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XLVI. — LA PARIGLIA GRIGIO-POMELLATA.
日期:2021-06-29 15:34  点击:306
 Il barone, seguito dal conte, traversò una lunga fila d’appartamenti notevoli per la pesante loro sontuosità, ed il loro fastoso cattivo gusto, e giunse fino al gabinetto della sig.ª Danglars, piccola camera ottangolare parata di seta color rosa, ricoperta di mussola d’India; le seggiole erano di vecchio legno dorato coperte di vecchie stoffe: le sopraporte rappresentavano paesaggi del genere di Boucher: finalmente due piccoli medaglioni a pastello, in armonia col rimanente del mobilio, facevano di questa piccola camera, il solo locale della casa che avesse un qualche carattere: è vero ch’era sfuggita al piano generale stabilito fra Danglars ed il suo architetto, una delle più alte e più eminenti celebrità dell’impero, e la baronessa e Debray soli si riserbarono di decorarla. Così il signor Danglars, grande ammiratore dell’antico, al modo che lo intendeva il Direttorio, disprezzava moltissimo questo elegante piccolo ridotto, ove [254] del resto non era ammesso senza farsi scusare la sua venuta conducendo qualcuno; non era dunque in realtà Danglars che presentava, era al contrario egli il presentato, e ch’era bene o male ricevuto, a seconda che la fisonomia del visitatore era aggradita o disaggradita dalla baronessa.
 
La sig.ª Danglars, la cui bellezza poteva ancora essere citata ad onta dei suoi 36 anni, era al piano-forte, piccolo capo d’opera d’intarsiatura, nel mentre che Luciano Debray, seduto ad un tavolino da lavoro, sfogliava un album. Luciano aveva già avuto il tempo prima dell’arrivo di raccontare alla baronessa molte cose relative al conte. Si conosce già quanta impressione Monte-Cristo avesse fatta nei convitati alla colazione d’Alberto; impressione, che per quanto poco impressionabile, non erasi ancor cancellata in Debray.
 
La curiosità della sig.ª Danglars eccitata dalle informazioni anche di Morcerf, e dalle recenti di Debray, era dunque al colmo. Perciò questo accomodamento al piano-forte, ed all’album, non era che una di quelle piccole furberie del mondo, per mezzo delle quali si velano le più forti preoccupazioni. La baronessa ricevette Danglars con un sorriso, cosa che per parte sua era molto comune; quanto al conte, egli ricevette, in cambio del suo saluto, una cerimoniosa, ma nello stesso tempo graziosa riverenza.
 
Luciano dal canto suo scambiò col conte un saluto di mezza conoscenza, e con Danglars un gesto d’intimità.
 
— Signora baronessa, disse Danglars, permettetemi che io vi presenti il sig. conte di Monte-Cristo, che mi viene indirizzato dai miei corrispondenti di Roma colle raccomandazioni più vive; non ho che una parola da dire per farlo subito diventare il favorito di tutte le nostre più belle dame; egli viene a Parigi coll’intenzione di restarvi un anno, e di spendervi sei milioni in questo solo anno; ciò promette una serie infinita di balli, di pranzi, di festini nei quali voglio sperare che il sig. conte non vorrà dimenticarci, come certamente noi non lo dimenticheremo nelle nostre piccole feste. — Quantunque la presentazione fosse composta di troppo grossolane lodi, in generale, è una cosa tanto rara che un uomo venga a Parigi per spendervi in un anno la fortuna di un principe, che la sig.ª Danglars dette una occhiata al conte non priva d’interessamento.
 
— E siete giunto? domandò la baronessa.
 
— Da ieri mattina, signora. — E venite, secondo la vostra abitudine a quanto mi è stato detto, di capo al mondo.
 
— Da Cadice, questa volta, puramente e semplicemente da Cadice.
 
