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LII. — ROBERTO IL DIAVOLO.
日期:2021-06-29 15:36  点击:281
 La scusa dell’opera era tanto migliore ad addursi in quanto che in quella sera vi era solennità per l’accademia reale di musica. Lavasseur, dopo una lunga indisposizione, si riproduceva rappresentando la parte di Bertram, e come accade sempre, l’opera del maestro di moda aveva chiamata la più brillante società di Parigi. Morcerf, come la maggior parte dei giovani ricchi, aveva il suo posto fisso in orchestra, più dieci palchi di persone di sua conoscenza cui poteva dimandare un posto, senza calcolare quello al quale aveva diritto nel palco dei lions. Château-Renaud aveva il posto vicino al suo. Beauchamp, nella qualità di giornalista, aveva posto da per tutto. Quella sera Luciano Debray riteneva a sua disposizione il palco del ministro, e lo aveva offerto al conte di Morcerf, il quale dietro il rifiuto di Mercedès, lo aveva inviato a Danglars, facendogli dire che quella sera avrebbe probabilmente fatto una visita alla baronessa ed a sua figlia, se queste signore avessero accettato il palco che lor proponeva. Queste dame eransi ben guardate dal rifiutare. Nessuno è più ingordo di un palco che non costa niente, quanto un milionario. In quanto a Danglars aveva dichiarato che i suoi principi politici, e la qualità di deputato dell’opposizione, non gli permettevano di andare nel palco del ministro.
 
In conseguenza la baronessa aveva scritto a Luciano di venirla a prendere, dappoichè non poteva andare all’Opera sola con Eugenia. Infatto se le due dame vi fossero andate sole, sarebbesi ciò ritrovato di cattivo gusto; mentre che nulla v’era a ridire, se madamigella Danglars, andava all’Opera con sua madre... bisogna pure prendere il mondo come è fatto. Il sipario si alzò, come d’ordinario, col teatro quasi vuoto. Questa è ancora una delle abitudini della società elegante parigina, che va allo spettacolo quando è già cominciato; e ne risulta che, per gli spettatori già arrivati, il primo atto passa senza esser guardato ed ascoltato, ma nel vedere gli spettatori che giungono a non ascoltare altro che il rumore delle porte e quello delle conversazioni.
 
— Guarda! disse d’improvviso Alberto, vedendo aprirsi un palco laterale del prim’ordine, la contessa G***.
 
— E chi è questa contessa G***? domandò Château-Renaud.
 
— Oh! per bacco, barone, ecco una [283] domanda che non vi perdono; chiedete chi è la contessa G***?
 
— Oh! è vero, disse Château-Renaud, non è quella graziosa veneziana?
 
— Precisamente. — In questo momento la contessa G*** s’accorse d’Alberto, e scambiò con lui un saluto accompagnato da un sorriso. — La conoscete, disse Château-Renaud?
 
— Sì, fece Alberto, le fui presentato a Roma da Franz.
 
— Vorreste rendermi a Parigi lo stesso favore?
 
— Ben volentieri.
 
— Zitti, gridò il pubblico. — I due giovani continuarono la loro conversazione, senza sembrare di menomamente inquietarsi del desiderio che manifestava la platea di sentire la musica.
 
— Ella era alle corse del Campo di Marte, disse Château-Renaud.
 
— Di fatto oggi vi erano le corse, eravate impegnato?
 
— Oh! per una miseria, 50 luigi. — Chi ha vinto?
 
— Nautilus, io scommetteva per lui.
 
— Ma vi erano tre corse?
 
— Sì, vi era il premio del Jockey-Club, una coppa d’oro. Anzi è accaduto una cosa bizzarra. — E quale?
 
— Zitti dunque, gridò il pubblico.
 
— Hanno vinto questa corsa un cavallo ed un jockey del tutto sconosciuti. — Come?
 
— Oh! mio Dio, sì; nessuno aveva fatta attenzione ad un cavallo inscritto sotto il nome di Vampa, e ad un jockey iscritto sotto il nome Job, quando d’un subito si è veduto inoltrarsi un ammirabile sauro, ed un jockey grosso come un pugno; sono stati costretti di caricarlo di 20 libbre di piombo in saccoccia, cosa che non gli ha impedito di giungere alla meta tre lunghezze di cavallo prima d’Ariel e Barbaro che correvano con lui.
 
