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IL. — LA FAMIGLIA MORREL.
日期:2021-06-29 15:34  点击:250
 In pochi minuti la carrozza giunse strada Meslay n.º 7.
 
La casa era bianca, ridente, e preceduta da un cortile con due praticelli guerniti di belli fiori.
 
Nel portinaro che gli aprì la porta, il conte riconobbe il vecchio Coclite, ma come ognuno ricorderà, questi non aveva che un occhio, ed in nove anni quest’occhio era ancora considerevolmente indebolito. Coclite non riconobbe il conte. La carrozza, per fermarsi davanti l’entrata, doveva voltare onde evitare un piccolo getto d’acqua che cadeva in un bacino di rocce; magnificenza che aveva eccitata la gelosia del quartiere, e che era causa che questa casa venisse chiamata la piccola Versailles. È superfluo il dire che nel bacino guizzavano in quantità pesci gialli e rossi.
 
La casa eretta sopra le cucine e le cantine, aveva, oltre il piano terreno, due piani e le soffitte. I giovani l’avevano acquistata colle dipendenze, che consistevano [266] in un laboratorio, in due padiglioni nel fondo del giardino, e nel giardino stesso. Emmanuele aveva veduto, a primo colpo d’occhio, che in questa disposizione di locali v’era una piccola speculazione da farsi: si era riservata la casa, la metà del giardino, e aveva tirata una linea, cioè, fabbricato un piccolo muro fra lui ed il laboratorio, che aveva dato in fitto in un coi padiglioni e la porzione rimasta di giardino; di modo che si trovava alloggiato per una somma molto modica, e tanto ben chiuso, quanto il più scrupoloso proprietario di una casa del sobborgo San-Germano. La sala da pranzo era di quercia, il salotto di mogano e di velluto blu, la camera da dormire di cedro e di damasco verde; vi era inoltre un gabinetto di studio per Emmanuele che nulla studiava, ed un salotto per musica per Giulia che non n’era dilettante. Il secondo piano per intero era dedicato a Massimiliano; egli aveva in quello una ripetizione esatta dell’appartamento della sorella, meno che la sala da pranzo convertita in sala di bigliardo, ove conduceva i suoi amici.
 
Sorvegliava da sè stesso il suo cavallo, e fumava il sigaro all’ingresso del giardino, quando la carrozza del conte si fermò alla porta.
 
Coclite aprì la porta, come abbiamo detto, e Battistino si slanciò dal sedile, chiedendo se il sig. e la sig.ª Herbault ed il sig. Massimiliano Morrel erano visibili pel conte di Monte-Cristo.
 
— Pel conte di Monte-Cristo! gridò Morrel gettando il sigaro, e slanciandosi avanti al visitatore; lo credo bene che siamo visibili per lui, ah! grazie, cento volte grazie, sig. conte, di non avere dimenticata la vostra premessa. — Ed il giovine officiale strinse così cordialmente la mano del conte, che questi non potè ingannarsi sulla franchezza della manifestazione, e vide bene ch’era stato aspettato con impazienza e ricevuto con premura. — Venite, venite, disse Massimiliano, voglio servirvi d’introduttore; un uomo come voi siete, non deve essere annunziato da un domestico, mia sorella è in giardino a strappar le rose appassite; mio cognato legge i suoi giornali favoriti, la Presse ed il Débats a sei passi da lei lontano, perchè ovunque si ritrova la signora Herbault, si ritrova Emmanuele, e vice versa.
 
Il rumore dei passi fe’ alzare la testa ad una giovane donna di 20 a 25 anni, abbigliata con una veste da camera di seta, e che sfogliava con una cura particolare un magnifico rosaio. Questa donna era la nostra piccola Giulia, divenuta, come le era stato predetto dal mandatario della casa Thomson e French, la moglie di Emmanuele Herbault. Vedendo uno straniero mandò un piccolo grido. Massimiliano si mise a ridere: — Non ti scomodare, sorella mia, diss’egli, il sig. conte è a Parigi da soli due o tre giorni, ma sa già che cosa è una censuaria del Marais, e se non lo sa tu glielo insegnerai.
 
