morta del tutto. Scavalcai il suo corpo, e passai. La camera offriva l’aspetto del più spaventoso disordine. Due o tre mobili erano rovesciati; il lenzuolo al quale si era aggrappato il disgraziato gioielliere era steso per la camera; egli stesso giaceva per terra, colla testa appoggiata contro il muro, nuotando in un mare di sangue, che scaturiva da tre larghe ferite riportate sul petto. Nella quarta era rimasto un lungo coltello da cucina di cui non si vedeva che il manico. Inciampai nella seconda pistola, che non aveva preso fuoco, perchè forse la polvere era bagnata. Mi avvicinai al gioielliere; effettivamente egli non era morto; al rumore che feci, al movimento particolarmente del piancito, aprì gli occhi stravolti, giunse a fissarli un momento su me, agitò le labbra come se avesse voluto parlare, e spirò. Questo truce spettacolo mi aveva reso quasi insensato. Dal momento che non poteva più arrecare soccorso ad alcuno, io non provai che un solo bisogno, quello cioè di fuggire. Mi precipitai dalla scala, cacciandomi le mani nei capelli, e mandando un ruggito di terrore. Nella sala terrena vi erano 5, o 6 doganieri, e due o tre gendarmi. Un intero picchetto d’armati. S’impadronirono di me; io non tentai nemmeno di fare resistenza, non era più padrone dei miei sensi. Tentai parlare e non emisi che qualche grido inarticolato. Vidi che i doganieri ed i gendarmi mi mostravano a dito; volsi gli occhi su me stesso, e m’accorsi allora ch’era tutto pieno di sangue. Quella pioggia tiepida, che avevo sentito cadermi sopra dalle fenditure dei gradini della scala, era il sangue di Carconta. Mostrai col dito il luogo ov’era nascosto.
«— Che vuoi dire? domandò un gendarme.
[245]
«Un doganiere andò a vedere.
«— Vuol dire ch’egli è passato di là, rispose egli. — E mostrò l’apertura per la quale effettivamente io era passato. Allora capii che venivo preso per l’assassino. Ricuperai la voce, e ritrovai la forza; mi sciolsi dalle mani dei due uomini che mi tenevano, gridando: — Non sono stato io! non sono stato io!
«Due gendarmi mi presero di mira colla carabina.
«— Se fai un movimento, mi dissero, sei morto.
«— Ma, gridai, se vi ripeto che non sono stato io.
«— Tu racconterai la tua storiella ai giudici di Nimes, risposero essi. Frattanto vieni con noi; e se abbiamo un buon consiglio a darti, si è di non fare resistenza. — Questa non era la mia intenzione, io era spossato dalla sorpresa e dal terrore. Mi furono messe le manette, fui attaccato alla coda di un cavallo, e fui condotto a Nimes. Era seguito da un doganiere che mi aveva perduto di vista nelle vicinanze della casa, e pensando che avrei passata ivi tutta la notte andò ad avvisare i compagni, che giunsero in tempo per sentire di lontano il colpo di pistola, e per cogliere me, entrando, in mezzo a tante prove di reità, sì che capii benissimo quanto mi sarebbe costato a poter far conoscere la mia innocenza. Non aveva che un sol punto d’appoggio; e la mia prima domanda che feci al giudice d’istruzione fu una preghiera perchè fosse ricercato un certo abate Busoni, che in quel giorno si era fermato all’albergo del Ponte di Gard. Se Caderousse aveva inventata una storia, se quest’abate non esisteva, era evidentemente perduto, a meno che non fosse arrestato Caderousse, e confessasse tutto.