— Ah! giungete in una trista stagione; Parigi nell’estate è detestabile; non vi sono più nè balli, nè riunioi, nè feste. L’opera italiana è a Londra, l’opera francese è da per tutto, fuorchè a Parigi; e in quanto al teatro francese, voi sapete che non è più in alcun luogo. Non ci resta dunque per distrarci che qualche disgraziata corsa al Campo di Marte, ed a Satory. Farete voi correre, sig. conte?
 
— Io, signora, farò tutto ciò che si fa a Parigi, rispose Monte-Cristo, se avrò la fortuna di ritrovare qualcuno che m’informi convenientemente delle abitudini francesi.
 
— Siete dilettante di cavalli, sig. conte?
 
— Io ho passata una parte della mia vita in Oriente, e gli orientali, voi lo sapete, non stimano che due cose in questo mondo: la nobiltà dei cavalli, e la bellezza delle donne.
 
— Ah! signor conte; avreste dovuto avere la galanteria di mettere le donne per le prime.
 
— Vedete, signora, che io aveva ben ragione testè d’augurarmi un precettore che mi fosse di guida nelle abitudini francesi. — In questo momento entrò la cameriera favorita della sig.ª baronessa Danglars, ed avvicinandosi alla padrona le mormorò alcune parole all’orecchio. La signora Danglars impallidì. — Impossibile! diss’ella. — Eppure questa è l’esatta verità, signora, rispose la cameriera.
 
La sig.ª Danglars si volse al marito:
 
— E sarà vero signore? domandò la baronessa.
 
— Che cosa? domandò Danglars visibilmente agitato.
 
— Ciò che mi disse questa donzella?
 
— E che cosa vi ha detto?
 
— Che al momento che il mio cocchiere è andato per attaccare i miei cavalli alla mia carrozza, non li ha trovati in iscuderia; che significa ciò? io lo domando?
 
— Signora, disse Danglars, ascoltatemi.
 
— Oh! io vi ascolto, signore, perchè sono ben curiosa di sentire ciò che voi mi saprete dire: io farò questi signori giudici fra noi, e comincerò per dir loro come [255] stanno le cose: signori; continuò la baronessa, il sig. barone Danglars ha dieci cavalli in iscuderia; fra essi ve ne sono due che sono i miei grigi-pomellati. Ebbene! al momento in cui la sig.ª Villefort mi chiede in prestito la mia carrozza, ed io la prometto a lei per domani al bosco, ecco che i due cavalli non si trovano più. Il signor Danglars avrà trovato a guadagnarvi sopra qualche migliaio di franchi. Oh! che razza villana, mio Dio! che è quella degli speculatori.
 
— Signora, rispose Danglars, i cavalli erano troppo vivaci, essi avevano appena quattro anni, e mi facevano delle paure orribili per voi.
 
— Eh! ben sapete, disse la baronessa, che da un mese ho al mio servizio il miglior cocchiere di Parigi, a meno che non lo abbiate venduto coi cavalli.
 
— Amica cara, ve ne troverò degli uguali, ed anche dei più belli, se sarà possibile, ma che saranno cavalli docili e quieti che non ispireranno simili terrori.
 
La baronessa si strinse nelle spalle coll’aria del più profondo disprezzo. Danglars non fece mostra d’essersi accorto di questo gesto più che coniugale, e volgendosi a Monte-Cristo: — In verità mi dispiace di non avervi conosciuto prima, sig. conte, diss’egli; voi montate la vostra casa?
 
— Sì, disse il conte.
 
— Ve li avrei proposti; chè io li ho ceduti per niente, ma, come vi dissi, voleva disfarmene, sono cavalli da giovani.
 
— Signore, disse il conte, io vi ringrazio; ne ho acquistati questa mattina due molto buoni, e non a caro prezzo. Anzi, guardate, signor Debray, voi siete conoscitore, io credo? — Mentre che Debray si avvicinava alla finestra, Danglars si accostò a sua moglie. — Immaginatevi, signora, diss’egli a bassa voce, sono venuti ad offrirmi un prezzo esorbitante di quei cavalli. Non so chi sia il pazzo sulla via di rovinarsi che mi ha inviato questa mattina il suo intendente, ma il fatto è che vi ho guadagnato 16 mila fr. Non mi rimproverate, io ne darò a voi 4 mila, e due mila ad Eugenia.
 