— E non si è saputo a chi apparteneva il cavallo ed il jockey? — No.
 
— Diceste che il cavallo era iscritto sotto il nome di...
 
— Vampa.
 
— Ne so più di voi, so a chi apparteneva il cavallo.
 
— Silenzio dunque, gridò per la terza volta la platea.
 
Questa volta gli urli erano sì grandi, che i due giovani si accorsero finalmente ch’erano ad essi indirizzati dal pubblico. Si volsero un momento, cercando in questa folla chi si rendesse garante di ciò che essi consideravano come un’insolenza; ma nessuno reiterò l’invito, ed essi si volsero verso la scena.
 
In questo mentre si apriva il palco del ministero, e la sig.ª Danglars con la figlia e Luciano Debray prendevano i loro posti. — Ah! ah! disse Château-Renaud, ecco delle persone di vostra conoscenza, visconte; che diavolo guardate a dritta? siete cercato da quest’altra parte.
 
Alberto si volse ed i suoi occhi s’incontrarono in quelli della baronessa Danglars, che gli fece un piccolo saluto col ventaglio. In quanto a madamigella Eugenia, fu molto se i suoi occhi si abbassarono fino all’orchestra. — In verità, mio caro, disse Château-Renaud, non capisco, prescindendo dalla cattiva alleanza che non credo sia ciò che vi preoccupi molto, quel che potete avere contro madamigella Danglars; e pure in verità è una bellissima giovane.
 
— Bellissima certamente, disse Alberto, ma vi confesso che in fatto di bellezza, amerei meglio qualche cosa di più dolce, di più soave, infine di più femminino.
 
— Ecco i giovani che non si contentano mai, disse Château-Renaud, che nella sua qualità di uomo di 30 anni assumeva un’aria paterna. E come, mio caro, vi si ritrova una fidanzata costruita sul modello di Diana cacciatrice, e non siete contento!
 
— Ebbene! precisamente l’avrei desiderata piuttosto del genere della Venere di Milo, o di Capua. Questa Diana cacciatrice, sempre in mezzo alle sue ninfe, mi spaventa un poco; ho paura che mi tratti come Atteone. — Di fatto un colpo d’occhio che si fosse dato sulla giovane, poteva quasi spiegare il sentimento che aveva esposto Morcerf. Eugenia Danglars era bella, ma, come lo aveva detto Alberto, di una bellezza un poco sostenuta, i capelli erano di un bel nero, ma nel loro ondeggiamento naturale si rinveniva qualche cosa di restio alla mano che voleva impor loro la sua volontà; gli occhi, neri come i capelli, sottoposti a magnifiche sopracciglia, che non avevano che un difetto, quello cioè di aggrottarsi qualche volta, erano particolarmente notevoli per una espressione di fermezza ch’erasi meravigliati di ritrovare in una donna; il naso aveva quelle proporzioni esatte che un bravo scultore darebbe alla statua di Giunone, soltanto la bocca era un po’ grande, ma guarnita di bei denti che facevano risaltare le labbra il cui carminio troppo vivo risaltava sul pallore del viso; finalmente [284] un nero neo posto all’angolo della bocca e più largo di quello che ordinariamente sono questi capricci della natura, compiva di dare a questa fisonomia un’indole risoluta, ciò che spaventava alcun poco Morcerf. Del rimanente tutto il restante della persona di Eugenia corrispondeva a questa testa che abbiamo procurato di descrivere. Essa era, come l’aveva detto Château-Renaud, la Diana cacciatrice, ma con qualche cosa di più fermo e di più maschio nella sua bellezza. In quanto all’educazione che aveva ricevuta, se vi era un rimprovero a farsi era che sembrava in alcuni punti, come nella sua fisonomia più propria dell’altro sesso. Difatto parlava due o tre lingue, disegnava facilmente, faceva versi e componeva musica, era soprattutto appassionata per quest’ultima arte, che studiava con una delle amiche del conservatorio, giovanetta senza beni di fortuna, ma che a quanto veniva assicurato aveva tutte le disposizioni possibili per divenire una eccellente cantante; si diceva che un gran compositore portava a questa giovanetta un interessamento quasi paterno, e la faceva studiare nella speranza che un giorno avrebbe fatto una gran fortuna con la sua voce. La possibilità che Luisa d’Armilly (era il nome della giovane virtuosa) potesse un giorno andare sul teatro, faceva sì che madamigella Danglars, quantunque la ricevesse in casa, non si facesse vedere con essa in pubblico. Del resto senz’avere nella casa del banchiere il posto indipendente di un’amica, Luisa godeva di una posizione superiore a quella delle istitutrici ordinarie.
 