— Ah! signore, condurvi così, disse Giulia, è un tradimento di mio fratello che non ha per sua sorella la più piccola galanteria... Penelon!... Penelon!...
 
Un vecchio che zappava intorno ad un rosaio bianco del Bengala, piantò la zappa in terra e si avvicinò, col berretto in mano, dissimulando il meglio che poteva l’avanzo di sigaro che stava masticando, e che nascondeva nel fondo della guancia. Qualche capello bianco inargentava la sua fitta capellatura, nel mentre che il color bronzino e l’occhio ardito e vivo annunciavano un vecchio marinaro, imbrunito sotto il sole dell’equatore, e disseccato al soffio delle tempeste: — Mi pare che mi abbiate chiamato, madamigella Giulia, diss’egli, eccomi. — Penelon aveva conservato l’abitudine di chiamare la figlia del suo padrone madamigella Giulia, e non aveva mai potuto prendere quella di chiamarla sig.ª Herbault. — Penelon, disse Giulia, andate a prevenire Emmanuele della buona visita che abbiamo, mentre che Massimiliano condurrà il signore nel salotto. — Indi volgendosi a Monte-Cristo: — Il signore mi permetterà di fuggire un minuto, n’è vero? diss’ella. — E senza aspettare il consenso del conte, si slanciò dietro un gruppo d’alberi, e rientrò in casa per un viale laterale. — E che! mio caro Morrel, disse Monte-Cristo, m’avveggo bene con dispiacere ch’io faccio rivoluzione nella vostra famiglia.
 
— Guardate, guardate, disse Massimiliano ridendo, vedete laggiù il marito, che, da sua parte, va a cambiare la veste da camera in un abito? Oh! è perchè voi siete conosciuto nella strada Meslay, voi eravate annunziato, vi prego di crederlo.
 
— Mi sembra che abbiate qui una felice famiglia, disse il conte rispondendo al suo pensiero.
 
— Oh! sì, ve ne garantisco, sig. conte; che volete? nulla manca loro per essere felici, sono giovani, sono allegri, si amano, e, colle loro 25 mila lire di rendita, si figurano possedere le ricchezze di Rothschild.
 
[267]
— È poco però 25 mila lire di rendita, disse Monte-Cristo con una dolcezza così soave che penetrò il cuore di Massimiliano, come avrebbe potuto farlo la voce di un tenero padre; ma non si fermeranno lì i nostri giovani, diverrano a loro volta milionari. Il vostro cognato è avvocato... medico?
 
— Era negoziante, sig. conte, ed aveva presa la ditta del mio padre. Il sig. Morrel è morto lasciando 500 mila fr. di fondi; io ne aveva una metà, e mia sorella l’altra, perchè non eravamo che due figli. Suo marito, che l’aveva sposata senza avere altro patrimonio che la sua nobile probità, la sua intelligenza di prim’ordine, e la sua riputazione senza macchia, ha voluto possedere egual somma che sua moglie. Egli lavorò fin ch’ebbe accumulati 250 mila fr.; sei anni bastarono. Era, ve lo giuro sig. conte, un commovente spettacolo il vedere questi due giovani sì laboriosi, sì uniti, destinati per la loro capacità alla più gran fortuna, e che, non avendo voluto fare alcun cambiamento nelle abitudini della casa paterna, hanno messo sei anni per accumulare ciò, che dei novatori avrebbero potuto fare in due o tre; così, Marsiglia risuona tuttora delle lodi che non ha potuto rifiutare a tanta abnegazione. Finalmente un giorno Emmanuele venne a ritrovare sua moglie che compiva di pagare le scadenze:
 