La signora Danglars lasciò cadere su Danglars uno sguardo terribile. — Oh! mio Dio! gridò Debray.
 
— Che cos’è? domandò la baronessa.
 
— Ma non m’inganno certo, quelli sono i vostri cavalli, attaccati alla carrozza del conte.
 
— I miei grigi-pomellati? gridò la signora Danglars.
 
E si slanciò verso la finestra: — In fatto sono essi...
 
Danglars rimase stupefatto.
 
— Possibile? disse Monte-Cristo, fingendo meraviglia.
 
— È incredibile! mormorò il banchiere. — La Baronessa disse due parole all’orecchio di Debray, che a sua volta si accostò al conte: — La baronessa mi fa chiedere quanto ve li ha fatti pagare suo marito.
 
— Non lo so bene, disse il conte, è una sorpresa che mi ha fatta il mio intendente, e credo che mi costi 30 mila fr.
 
Debray andò a riportare la risposta alla baronessa.
 
Danglars era così pallido, e così sconcertato che il conte fece mostra d’averne pietà: — Vedete come sono ingrate le donne, diss’egli, questa previdenza per parte vostra non ha commosso per nulla la baronessa; ingrata non è la parola adatta, dovrei dire pazza; ma che volete farci? siamo sempre ciò che nuoce, per cui la più corta, credetemi, barone mio, è quella di lasciarle far sempre di testa loro; se almeno se la rompono, non hanno a prendersela che con sè stesse.
 
Danglars non rispose una parola: egli prevedeva prossima ad avvenire una scena disastrosa; le sopracciglia della baronessa eransi già aggrottate, e, come quelle di Giove Olimpico, presagivano un uragano. Debray che lo sentiva ingrossare, prese pretesto di un affare, e partì. Monte-Cristo che non voleva, col restar più lungamente, guastare la posizione di cui contava approfittarsi, salutò la sig.ª Danglars e si ritirò, abbandonando il barone alla collera della moglie. — Buono! pensò Monte-Cristo nel ritirarsi, sono pervenuto ove voleva giungere, ecco che tengo nelle mie mani la pace della famiglia, e che con un sol tratto vado a guadagnarmi il cuore del signore e della signora, quale felicità!... Ma in mezzo a tutto questo non sono stato presentato a madamigella Eugenia Danglars, che pure avrei desiderato molto di conoscere. Ma, soggiunse egli con quel sorriso suo particolare; eccoci a Parigi, ed abbiamo innanzi a noi il tempo... ciò sarà per il seguito.
 
Con queste riflessioni il conte montò in carrozza, e rientrò in casa sua. Due ore dopo la sig.ª Danglars ricevette una graziosa lettera dal conte di Monte-Cristo, nella quale le diceva, che non volendo cominciare il suo ingresso nel mondo parigino facendo disperare una bella donna, la supplicava di riprendere i suoi cavalli. [256] Essi avevano gli stessi finimenti che ella aveva veduti la mattina, soltanto in ciascuna rosetta che portavano sotto l’orecchia, il conte aveva fatto mettere un diamante.
 
Danglars ebbe pure una lettera. Il conte con essa gli chiedeva il permesso di condonare alla baronessa un capriccio da milionaria, e lo pregava di scusare il modo orientale con cui era accompagnato il rinvio dei cavalli.
 
La sera il conte partì per Auteuil, accompagnato da Alì. La dimane verso le tre, Alì fu chiamato da un tocco del campanello, ed entrò nel gabinetto del conte. — Alì, diss’egli, tu mi hai spesso fatto capire la tua destrezza nel lanciare il laccio?
 
Alì fece segno di sì, e si raddrizzò con fierezza.
 
— Bene!... così col laccio tu fermeresti un bove?
 