Qualche secondo dopo l’ingresso della sig.ª Danglars nel palco, era calato il sipario, ed in grazia di quella facoltà data dalla lunghezza degl’intermezzi fra un atto e l’altro, viene lasciato tutto il comodo di andare a passeggiare nella scala o di fare delle visite per una mezz’ora; i posti dell’orchestra si erano quasi del tutto vuotati.
 
Morcerf e Château-Renaud erano usciti pei primi. Per un momento la sig.ª Danglars credette che questa sollecitudine di Alberto avesse per iscopo di farle i suoi complimenti, e si era inclinata all’orecchio della figlia per annunziarle questa visita; ma colei erasi contentata di scuotere la testa, sorridendo, e nello stesso tempo, come per provare quanto era fondata la negativa d’Eugenia, Morcerf comparve nel palco di fianco del prim’ordine: era quello della contessa G***.
 
— Ah! eccovi qui, signor viaggiatore, disse questa stendendogli la mano con tutta la cordialità di un’antica conoscenza, è un bel tratto di amabilità per voi di avermi riconosciuta, e soprattutto d’avermi accordata la preferenza della prima visita.
 
— Credetemi, signora, che se avessi conosciuto prima il vostro arrivo in Parigi, ed avessi saputo il vostro indirizzo, non avrei aspettato così tardi. Ma vogliate permettermi di presentarvi il sig. barone de Château-Renaud, mio amico, uno dei pochi galantuomini che rimangano ancora alla Francia, e dal quale ho saputo che voi eravate alle corse del Campo di Marte. Château-Renaud salutò.
 
— Ah! voi eravate alle corse, signore, disse con vivacità la contessa. — Sì signora. — Ebbene, riprese la contessa G***, sapreste dirmi di chi era il cavallo che ha vinto il premio del Jockey-Club? — No signora, e poco fa faceva la stessa interrogazione ad Alberto. — Vi avete molta premura sig.ª contessa, domandò Alberto. — A che?
 
— A conoscere il padrone del cavallo. — Infinitamente... immaginatevi... ma sapreste, visconte, chi egli sia?
 
— Signora, sembra che voleste contare una storia; avete detto immaginatevi...
 
— Ebbene! immaginatevi che quel grazioso cavallo sauro e quel bello e piccolo Jockey dalla casacca color di rosa, mi avevano a prima vista inspirata una così vera simpatia che io faceva voti per l’uno e per l’altro, come precisamente se avessi scommesso per loro la metà dei miei beni; per cui quando essi giunsero alla meta, sorpassando gli altri corridori di tre lunghezze di cavallo, ne fui così contenta, che mi misi a battere le mani come una pazza. Figuratevi il mio stupore allorchè rientrando in casa, ho incontrato per le scale il piccolo Jockey color di rosa; credetti che il vincitore della corsa abitasse per caso nella stessa casa, ove sono, quando aprendo la porta del mio salotto, la prima cosa che vidi, fu la coppa d’oro che formava il premio guadagnato dal cavallo e Jockey sconosciuti. Nella coppa v’era un pezzetto di carta sul quale erano scritte queste parole: «Alla contessa G***, Lord Ruthwen.»
 
— È precisamente lui, disse Morcerf.
 
— Come è precisamente lui, chi volete dire?
 
— Voglio dire che è lord Ruthwen in persona.
 
— Quale lord Ruthwen? — Il mostro, il [285] vampiro, quello del teatro Argentina. — Davvero, gridò la contessa egli è dunque qui? — Precisamente. — E voi lo vedete, lo ricevete, andate da lui. — Egli è mio amico intimo, ed anche il sig. di Château-Renaud ha l’onore di conoscerlo.
 
— Ma che cosa può farvi credere che sia il vincitore?
 