«— Giulia, le diss’egli, ecco l’ultimo rollo di 100 fr. riscosso da Coclite, e che compie i 250 mila fr. che abbiamo fissato come limite del nostro guadagno. Sarai tu soddisfatta di questo poco di cui d’ora innanzi bisognerà che ci contentiamo? Ascolta, la casa ogni anno fa affari per un milione di fr., e può produrre un utile di 40mila fr.; venderemo, se vogliamo, la clientela in un’ora per 300 mila fr. perchè ecco qui una lettera del sig. Delaunay che ce li offre in cambio dei nostri fondi, ch’egli vuole riunire ai suoi. Pensa a ciò che credi che si debba fare. — Amico mio, disse mia sorella, la ditta Morrel non può essere portata che da un Morrel. Salvare per sempre il nome di nostro padre da qualunque evento della fortuna, non vale più dei 300 mila fr.? — Lo pensava anche io, disse Emmanuele; pure ho voluto sentire il tuo parere. — Ebbene, amico mio, eccolo. Tutti i nostri incassi sono fatti, tutte le nostre obbligazioni pagate; possiamo tirare un rigo al disotto dei conti di questa quindicina, e chiudere il banco; facciamolo.
 
«Il che fu fatto nello stesso momento. Erano le tre; alle tre e un quarto un cliente si presentò per fare assicurare il tragitto di due bastimenti; era un guadagno sicuro di 15 mila fr. in contanti:
 
«— Signore, gli disse Emmanuele, abbiate la bontà di volgervi per queste assicurazioni a qualcun altro dei nostri confratelli, per esempio al sig. Delaunay, in quanto a noi, abbiamo lasciati gli affari.
 
«— E da quanto tempo? domandò il cliente meravigliato.
 
«— Da un quarto d’ora.
 
— Ed ecco, o signore, continuò sorridendo Massimiliano, in qual modo mia sorella e mio cognato non hanno che 25 mila lire di rendita.
 
Massimiliano terminava appena questa narrazione, durante la quale il cuore del conte erasi sempre più dilatato, allorchè Emmanuele ricomparve restaurato di un abito e di un cappello. Egli salutò in modo da far conoscere che sapeva la visita, quindi, dopo aver fatto fare al conte il giro del piccolo recinto fiorito, lo condusse verso la casa. Il salotto era già imbalsamato dai fiori che stavano con gran stento contenuti in un immenso vaso del Giappone a maniche naturali. Giulia convenientemente vestita, ed elegantemente pettinata (aveva esauste tutte le sue forze in dieci minuti!), si presentò sull’ingresso per ricevere il conte. Si sentivano cinguettare gli uccelli di una vicina uccelliera; i rami di falso ebano, e dell’acacia rosea venivano coi loro grappoli di fiori ad ornare i panneggiamenti di velluto blu. Tutto respirava calma in questo grazioso piccolo ritiro; dal canto degli uccelli fino al sorriso dei padroni. Il conte, fin dal suo entrare nella casa, si era di già impregnato di questa felicità; perciò restava muto e astratto, dimenticando di esser guardato ed atteso per riprendere la conversazione interrotta dopo i primi complimenti. Egli s’accorse del suo silenzio che diveniva quasi inconveniente, e strappandosi con isforzo dalla sua astrazione: — Signora, diss’egli finalmente, perdonatemi, una emozione che deve maravigliare voi, assuefatta a questa pace ed a questa felicità; ma per me è cosa tanto nuova la soddisfazione sul viso umano, che non mi stanco di contemplare voi e vostro marito.
 
— Siamo di fatto molto felici, signore, replicò Giulia; ma abbiamo sofferto tanto lungamente, che ben poche persone hanno conquistata la loro felicità ad un sì caro prezzo.
 
La curiosità si dipinse sui lineamenti del conte.
 
[268]
— Oh! questa è una storia di famiglia, come vi diceva l’altro giorno Château-Renaud, riprese Massimiliano; per voi, sig. conte, assuefatto a vedere illustri infortunii, e splendide gioie, vi sarebbe poco interessamento in questo quadro familiare. Tuttavolta abbiamo, come diceva Giulia, sofferti vivi dolori, quantunque circoscritti in questo piccolo quadro.
 