Alì fece segno colla testa di sì.
 
— Una tigre? — Alì fece il medesimo segno. — Un leone?
 
Alì fece il gesto dell’uomo che lancia il laccio, ed imitò un ruggito strangolato. — Bene! capisco, tu hai fatta la caccia del leone. — Alì fece un segno orgoglioso colla testa.
 
— Ma, arresteresti tu nella loro corsa due cavalli furibondi? — Alì sorrise.
 
— Ebbene ascolta, disse Monte-Cristo; in breve passerà di qui una carrozza trascinata da due cavalli grigi pomellati che avranno tolta la mano, gli stessi che io aveva ieri. Dovessi tu farti schiacciare, bisogna che fermi questa carrozza davanti alla mia porta.
 
Alì discese nella strada, e tracciò davanti alla porta una linea nella polve; quindi rientrò e mostrò la linea al conte che lo aveva seguito cogli occhi. Il conte gli battè dolcemente sulla spalla, era il suo modo di ringraziare Alì; poi il moro andò a fumare la pipa sul luogo in cui la strada formava angolo colla casa, nel mentre che Monte-Cristo si ritirava senza più occuparsi di niente. Frattanto, verso le 3, vale a dire nell’ora in cui Monte-Cristo aspettava la carrozza, si sarebbero potuti notare in lui i segni quasi impercettibili di una leggiera impazienza; egli passeggiava in una camera che guardava sulla strada, tendendo ad intervalli l’orecchio, e andando a quando a quando alla finestra da dove scorgeva Alì, che mandava sbuffate di fumo a regolari intervalli, come se il Nubiano si fosse soltanto occupato di questa importante operazione. D’improvviso s’intese un rotolar lontano ma che si avvicinava colla rapidità del fulmine, quindi comparve una carrozza, il cui cocchiere tentava inutilmente di trattenere i cavalli che si avanzavano furiosi, coi peli irti, e che si slanciavano con impeto insensato. In essa, una giovane signora ed un fanciullo di 7 a 8 anni, che tenevansi abbracciati, avevano perduto, per l’eccesso della paura, perfino la forza di mandare un grido. Sarebbe bastato un sasso sulla strada, o un tronco d’albero staccato, per tritolare la carrozza che già scricchiolava tenendo il mezzo della strada; sentivansi nella via le grida di terrore di coloro che la vedevano venire. In un baleno Alì depone la pipa, cava il laccio, lo lancia, avvolge con triplice giro le gambe davanti del cavallo di sinistra, si lascia trascinare per tre o quattro passi dalla violenza dell’impulso, ma dopo questi tre o quattro passi, il cavallo allacciato si abbatte, cade sul timone che spezza, e paralizza così gli sforzi che fa il cavallo rimasto in piedi per continuare la corsa; il cocchiere approfitta di questo momento di respiro per gettarsi giù dal suo seggio, ma già Alì ha afferrato colle sue dita di ferro il secondo cavallo, il quale nitrendo di dolore si stende convulsivamente vicino al suo compagno.
 
Per tutto ciò non necessitò che il tempo che occorre ad una palla per cogliere nel segno. Ciò non pertanto bastò perchè un uomo dalla casa avanti la quale accadeva questo accidente si slanciasse fuori accompagnato da molti servitori. Nel mentre che il cocchiere apre la portiera, quegli toglie dalla carrozza la dama che con una mano era aggrappata al cuscino, coll’altra stringeva al petto il figlio svenuto. Monte-Cristo li trasporta entrambi nel salone, e li deposita sur un canapè.
 
— Non temete più niente, signora, le disse egli, voi siete salva. — La donna ritornò in sè e per risposta gli presentò il figlio con uno sguardo più eloquente di tutte le preghiere. In fatto il fanciullo era sempre svenuto.
 
— Sì, signora, capisco, disse il conte esaminando il fanciullo; ma state tranquilla, non gli è accaduto alcun male, la sola paura lo ha messo in questo stato.
 