— Il suo cavallo inscritto sotto il nome di Vampa.
 
— Ebbene avanti. — Non vi ricordate il nome di quel famoso bandito che mi fece prigioniero? — Ah! è vero.
 
— E dalle mani del quale, il conte mi cavò miracolosamente? — È un fatto.
 
— Egli si chiamava Vampa, vedete bene che è lui.
 
— Ma perchè ha inviata questa coppa a me?
 
— Primieramente sig.ª contessa, perchè gli aveva parlato molto di voi, come potete ben crederlo, secondo perchè sarà rimasto soddisfatto di aver qui ritrovato una compatriotta, e contento dell’interessamento che questa compatriotta prendeva per lui.
 
— Spero bene che non gli avrete mai raccontate le pazzie che si sono dette sul conto suo? — In fede mia non lo giurerei, e questo modo d’offrirvi la coppa sotto il nome di lord Ruthwen.... — Ma è orribile, l’avrà con me mortalmente! — Il suo procedere è quello di un nemico?
 
— No, lo confesso. — Ebbene! — Dunque egli è a Parigi?
 
— Sì. — E che sensazione ha fatta? — Se ne è parlato otto giorni, disse Alberto, poi è succeduta l’incoronazione della Regina d’Inghilterra, ed il rubamento dei diamanti di madamigella Mars, e non si è più parlato che di questo.
 
— Mio caro, disse Château-Renaud, si vede bene che il conte è vostro amico, e lo trattate come tale. Non credete sig.ª contessa a ciò che vi dice Alberto, in tutta Parigi non si fa altro discorso che del conte di Monte-Cristo. Egli ha cominciato a regalare alla sig.ª Danglars un paio di cavalli che gli sono costati 30 mila fr., poi ha salvato la vita alla sig.ª de Villefort, poi ha guadagnato, a quanto sembra, il premio della corsa del Jockey-Club. Io sostengo al contrario, qualunque sia l’opinione di Morcerf, che in questo momento tutti si occupano ancora del conte, e che non si occuperanno per un buon mese ancora che di lui, molto più se continua a fare delle eccentricità, le quali del resto sembrano la sua buona maniera di vivere.
 
— È possibile, disse Morcerf, ma frattanto chi ha dunque ripreso il palco dallo ambasciatore di Russia?
 
— Qual è? disse la contessa. — Quello fra l’intercolonio del prim’ordine; mi sembra rimesso a nuovo del tutto.
 
— È vero, disse Château-Renaud; non v’era alcuno durante il primo atto? — Dove? — In quel palco.
 
— No, riprese la contessa, non vi ho veduto alcuno; così, continuò, ritornando alla prima conversazione, credete che il vostro conte di Monte-Cristo, sia stato quello che ha guadagnato il premio? — Ne son sicuro.
 
— E che mi ha inviato la coppa? — Senz’alcun dubbio.
 
— Ma io non lo conosco, ed ho volontà di rimandargliela.
 
— Oh! non lo fate, ve ne manderebbe un’altra tagliata in un qualche zaffiro, o scavata in un qualche rubino. Questi sono i suoi modi di operare; che volete, bisogna prenderlo com’è. — In questo mentre s’intesero i campanelli che avvisavano che il secondo atto stava per cominciare. Alberto si alzò per andare a prendere il suo posto.
 
— Vi rivedrò? domandò la contessa.
 
— Nell’intermezzo degli atti se lo permettete, verrò a sentire se posso esservi utile in qualche cosa a Parigi.
 
— Signori, disse la contessa, il sabbato la sera sto in casa per ricevere gli amici, strada di Rivoli n. 22. Entrambi siete avvisati. — I due giovani salutarono ed uscirono.
 
Rientrando in platea videro tutti in piedi con gli occhi fissi sopra un sol punto del teatro, i loro sguardi seguirono quelli della direzione generale, e si fermarono sul palco che prima apparteneva all’ambasciatore di Russia. Vi era entrato un uomo vestito di nero di 35 a 40 anni, con una donna che portava un costume orientale. La donna era della più gran bellezza, ed il vestito di tale ricchezza che tutti gli occhi, come si disse, si erano rivolti su lei.
 
— Ah! disse Alberto, è Monte-Cristo e la sua greca.
 