— E Dio versò su voi, come versa su tutti, la consolazione sulle disgrazie? domandò Monte-Cristo.
 
— Sì, sig. conte, lo possiamo dire, perchè ha fatto per noi, ciò che potrebbe fare pei suoi eletti; ci ha inviato uno dei suoi angeli. — Le guance del conte divennero rosse, ed ei tossì per avere un mezzo di dissimulare la sua emozione, portando alla bocca il fazzoletto. — Coloro che nacquero in una culla di porpora e che non hanno mai desiderato cosa alcuna, disse Emmanuele, non sanno ciò che sia il bene della vita; nello stesso modo che non conoscono il valore di un cielo puro e sereno coloro che non hanno mai messa la loro vita in balia di quattro assi gettati sopra un mare in furore.
 
Monte-Cristo si alzò, e senza risponder nulla, poichè al tremolio della sua voce avrebbero forse riconosciuta l’emozione da cui egli era agitato, si mise a percorrere il salotto passo passo.
 
— La nostra magnificenza vi farà sorridere? disse Massimiliano che seguiva cogli occhi Monte-Cristo.
 
— No, no, rispose Monte-Cristo molto pallido, e comprimendosi con una mano i battiti del cuore, nel mentre coll’altra mostrava al giovine una campana di cristallo, sotto la quale una borsa di seta stava preziosamente stesa sopra un cuscino di velluto nero; domando soltanto a che serve questa borsa che da una parte mi sembra che contenga una carta, e dall’altra un bel diamante.
 
Massimiliano assumendo un’aria grave rispose:
 
— Questo, sig. conte, è il più prezioso dei nostri tesori di famiglia.
 
— In fatti questo diamante è molto bello, replicò il conte.
 
— Oh! mio fratello non vi parla già del prezzo della pietra quantunque sia stimata 100 mila fr. egli vuole solamente dirvi che gli oggetti che racchiude questa borsa son le reliquie di quell’angelo di cui vi parlavamo or’ora.
 
— Ecco ciò che non saprei capire, e che ciò non ostante non debbo domandare, signora, replicò Monte-Cristo inchinandosi; perdonatemi, io non voleva essere indiscreto.
 
— Indiscreto, dite voi? Oh! quanto al contrario ci rendete contenti, sig. conte, offrendoci un’occasione di trattenerci su questo argomento! se noi nascondessimo come un segreto la bell’azione che ci ricorda questa borsa, non la terremmo così esposta alla vista di tutti. Oh! vorressimo poterla pubblicare in tutto l’universo, perchè un fremito del nostro sconosciuto benefattore ci svelasse la sua presenza.
 
— Davvero? fece Monte-Cristo con voce soffocata.
 
— Signore, disse Massimiliano sollevando la campana di cristallo e baciando divotamente la borsa di seta, questa ha toccato la mano di un uomo pel quale mio padre è stato salvato dalla morte, dalla rovina, e dall’infamia; di un uomo mercè il quale, noi poveri ragazzi, destinati alla miseria ed alle lagrime, possiamo sentire oggi le persone esaltarsi per la nostra felicità. Questa lettera (e Massimiliano cavò il biglietto dalla borsa e lo presentò al conte) questa lettera fu scritta da lui, un giorno in cui mio padre aveva presa una risoluzione molto disperata, e questo diamante fu dato in dote a mia sorella da questo generoso sconosciuto.
 
Monte-Cristo aprì la lettera e la lesse con un’indefinibile espressione di felicità; era il biglietto che i nostri lettori conoscono, diretto a Giulia, e firmato Sindbad il marinaro.
 
— Sconosciuto, diceste? per tal modo l’uomo che vi ha reso questo servigio vi è rimasto ignoto?
 