«Scorsero due mesi, durante i quali, debbo dirlo a lode dei miei giudici, furono fatte tutte le possibili ricerche per ritrovare quello che lor domandava. Aveva già perduta ogni speranza, Caderousse non era stato arrestato. Io era vicino ad essere giudicato nella prima seduta, allorchè li 8 settembre, cioè tre mesi e 5 giorni dopo l’avvenimento, l’abate Busoni, sul quale non sperava più, si presentò alle carceri, dicendo che sapeva che un prigioniero desiderava parlargli. Egli aveva saputo, diceva, la cosa a Marsiglia, e si affrettava a corrispondere al mio desiderio. Capirete con quale ardore lo ricevetti; gli raccontai tutto ciò di cui era stato testimonio, cominciai con esitanza la storia del diamante; contro ogni mia aspettativa, essa era vera punto per punto, e contro ogni mia aspettativa ancora egli aggiustò un’intera credenza a tutto ciò che gli dissi. Allora convinto dalla sua dolce carità, ravvisando in lui una profonda conoscenza dei costumi del mio paese, e pensando che la parola del perdono del solo delitto che aveva commesso in mia vita, poteva forse uscire dalle sua labbra tanto caritatevoli, gli raccontai, sotto il suggello di confessione, l’avventura d’Auteuil con tutti i suoi particolari. Ciò che aveva fatto per attraenza ottenne il medesimo resultato che se lo avessi fatto per secondo fine. La confessione di questo primo assassinio, che niente mi costringeva a confessare, gli provò ch’io non aveva commesso il secondo: egli mi lasciò, dicendomi di sperare e promettendomi di fare ciò che sarebbe stato in suo potere per convincere i giudici della mia innocenza.
«Ebbi di fatto la prova ch’egli si era occupato di me, quando vidi addolcirsi i trattamenti che riceveva nella mia prigione, e seppi che veniva differito il mio giudizio alle sedute che sarebbero venute dopo quelle che già si erano radunate. In quest’intervallo la Provvidenza volle che Caderousse fosse arrestato all’estero, e ricondotto in Francia. Egli confessò tutto, aggravando la moglie della premeditazione, e particolarmente della istigazione: e fu condannato alla galera in vita, ed io fui messo in libertà.
— E fu allora, disse Monte-Cristo, che vi presentaste a me colla lettera dell’abate Busoni.
— Sì, eccellenza, egli aveva preso per me un particolare interessamento. — Il vostro stato di contrabbandiere vi perderà, mi diss’egli, se voi uscite di qui, lasciatelo.
«— Ma, padre mio, gli chiesi, come volete che faccia a vivere e a far vivere la mia povera cognata?
«— Uno dei miei penitenti, mi disse egli, mi ha in molta stima, e mi ha incaricato di trovargli un uomo di confidenza. Volete essere quest’uomo? vi dirigerò a lui.
«— Oh! padre mio, gridai, quanta bontà!
«— Ma mi giurate che non avrò mai a pentirmene?
«Stesi la mano per fare il mio giuramento.
«— È inutile, diss’egli, conosco ed amo i Corsi: ecco la mia raccomandazione. — E scrisse le poche linee ch’io vi [246] portai, e per le quali V. E. ebbe la bontà di prendermi al suo servigio. Ora domando con orgoglio a V. E.: ha ella mai avuto a lamentarsi di me?
— No, rispose il conte, e lo dico con piacere, siete un buon servitore, quantunque manchiate di confidenza.
— Io signor conte!
— Sì, voi. E come va: avete una cognata ed un figlio adottivo, e non mi avete mai parlato di loro?
— Ahimè! eccellenza, questo è quanto mi rimane a dirvi, ed è la parte più trista della mia vita. Io partii per la Corsica: aveva fretta, come potete bene immaginarvi, d’andare a consolare quella ch’io chiamava mia sorella, ma quando giunsi a Rogliano, trovai la casa in lutto. Era accaduta una scena orribile, e di cui i vicini conservavano ancora memoria! La mia povera sorella, giusta quanto io le aveva consigliato, resistè alle pretensioni di Benedetto, che ad ogni momento voleva tutto il danaro di casa. Una mattina ei la minacciò, e poi disparve per tutto il giorno. Ella pianse, quella povera Assunta aveva pel miserabile una tenerezza materna. Giunse la sera, e lo aspettò senza andare in letto. Allorchè alle undici entrò con due dei suoi amici, compagni di tutte le sue follie, ella gli stese le braccia ma questi s’impossessarono di lei, ed uno dei tre, io temo che non sia stato quel diabolico fanciullo, l’uno dei tre gridò:
«— Diamole la tortura, bisognerà bene allora che confessi ove tiene nascosto il suo danaro. — Il vicino Wasilio per l’appunto era a Bastia, e sua moglie soltanto era rimasta in casa. Nessuno eccettuata lei, poteva vedere o sentire ciò che accadeva in casa mia. Due di loro tenevano ferma la povera Assunta, che non potendo credere alla possibilità di un simile eccesso, sorrideva a quelli che ne divenivano i carnefici, il terzo andò a barricare le porte e le finestre, indi ritornò, e tutti e tre riuniti, soffocando le grida che il terrore le strappava in faccia a questi preparativi che divenivano sempre più seri, avvicinarono i piedi di Assunta ad un braciere sul quale essi contavano per farle confessare dove era stato nascosto il piccolo tesoro; ma nella lotta il fuoco le si appiccò alle vesti: lasciarono allora la paziente per non essere bruciati anche essi. Fra le fiamme ella corse alla porta, ma era chiusa, si slanciò verso le finestre, ma erano barricate. Allora la vicina intese dei gridi orribili; era Assunta che chiamava soccorso. Ben presto la sua voce fu soffocata, e le grida divennero gemiti; la dimane, dopo una notte di terrore, e d’angoscia, quando la moglie di Wasilio si avventurò ad uscir di casa, e fare aprire la porta dal giudice, fu ritrovata la povera Assunta per metà bruciata, ma che respirava ancora; gli armadi sforzati, ed il piccolo tesoro sparito. Benedetto aveva lasciato Rogliano per non ritornarvi più, e da quel giorno non l’ho più nè veduto, nè ho inteso parlare di lui. Dopo queste triste notizie, venni da V. E. Io non poteva più parlarvi di Benedetto, perchè era sparito, nè di Assunta perchè era morta.