In fatti erano il conte ed Haydée. In meno di un momento la giovane greca era l’oggetto dell’attenzione non solo della platea, ma di tutto il teatro; le donne sporgevansi dai palchi per vedere risplendere al chiarore dei lumi quella cascata di diamanti. Il secondo atto passò in mezzo a quel sordo rumore che nelle riunioi ammassate indica un grande avvenimento. Nessuno pensò a gridare silenzio. Questa [286] donna così bella, così giovane, così raggiante, era il più bello spettacolo che si potesse vedere. Questa volta un segno della sig.ª Danglars indicò chiaramente ad Alberto che la baronessa desiderava avere da lui visita, finito l’atto.
 
Morcerf era di troppo buon gusto per non farsi aspettare, quando gli veniva chiaramente indicato ch’era aspettato. L’atto finì, ed ei si affrettò di salire al palco sul proscenio.
 
Salutò le due dame e stese la mano a Debray. La baronessa lo accolse con un grazioso sorriso ed Eugenia colla sua freddezza abituale. — In fede mia, mio caro, disse Debray, voi vedete un uomo al suo termine, e che vi chiama in aiuto per sollevarlo. Ecco qui, la signora che mi ammazza di interrogazioni sul conte, e che vuole ch’io sappia di dov’è, di dove viene, ove va: in fede mia non sono Cagliostro, e per togliermi d’impaccio, ho detto: «Domandate tutto ciò a Morcerf, egli conosce sulla punta delle dita il suo Monte-Cristo»; allora vi hanno fatto segno.
 
— Non è incredibile, disse la baronessa, che quando si ha un mezzo milione di fondi segreti a sua disposizione, non si sia meglio istruiti di lui?
 
— Signora, disse Luciano, vi prego di credere che se avessi mezzo milione a mia disposizione, lo impiegherei in tutt’altro, che nel prendere informazioni su Monte-Cristo, che ai miei occhi non ha altro merito, se non quello di essere due volte ricco più di un nababbo: ma ho ceduta la parola a Morcerf; accomodatevi con lui, in ciò non ho più nulla a fare.
 
— Un nababbo non mi avrebbe al certo mandato a regalare un paio di cavalli di 30 mila fr. con quattro diamanti da cinque mila fr. l’uno.
 
— Oh! disse ridendo Morcerf, i diamanti sono la sua manìa. Io credo che, a guisa di Potemkin, ne abbia sempre in saccoccia, e che ne semini lungo la strada, come il piccolo Poucet faceva dei sassolini.
 
— Ne avrà trovata qualche miniera, disse la signora; sapete che ha un credito illimitato sul barone?
 
— Nol sapeva, ma dev’esser così, rispose Alberto.
 
— E che ha avvisato il sig. Danglars che conta di stare a Parigi un anno e di spendervi sei milioni?
 
— Questi è lo schach di Persia che viaggia in incognito.
 
— E quella donna, sig. Luciano, disse Eugenia, avete osservato quanto è bella?
 
— In verità madamigella, non conosco che voi per far giustizia alle persone del vostro sesso. — Luciano si accostò all’occhio l’occhialino: — Graziosa! diss’egli.
 
— Ed il sig. de Morcerf sa chi sia quella signora?
 
— Madamigella, disse Alberto, rispondo a questa quasi diretta interpellazione; ne so presso a poco, come di tutto ciò che riguarda il personaggio misterioso di cui si parla. Quella signora è una greca.
 
— Ciò si conosce facilmente dal vestito, e non mi dite con ciò nulla di più di quello che a quest’ora sa tutto il teatro.
 
— Sono mortificato, disse Morcerf, di essere un cicerone tanto ignorante; ma debbo confessarvi che le mie cognizioni si limitano a ciò solo. So di più ch’ella è amante di musica, perchè un giorno che feci colazione dal conte, intesi il suono di una guzla che certamente veniva da lei.
 
— Il vostro conte riceve? domandò la sig.ª Danglars.
 
— In un modo assai splendido, ve lo giuro.
 
— Bisogna che io obblighi il sig. Danglars ad offrirgli un pranzo, un ballo, affinchè ce lo restituisca.
 
— Come! andreste da lui, disse Debray ridendo.
 