— Sì, signore, non abbiamo mai avuta la fortuna di stringergli la mano! non fu però per nostra mancanza di non aver chiesto a Dio questa grazia, riprese Massimiliano; ma in tutto questo affare vi fu una così misteriosa direzione che non siamo ancora giunti a comprender niente: il tutto fu guidato da una mano invisibile, potente come quella di un mago.
 
— Oh! disse Giulia, non ho ancora perduta del tutto la speranza di poter un giorno giungere a baciare quella mano, come ora bacio questa borsa che fu da essa toccata. Sono quattr’anni, Penelon era a Trieste: Penelon, sig. conte, è quel bravo marinaro che avete veduto colla zappa alla mano, e che da secondo-mastro è diventato giardiniere, Penelon era dunque a Trieste, vide sullo scalo un inglese che stava per imbarcarsi sopra un yacht, e riconobbe in lui quello che venne da mio padre il 5 giugno 1829, e che mi scrisse [269] questo biglietto il 5 settembre. Era bene lo stesso, a quanto egli assicura; ma non osò di parlargli.
 
— Un inglese! fece Monte-Cristo astratto, e che si trovava impacciato ad ogni sguardo di Giulia.
 
— Sì, riprese Massimiliano, un inglese che si presentò da noi come mandatario della casa Thomson e French di Roma. Ecco perchè allorquando l’altro giorno diceste da Morcerf che Thomson e French erano i vostri banchieri, mi avete veduto esultare. In nome del cielo, signore, quanto vi abbiamo detto accadde nel 1829; avete conosciuto questo inglese?
 
— Ma non mi avete detto pure che la casa Thomson e French ha costantemente negato di avervi reso questo servigio? — Sì.
 
— Allora, quest’inglese non potrebbe essere un uomo che riconoscente verso vostro padre di qualche buona azione che forse aveva anch’egli dimenticata, avesse preso questo pretesto per rendergli un servizio?
 
— Tutto è supponibile in simile congiuntura, anche un miracolo.
 
— Come si chiamava? domandò Monte-Cristo.
 
— Non ha lasciato altro nome, rispose Giulia guardando il conte con una profonda attenzione, che quello che ha firmato in calce a questo biglietto: Sindbad il marinaro.
 
— Evidentemente questo non è un nome ma un soprannome. Quindi, poichè Giulia lo guardava più attentamente ancora, e sembrava cogliere a volo qualche rassomiglianza alle note della sua voce. — Vediamo continuò egli, non è un uomo della mia persona, forse è un poco più grande, un poco più magro, imprigionato in un’alta cravatta, abbandonato in un abito stretto, e sempre con la matita alla mano. — Oh! ma dunque lo conoscete? gridò Giulia cogli occhi scintillanti di gioia. — No, disse Monte-Cristo. Ho conosciuto un lord Wilmore che spargeva in tal modo tratti di generosità. — Senza farsi conoscere? — Era un uomo bizzarro che non credeva alla riconoscenza. — Oh! mio Dio! gridò Giulia con un sublime accento e giungendo le mani, e a che cosa credeva dunque il disgraziato?
 
— Egli non vi credeva, almeno al tempo in cui l’ho conosciuto, disse Monte-Cristo, al quale questa voce dal fondo dell’anima aveva agitato fin l’ultima fibra, ma da quel tempo forse avrà avuto qualche prova che la riconoscenza esiste.
 
— E voi conoscete quest’uomo? chiese Emmanuele.
 
— Oh! se lo conoscete, gridò Giulia, dite, dite, potete guidarci a lui, mostrarcelo, dirci dov’è? Dite dunque, Massimiliano, dite dunque, Emmanuele, se lo ritrovassimo bisognerebbe bene che egli credesse alla memoria del cuore.
 
Monte-Cristo sentì due lagrime cadergli dagli occhi, fece ancora qualche passo nel salotto.
 