— E che avete pensato di ciò? domandò Monte-Cristo.
— Che questo era stato il castigo del delitto che io aveva commesso, rispose Bertuccio. Ah! questi Villefort, sono una razza maledetta!
— Lo credo anch’io, mormorò il conte con accento lugubre.
— Ed ora, n’è vero, riprese Bertuccio, V. E. comprenderà, che questa casa che d’allora non avevo più veduta, che questo giardino ove mi sono ritrovato d’improvviso, che questo luogo ove ho ammazzato un uomo, devono avermi procurato triste commozioni, delle quali avete voluto conoscere l’origine; poi perchè in fine non sono sicuro che davanti a me, là, ai miei piedi, Villefort non sia stato sepolto nella fossa ch’egli aveva scavata per suo figlio.
— Infatto tutto è possibile, disse Monte-Cristo levandosi dal banco su cui era assiso; ed anche, soggiunse a bassa voce, che il procuratore del re non sia morto. L’abate Busoni ha fatto bene ad indirizzarvi a me. E voi parimente avete fatto bene a raccontarmi la vostra storia, perchè non avrò più cattivi pensieri a vostro riguardo. In quanto a codesto mal chiamato Benedetto, non avete mai cercato di sapere ciò che ne sia avvenuto?
— Giammai. S’io avessi saputo ov’egli era, invece d’andare a lui, sarei fuggito come davanti ad un mostro. No, fortunatamente, non ne ho inteso mai parlare da chicchesia al mondo; e spero che sia morto.
— Non lo sperate, Bertuccio, disse il conte; i cattivi non muoiono così, poichè sembra che Dio li prenda sotto la sua custodia per farne gli strumenti della sua giustizia.
— Sia, disse Bertuccio. Tutto ciò però che io domando al cielo si è che non lo [247] abbia mai a rivedere. Ora, continuò l’intendente abbassando la testa, voi sapete tutto, sig. conte, siete il mio giudice quaggiù, non vorrete dirmi qualche parola di consolazione?
— In fatto avete ragione, ed io posso dirvi ciò che vi direbbe l’abate Busoni. Quegli che avete colpito, meritava un castigo per ciò che aveva fatto a voi e fors’anche a qualcun altro. Benedetto, s’egli vive, servirà a qualche giustizia divina, poi a sua volta sarà anch’esso punito. In quanto a voi, non avete che un rimprovero a farvi: chiedetevi perchè, avendo salvato questo fanciullo dalla morte non lo avete reso a sua madre; là sta il delitto, Bertuccio.