— E perchè no? con mio marito!
 
— Ma questo misterioso conte è celibe.
 
— Vedete che non è vero, disse ridendo la baronessa mostrando la bella greca.
 
— Quella donna è una schiava, a quanto ci ha detto: ve ne ricordate, alla vostra colazione, Morcerf.
 
— Converrete mio caro Luciano, disse la baronessa, ch’ella ha piuttosto l’aspetto di qualche principessa.
 
— Delle mille e una notte.
 
— Non dico delle mille e una notte; ma che cosa forma la principessa, caro mio? i diamanti; ed essa ne è ricoperta.
 
— Ella ne ha anche troppi, disse Eugenia; sarebbe ancor più bella senza; perchè il collo ed i polsi, che sono di forme bellissime, avrebbero maggior spicco.
 
— Oh! l’artista, sentite, disse la sig.ª Danglars, come è entusiasta.
 
— Amo tutto ciò che è bello, disse Eugenia.
 
— Ma che ne dite del conte, mi sembra che non ci sia male.
 
— Il conte, disse Eugenia, come se non avesse ancora pensato a guardarlo; il conte è molto pallido.
 
— Di questo pallore precisamente, disse Morcerf, noi studiamo conoscere la causa.
 
— La contessa G*** pretende, voi lo sapete, che sia un vampiro.
 
— È dunque di ritorno la contessa? domandò la baronessa.
 
[287]
— Nel palco di fianco, diss’Eugenia, quasi in faccia al nostro, quella donna con quei bei capelli biondi, è lei.
 
— Ah! disse la sig.ª Danglars. Sapete ciò che dovreste fare Morcerf?
 
— Ordinate signora.
 
— Dovreste andare a fare una visita al vostro conte di Monte-Cristo e condurcelo.
 
— Perchè farne? diss’Eugenia.
 
— Per parlare con lui, non sei tu curiosa di vederlo?
 
— Niente affatto. — Strana fanciulla, mormorò la baronessa. — Oh! disse Morcerf, probabilmente verrà da sè. Osservate, vi ha veduta, signora, e vi saluta. — La baronessa rese il saluto al conte accompagnandolo con un grazioso sorriso. — Andiamo, disse Morcerf, io mi sacrifico, vi lascio per andare a vedere se ci è modo di parlargli.
 
— Andate nel palco, la cosa è semplicissima.
 
— Ma io non sono stato presentato. — A chi?
 
— Alla bella greca. — Ma diceste essere una schiava?
 
— Sì, ma voi pretendete che sia una principessa... Spero che quando mi vedrà uscire, uscirà anch’egli.
 
— È possibile, andate. — Vado. — Morcerf salutò ed uscì. Effettivamente al momento che passava davanti al palco del conte, la porta si aprì: il conte disse alcune parole in arabo ad Alì, che stava nel corridore, e prese il braccio di Morcerf: Alì chiuse la porta, e si tenne in piedi davanti ad essa; nel corridoio v’era una riunioe di gente avanti al moro. — In verità, disse Monte-Cristo, il vostro Parigi è una strana città, ed i vostri Parigini una popolazione singolare. Si direbbe che questa è la prima volta che vedano un moro; guardate come si affollano intorno a questo povero Alì, che non sa che voglia dir questo. Vi dico però che un Parigino può andare a Tunisi, a Costantinopoli, a Bagdad, al Cairo e non gli faranno cerchio intorno.
 
— Ciò è perchè i vostri orientali sono persone sensate, e non guardano, che ciò che merita la pena d’essere guardato: ma credetemi, Alì non gode di questa popolarità se non perchè vi appartiene, ed in questo momento voi siete l’uomo di moda.
 
— Davvero! E chi mi ha procurato questo favore?
 
— Per bacco voi stesso, voi regalate delle pariglie da migliaia di luigi, salvate la vita alle mogli dei procuratori del re; fate correre sotto il nome del maggiore Black dei cavalli di puro sangue, e dei jockey grossi come formiche; finalmente vincete delle coppe d’oro, e le mandate in regalo a delle belle donne.
 
— E chi diavolo vi ha raccontato tutte queste fole?
 