— Ah! signore, gridò la madre, non dite questo soltanto per tranquillarmi! Vedete come è pallido? figlio mio! figlio mio! mio Edoardo! rispondi dunque a tua madre. Ah! signore! mandate a cercare un medico, la mia fortuna è a chi mi restituisce il figlio! — Monte-Cristo fece un [257] gesto per calmare la madre desolata, ed aprendo un bauletto ne cavò una piccola bottiglia di cristallo di Boemia incrostata d’oro, contenente un liquore rosso come il sangue, e ne lasciò cadere una sola goccia sulle labbra del fanciullo, il quale quantunque sempre pallido, riaprì subito gli occhi. A questa vista la gioia della madre divenne quasi un delirio:
 
— Ove son’io? gridò ella, e a chi devo tanta felicità dopo una prova sì crudele?
 
— Voi siete, signora, rispose Monte-Cristo, in casa di un uomo felice di avervi potuto risparmiare un dispiacere.
 
— Oh! maledetta curiosità! disse la dama; tutta Parigi parla di questi magnifici cavalli della sig.ª Danglars, ed io ho avuta la follia di volerli sperimentare.
 
— Come! gridò il conte con una sorpresa recitata stupendamente, questi cavalli sono quelli della baronessa Danglars?
 
— Sì, signore, la conoscete voi?
 
— La signora Danglars?.... ho questo onore, e la mia gioia è doppia nel vedervi salva dal pericolo che vi hanno fatto correre questi cavalli, mentre voi avreste potuto addebitarne me: io aveva acquistati questi cavalli dal barone, ma la baronessa mi parve talmente afflitta, che glieli rimandai ieri, pregandola a volerli accettare dalle mie mani.
 
— Ma allora dunque siete il conte di Monte-Cristo di cui mi ha tanto parlato ieri Erminia?
 
— Sì, signora, disse il conte.
 
— Ed io, signore, Luigia di Villefort. — Il conte la salutò come se questo cognome gli arrivasse del tutto nuovo.
 
— Oh! quanto vi sarà riconoscente il sig. de Villefort, riprese Luigia, perchè finalmente vi dovrà la vita di noi due, voi gli avete reso la moglie ed il figlio; certamente, senza il generoso vostro servitore, questo caro fanciullo ed io saremmo rimasti uccisi.
 
— Pur troppo! signora; fremo ancora pensando al pericolo che avete corso.
 
— Oh! spero che mi permetterete di compensare degnamente lo zelo di quest’uomo.
 
— Signora, rispose Monte-Cristo, non mi guastate Alì ve ne prego, nè con elogi, nè con ricompense; non voglio che prenda queste abitudini. Alì è mio schiavo; salvandovi la vita ha servito me, ed è suo dovere il servirmi.
 
— Ma egli ha arrischiata la sua vita! disse la sig.ª de Villefort, alla quale questo tuono di padrone imponeva in un modo singolare.
 