— Sì signore, là sta il mio delitto, ed il vero delitto, perchè in questo sono stato un vile. Una volta che avevo richiamato alla vita il fanciullo, non avevo più che una sola cosa da fare, voi lo diceste, era di farlo sapere a sua madre. Ma per conseguir ciò, mi necessitava fare delle ricerche, attirare l’attenzione, e forse scoprirmi; non volli morire, era attaccato alla vita pel sostentamento di mia sorella; per l’amore di sè stesso, innato in ciascuno, di rimaner sani e liberi nelle nostre vendette; quindi finalmente, era attaccato alla vita anche per l’amore stesso della vita. Oh! non sono un bravo, come lo era mio fratello! — E Bertuccio si nascose il viso fra le mani. Monte-Cristo fissò su lui un lungo e indefinito sguardo, indi dopo un momento di silenzio reso ancora più solenne dall’ora e dal luogo. — Per terminare degnamente questa conversazione che sarà l’ultima su tali avventure, Bertuccio, disse il conte, ritenete bene le mie parole, le ho spesso intese pronunciare dallo stesso abate Busoni. A tutti i mali vi sono due rimedii, il tempo ed il silenzio. Ora, Bertuccio, lasciatemi passeggiare un momento in questo giardino; ciò che porta a voi una emozione ripugnante, autore di questa orribile scena, sarà per me una sensazione quasi dolce, che darà un doppio prezzo a questa proprietà. Gli alberi non piacciono se non perchè danno ombra, e l’ombra stessa non piace se non perchè è piena di sogni e di visioni. Ecco che compro un giardino, credendo d’acquistare un semplice recinto circondato di muri, e d’improvviso esso si cambia in un giardino pieno di fantasmi non descritti nel contratto. Io amo i fantasmi, e non ho mai inteso dire che i morti abbiano in seimila anni, fatto tanto male, quanto ne fanno i vivi in un solo giorno. Rientrate dunque, Bertuccio, e andate a dormire in pace.
Bertuccio s’inchinò profondamente davanti al conte, e si allontanò mandando un sospiro.
Monte-Cristo rimase solo; e facendo quattro passi in avanti, mormorò: — Qui, vicino a questa pianta la fossa in cui fu deposto il fanciullo; laggiù la piccola porta per cui si entrava nel giardino; in quest’angolo la scala segreta che conduce alla camera da letto. Credo di non aver bisogno di descrivere tutto ciò nel mio taccuino, perchè ecco qua, davanti ai miei occhi, intorno a me, sotto i miei piedi, il piano in rilievo; il piano vivente. — Ed il conte dopo un ultimo giro in quel giardino andò a trovare la sua carrozza.
Bertuccio che lo vide astratto, s’assise presso il cocchiere. La carrozza riprese la strada di Parigi. La sera stessa, al suo ritorno nella casa dei Campi-Elisi, il conte di Monte-Cristo visitò tutta l’abitazione come avrebbe potuto fare hun uomo a cui essa fosse stata famigliare da molti anni; neppure una volta, sebbene andasse pel primo, aprì una porta per un’altra, o prese un corridore o una scala che non lo conducesse direttamente nel luogo ove aveva stabilito d’andare. Alì lo accompagnava in questa visita notturna. Il conte dette a Bertuccio molti ordini per l’abbellimento e la nuova distribuzione degli appartamenti; e cavando l’orologio disse all’attento moro: — Sono le 11 e mezzo, Haydée non può tardare a giungere. Sono state avvertite le cameriere francesi?
Alì stese la mano verso l’appartamento destinato alla bella Greca (talmente isolato, che nascondendo la porta dietro la tappezzeria, la casa poteva essere visitata per intero, senza che alcuno avesse potuto sospettare esservi un salotto e due camere abitate), mostrò il numero tre colla mano sinistra, e su questa mano, messa a piatto, appoggiò la testa, e chiuse gli occhi a guisa di dormiente.
— Ah! fece Monte-Cristo, abituato a questo linguaggio, sono tre che aspettano nella camera da letto, non è così?
— Sì, fece Alì, agitando la testa d’alto in basso.
— La signora sarà stanca questa sera, e senza dubbio vorrà dormire, continuò Monte-Cristo, che nessuno la faccia parlare; le cameriere francesi devono soltanto salutare la loro nuova padrona e ritirarsi; voi sorveglierete perchè la cameriera greca non abbia comunicazione colle cameriere francesi. — Alì s’inchinò. Ben [248] presto fu inteso chiamare il portinaro; il cancello s’aprì, una carrozza percorse il viale e si fermò davanti alla scalinata. Il conte discese; la portiera era già aperta, egli stese la mano ad una giovane avvolta in un manto di seta verde ricamato in oro che la copriva tutta, fin dalla testa. Allora, preceduti da Alì che portava una torcia col profumo di rose, la giovane fu condotta al suo appartamento, quindi il conte si ritirò nel padiglione che erasi riserbato.
Mezz’ora dopo mezza notte tutti i lumi erano spenti nella casa, sarebbesi potuto credere che tutti dormissero.