— Per bacco! la prima la sig.ª Danglars, che muore dalla volontà di vedervi nel suo palco, o piuttosto di farvici vedere, la seconda il giornale di Beauchamp; e la terza la mia propria immaginazione. Perchè nominaste il vostro cavallo Vampa se volevate conservare l’incognito?
 
— Ah! è vero! disse il conte, fu un’imprudenza. Ma ditemi dunque, il conte di Morcerf non viene qualche volta all’Opera? L’ho cercato dappertutto cogli occhi, ma non l’ho scorto da nessuna parte.
 
— Egli verrà questa sera. — E dove? — Nel palco della baronessa, credo. — Quella graziosa giovane che è con lei è sua figlia? — Sì. — Ve ne faccio i miei rallegramenti.
 
Morcerf sorrise: — Parleremo di ciò in altro momento, e con particolarità, disse egli. Che ne dite della musica?
 
— Di quale musica? — Ma... di quella che avete intesa.
 
— Dico che è bellissima per musica composta da un compositore umano, e cantata da uccelli bipedi, e senza penne come diceva Diogene. Quando voglio sentire della musica quale non è stata mai sentita da orecchio umano dormo.
 
— Ebbene! qui siete situato a meraviglia; dormite, dormite, l’Opera non è stata inventata per altro scopo.
 
— No, in verità la vostra orchestra fa troppo rumore, perchè io possa dormire del sonno di cui vi parlo, mi abbisogna calma, silenzio, ed una certa preparazione...
 
— Ah! il famoso hatchis.
 
— Precisamente, visconte, quando vorrete sentire della musica venite a cena da me.
 
— Ma ne ho già inteso venendovi a fare colazione, disse Morcerf.
 
— A Roma? — Sì. — Ah! sarà stata la guzla di Haydée. Sì la povera esiliata si diverte qualche volta a suonare delle arie del suo paese. — Morcerf non insistè più; dalla sua parte il conte si tacque. In questo momento suonarono i campanelli. — Voi mi scuserete? disse il conte riprendendo la via del suo palco. — Come dunque! — Fate mille complimenti alla Contessa G*** per parte del suo vampiro.
 
— Ed alla baronessa?
 
[288]
— Le direte che avrò l’onore, se mi permette, di andarle a protestare i miei omaggi nella serata.
 
Il terz’atto cominciò. Durante lo stesso il conte de Morcerf venne come aveva promesso a raggiungere la sig.ª Danglars.
 
Il conte non era uno di quegli uomini che fanno rivoluzione in un teatro; per cui nessuno s’accorse del suo arrivo, meno quelli nel palco dei quali venne a prendere posto. Ciò non ostante Monte-Cristo lo vide, ed un leggero sorriso gli sfiorò le labbra. In quanto ad Haydée nulla vide finchè il sipario rimase alzato; come tutte le nature primitive ella adorava tutto ciò che parla all’orecchio ed agli occhi.
 
Il terzo atto passò come d’ordinario. Le madamigelle Noblet, Julia, e Leroux eseguirono i loro soliti intermezzi; il principe di Granata fu sfidato da Roberto-Mario; finalmente questo maestoso re che voi sapete, fece il giro della scena, per mostrare il suo manto di velluto, tenendo sua figlia per mano, poi calò il sipario, e la platea sgorgò nella sala e nei corridori. Il conte uscì dal palco ed un momento dopo fu veduto in quello della baronessa Danglars, la quale non potè contenere un leggero grido di sorpresa misto a gioia:
 
— Ah! venite dunque, sig. conte, gridò ella, perchè in verità ho sommo desiderio di unire i miei ringraziamenti verbali a quelli che vi ho già scritti.
 
— Oh! signora, vi ricordate ancora di questa miseria, io l’aveva già dimenticata.
 
— Sì!, ma ciò che non si dimentica, sig. conte si è che il giorno seguente salvaste la mia buon’amica, la sig.ª de Villefort dal pericolo che le facevano correre i miei cavalli.
 
— Questa volta pure io non merito i vostri ringraziamenti. Alì, il mio moro ebbe la fortuna di rendere alla sig.ª de Villefort questo importante servigio.
 
— Ma fu pure Alì, domandò il conte di Morcerf, che salvò mio figlio dalle mani dei banditi romani?
 