— Ed io ho salvata la sua, signora, rispose Monte-Cristo, per conseguenza essa mi appartiene. — La sig.ª de Villefort si tacque: forse rifletteva a quest’uomo, che dal primo momento faceva tanta impressione sugli spiriti. Durante questi momenti di silenzio, il conte potè considerare con suo comodo quel fanciullo, che la madre copriva di tanti baci. Egli era piccolo, gracile, bianco di pelle come i fanciulli rossi, ad onta che una foresta di capelli neri, ribelli ad ogni acconciatura, ne coprisse la fronte rotondeggiante, e cadendo sulle spalle ne contornasse il viso, e raddoppiasse la vivacità degli occhi pieni di furba malizia e di giovanile cattiveria; la bocca, appena ritornata vermiglia, era sottile nelle labbra, e larga nell’apertura: i lineamenti di questo fanciullo di otto anni, annunciavano un’età almeno di 12 anni. Il primo movimento fu di sciogliersi, con una rozza scossa, dalle braccia di sua madre, e di andare ad aprire il bauletto da dove il conte aveva tratta la boccetta d’elixir: quindi, senza domandare il permesso ad alcuno e giusta quanto sogliono fare i fanciulli avvezzi a soddisfare tutti i loro capricci, si mise a levare il turacciolo a tutte le ampolle: — Non toccate queste, amico mio, disse prestamente il conte, alcuni di questi liquori sono pericolosi non solamente a beversi, ma ancora ad odorarsi. — La sig.ª de Villefort impallidì ed arrestò il braccio di suo figlio che ricondusse a sè; ma appena sedato il suo timore, gettò sul bauletto un corto ma espressivo sguardo, che il conte prese di volo. In questo momento entrò Alì. La sig.ª de Villefort fece un movimento di gioia, e tirando più vicino a sè il fanciullo; — Edoardo, gli disse, vedi, questo buon servitore? Egli è stato molto coraggioso, perchè ha esposto la sua vita per fermare i cavalli che ci trascinavano, e la carrozza ch’era vicina a fracassarsi, ringrazialo dunque, perchè, senza lui, a quest’ora forse saremmo morti. — Il fanciullo allungò le labbra, e voltò sdegnosamente la testa: — È troppo brutto, diss’egli. — Il conte sorrise come se il fanciullo compiesse una delle sue speranze. Quanto alla sig.ª de Villefort, sgridò il figlio tanto blandamente, che non avrebbe certamente dato nel genio di Giovan-Giacomo Rousseau, se il piccolo Edoardo si fosse chiamato Emilio.
 
— Vedi tu, disse in arabo il conte ad Alì, questa signora prega suo figlio di ringraziarti per la vita che tu hai salvata [258] ad entrambi, ed il fanciullo risponde che sei troppo brutto. — Alì per un momento volse la testa intelligente, ed osservò il fanciullo apparentemente senza espressione, ma un semplice tremito della sua narice fece accorto Monte-Cristo, ch’era rimasto ferito nell’anima.
 
— Signore, chiese la sig.ª de Villefort alzandosi per ritirarsi, questa casa è la vostra abitazione continua?
 
— No, signora, rispose il conte, è una specie di luogo di riposo, che ho acquistato: io abito all’entrata dei Campi-Elisi n. 30. Ma vedo che voi siete del tutto rimessa e che desiderate ritirarvi. Ho ordinato che siano attaccati alla mia carrozza quei medesimi cavalli; e Alì, quel servitore così brutto, diss’egli sorridendo al fanciullo, avrà l’onore di condurvi a casa, mentre che il vostro cocchiere resterà qui per fare accomodare la vettura. Così appena terminata questa piccola faccenda indispensabile, una delle mie pariglie lo ricondurrà direttamente dalla sig.ª Danglars.
 
— Ma, disse la sig.ª de Villefort, non avrò mai il coraggio di ritornare con gli stessi cavalli.
 
— Oh! vedrete, signora, che sotto la mano d’Alì diventeranno docili come agnelli.
 
In fatto Alì si era avvicinato ai cavalli, che a grande stento era riuscito a far ritornare in piedi. Egli teneva in mano una piccola spugna imbevuta d’aceto aromatico; ne strofinò le narici e le tempia ai cavalli, coperti di sudore e di schiuma, e quasi subito si misero a soffiare fortemente, e a fremere in tutte le loro membra per qualche secondo.
 
Quindi in mezzo ad una folla numerosa richiamata dall’avvenimento e dalla rottura della carrozza innanzi la casa, Alì fe’ attaccare i cavalli al coupé del conte, riunì le redini, salì sul seggio, e, con grande stupore di tutti gli assistenti che avevano veduto questi cavalli slanciati come da un turbine, fu obbligato ad usare vigorosamente la frusta per farli partire, e anche non potè ottenere dai famosi grigio-pomellati, ora stupidi, petrificati, morti, che un trotto tanto mal sicuro e languido che abbisognò alla sig.ª de Villefort, impiegare quasi due ore per giungere al sobborgo Sant’onorato ove abitava. Appena giunta in casa, e calmate le prime emozioni di famiglia, ella scrisse subito il seguente biglietto alla sig.ª Danglars.
 