— In nome del cielo, signore, disse Massimiliano, se sapete qualche cosa di quest’uomo, diteci ciò che sapete.
 
— Ahimè! disse Monte-Cristo comprimendo l’emozione della sua voce, se il vostro benefattore, è lord Wilmore, temo che non lo ritroverete mai. Io l’ho lasciato due o tre anni fa a Palermo; ed egli partiva per paesi tanto favolosi, che dubito che non ritorni più.
 
— Ah! signore, siete crudele, gridò Giulia con spavento. E le lagrime discesero dagli occhi della giovine sposa.
 
— Signora, disse con gravità Monte-Cristo divorando collo sguardo le due perle liquide che scorrevano sulla guancia di Giulia, se lord Wilmore avesse veduto ciò che vedo io qui, egli amerebbe ancora la vita, perchè le lagrime che voi versate lo rappacificherebbero col genere umano. — E stese la mano a Giulia che gli presentò la sua, trascinata com’era dallo sguardo e dall’accento del conte.
 
— Ma questo lord Wilmore, diss’ella, riattaccandosi ad un’ultima speranza, aveva un paese, una famiglia, dei parenti, infine era conosciuto? e non potressimo?...
 
— Oh! non cercate niente, signora, disse il conte, non fabbricate dolci chimere sopra queste parole che io mi sono lasciato sfuggire. No, lord Wilmore probabilmente non è l’uomo che cercate, egli era mio amico, conosceva tutti i suoi segreti, e non mi ha raccontato mai niente di tutto ciò.
 
— Non vi ha mai detto niente di tutto ciò? gridò Giulia.
 
— Niente.
 
— Mai una parola che avesse potuto farvi supporre?
 
— Giammai. — Ciò non ostante lo avete nominato subito. — Ah! sapete... in simili casi, si suppone.
 
— Ah! sorella mia, sorella mia, disse Massimiliano venendo in soccorso al conte, il signore ha ragione. Ricordati ciò che ci diceva spesso il nostro buon padre: Non è un inglese che ci ha procurata questa fortuna.
 
[270]
Monte-Cristo rabbrividì: — Vostro padre diceva, sig. Morrel?... riprese vivamente il conte.
 
— Mio padre, signore, vedeva in quest’azione un miracolo. Mio padre credeva ad un benefattore uscito per noi dalla tomba. Oh! qual commovente superstizione, signore, era questa; e, mentre io stesso non vi credeva, era ben lontano dal voler distruggere questa credenza nel suo nobile cuore! Così, quante mai volte vi pensava egli, pronunciando a bassa voce un nome, un nome di un amico molto caro, un nome di un amico perduto! E quando fu vicino a morte, quando l’approssimarsi dell’eternità ebbe dato al suo spirito qualche cosa della chiaroveggenza della tomba, questo pensiero, che fino allora non era che un dubbio, divenne una convinzione: e le ultime parole che pronunziò morendo furono queste: «Massimiliano, egli era Edmondo Dantès!».
 
Il pallore del conte, che da qualche minuto andava crescendo, divenne spaventoso a queste parole. Tutto il sangue venne ad affluirgli al cuore, egli non poteva parlare, cavò l’orologio come se avesse dimenticata l’ora, prese il cappello, e fece alla signora Herbault un complimento momentaneo ed impacciato, e stringendo la mano ad Emmanuele e Massimiliano: — Signora, diss’egli: permettetemi di venire qualche volta a presentarvi i miei doveri. Io amo la vostra casa, e vi sono riconoscente della vostra accoglienza; è la prima volta da molt’anni che è passato il tempo senza accorgermene. — Ed uscì a passi precipitati.
 
— Che uomo singolare è questo conte, disse Emmanuele.
 
— Sì, disse Massimiliano, ma sono sicuro che ha un cuore eccellente, e certamente amante.
 
— Ed a me, disse Giulia, la sua voce ha toccato il cuore, e due o tre volte mi è sembrato che non fosse la prima volta che la sentiva.

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