— No, sig. conte, disse Monte-Cristo stringendo la mano che gli stendeva il generale, questa volta accetto i ringraziamenti, per conto mio, ma voi me li avete già fatti, li ho ricevuti, ed in verità sono felice di ritrovarvi tanto riconoscente. Fatemi dunque l’onore, vi prego, sig.ª baronessa, di presentarmi a madamigella vostra figlia.
 
— Oh! voi siete già presentato, almeno di nome, perchè sono due o tre giorni che non si parla che di voi; Eugenia, continuò la baronessa voltandosi verso sua figlia, il sig. conte di Monte-Cristo. — Il conte s’inchinò, madamigella Danglars fece un leggero movimento con la testa:
 
— Voi siete in palco con una bellissima signora, sig. conte, diss’Eugenia, è vostra figlia?
 
— No, madamigella, disse Monte-Cristo maravigliato da questa estrema ingenuità, o da questa sorprendente destrezza! è una povera greca di cui io sono il tutore.
 
— Come si chiama?... — Haydée, rispose Monte-Cristo.
 
— Una greca, mormorò il conte di Morcerf.
 
— Sì, conte, disse la sig.ª Danglars, e ditemi se alla corte d’Alì-Tebelen, ove avete servito gloriosamente, avete mai veduto un costume così ammirabile, quanto è quello che abbiamo innanzi agli occhi.
 
— Ah! disse Monte-Cristo, voi avete servito a Giannina?
 
— Sono stato generale istruttore delle soldatesche del Pascià, rispose Morcerf, e la mia piccola fortuna, non lo nascondo, mi viene dalla liberalità di questo illustre capo albanese.
 
— Guardate dunque, insistè la sig.ª Danglars.
 
— E dove? balbettò Morcerf. — Osservate, disse Monte-Cristo. — E circondando il conte col braccio, sporse con lui fuori del palco. In questo momento Haydée che cercava cogli occhi il conte scoperse la sua pallida testa vicino a quella di Morcerf che teneva abbracciato. Questa vista produsse sulla giovanetta l’effetto della testa di Medusa; fece un movimento colla testa in avanti, come per divorarli entrambi collo sguardo; poi quasi subito si gettò in addietro, mandando un debole grido, che fu però inteso dalle persone che le erano vicine, e da Alì che aperse subito la porta.
 
— Osservate! disse Eugenia, che accade alla vostra pupilla, sig. conte? si direbbe che si senta male.
 
— Sembra, disse il conte, ma non vi spaventate, madamigella Haydée è molto nervosa, per conseguenza molto sensibile agli odori; un profumo che le sia antipatico basta per farla svenire; ma, soggiunse il conte, cavando una boccettina di saccoccia, ho qui il rimedio. E dopo avere salutato la baronessa e la figlia, collo stesso e solo saluto strinse nuovamente la [289] mano a Morcerf e a Debray, ed uscì dal palco della sig.ª Danglars. Quando rientrò nel suo, Haydée era ancora molto pallida; appena gli strinse la mano, Monte-Cristo s’accorse essere fredda ad un tempo ed umida.
 
— E con chi dunque parlavi, signore? domandò Haydée.
 
— Col conte di Morcerf, rispose Monte-Cristo, che è stato al servizio del tuo illustre padre, e che confessa di dovergli la sua fortuna.
 
— Ah! miserabile, egli lo vendè ai Turchi; e questa fortuna fu il premio del suo tradimento. Tu dunque non sapevi questo, mio caro signore?
 
— Aveva sentito dire qualche parola su questo proposito in Epiro, disse Monte-Cristo, ma ne ignoro i particolari; vieni, figlia mia, tu me li racconterai, devono essere curiosi.
 
— Oh! sì vieni, vieni; mi sembra che morrei se dovessi stare più lungamente in faccia di quest’uomo.
 
Ed Haydée s’alzò prestamente, s’inviluppò nella sua burnous di cachemire bianco, orlata di perle e di corallo ed uscì al momento in cui si alzava il sipario pel quarto atto.
 
— Guardate se quest’uomo fa nulla di quel che fanno gli altri! disse la contessa G*** ad Alberto ch’era ritornato da lei, ascolta attentamente il terzo atto del Roberto, e se ne va al momento che sta per cominciare il quarto.

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11/26 20:15