«Cara Erminia.
 
«Sono stata miracolosamente salvata in un con mio figlio da quello stesso conte di Monte-Cristo, di cui ieri sera voi mi avete tanto parlato, e che era lungi dal credere che avrei veduto ªoggi. Ieri mi parlaste di lui con un entusiasmo tale ch’io non potei far a meno di scherzarne con tutto il mio piccolo spirito, ma oggi ritrovo questo entusiasmo molto al disotto dell’uomo che lo ispirava. I vostri cavalli avevano presa la mano a Ranelangh come se fossero stati invasi dalla frenesia, e noi probabilmente saremmo andati in pezzi, Edoardo ed io, contro il primo albero della strada, od il primo muro del villaggio, quando un arabo, un moro, uno della Nubia, un uomo nero infine, al servizio del conte, ha, dietro un suo cenno, io credo, fermato lo slancio dei cavalli col rischio di essere egli stesso ucciso, ed è proprio un miracolo che non lo sia stato. Allora il conte è accorso, e ci ha portati in casa sua, ed ha richiamato mio figlio alla vita. Nella sua carrozza fui ricondotta a casa; domani vi sarà rimandata la vostra. Ritroverete i vostri cavalli avviliti dopo questo accidente; sono divenuti come ebeti; si direbbe che non possono perdonare a sè stessi di essersi lasciati vincere da un uomo. Il conte mi ha incaricato di dirvi che due giorni di riposo sulla paglia, e l’orzo per solo nutrimento, si rimetteranno nello stesso stato florido, vale a dire spaventoso, come lo erano ieri.
 
«Addio! non vi ringrazio della mia passeggiata; e ciò non pertanto, quando vi rifletto, è un’ingratitudine il conservarvi rancore pel capriccio della vostra pariglia, poichè ad esso devo il piacere d’aver veduto il conte di Monte-Cristo, e l’illustre forestiero mi sembra, prescindendo dai milioni di cui può disporre, un problema sì curioso e così importante, che conto di studiarlo ad ogni costo, dovessi ancora rifare un’altra passeggiata al bosco coi vostri proprii cavalli.
 
«Edoardo ha sopportato l’avventura con un coraggio miracoloso. Egli è svenuto, ma non ha mandato un grido prima, nè versata una lagrima dopo. Direte ancora che il mio amore materno mi acceca, ma vi è un’anima di ferro in quel piccolo corpo così gracile e così delicato.
 
«La nostra cara Valentina dice molte cose alla vostra cara Eugenia; io vi abbraccio di tutto cuore.
 
Luigia de Villefort.
 
— «P. S. Fatemi dunque trovare in casa vostra in qualunque modo col conte di Monte-Cristo, voglio assolutamente rivederlo. Del resto però, ho ottenuto dal sig. de [259] Villefort che gli faccia una visita; spero che gliela restituirà.»
 
Nella sera, l’avventura d’Auteuil formava l’argomento di tutte le conversazioni; Alberto la raccontava a sua madre, Château-Renaud nel Jockey-Club, Debray nella sala del ministro, Beauchamp stesso fece al conte la galanteria d’inserire nel suo giornale, sotto la rubrica dei Fatti diversi, un racconto di venti lunghe linee, che situò il nobile straniero come un eroe presso tutte le donne dell’aristocrazia.
 
Molte persone andarono a farsi inscrivere nell’anticamera della sig.ª de Villefort, per avere poi il diritto di rinnovare la loro visita in tempo utile, e di sentire dalla bocca di lei tutti i particolari di questa pittoresca avventura.
 
In quanto al sig. de Villefort, come lo aveva scritto Luigia, indossò un abito nero, guanti bianchi, e salì nella sua carrozza, che si fermò alla porta n. 30 all’entrata dei Campi-Elisi.
 

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