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LIII. — ALTO E BASSO DEI FONDI.
日期:2021-06-29 15:36  点击:274
 Qualche giorno dopo questo incontro Alberto di Morcerf andò a far visita al conte di Monte-Cristo nella sua casa ai Campi-Elisi, che aveva già preso quell’aspetto di palazzo, che il conte mercè le sue immense ricchezze sapeva imprimere alle sue abitazioni anche più passaggiere. Egli veniva a rinnovargli i ringraziamenti della sig.ª Danglars che aveva già ricevuti in una lettera firmata baronessa Danglars, nata Erminia di Servieux. Alberto era accompagnato da Luciano Debray, il quale unì alle parole dell’amico qualche complimento, non al certo ufficiale, ma di cui il conte mercè il suo fino colpo d’occhio non poteva non sospettar la sorgente. Gli sembrò perfino che Luciano venisse a visitarlo mosso da un doppio sentimento di curiosità, di cui la metà emanasse dalla strada Chaussée-d’Antin; di fatto poteva supporre, senza timore di sbagliarsi, che la sig.ª Danglars non potendo coi suoi propri occhi ispezionare lo appartamento di un uomo che regalava cavalli da 30 mila fr. ed andava all’Opera con una greca che portava il valore di un milione in diamanti, aveva incaricato gli occhi per i quali era solita vedere, di darle su ciò qualche informazione; ma il conte non parve sospettare la minima correlazione fra la visita di Luciano e la curiosità della baronessa.
 
— Voi siete in rapporto quasi continuo col barone Danglars? domandò ad Alberto.
 
— Sì, sig. conte, sapete ciò che vi ho detto.
 
— Dunque resta sempre fermo?
 
— Oggi più che mai, disse Luciano, è affar concluso.
 
E giudicando senza dubbio che questa parola mista alla conversazione gli desse il diritto di restarne estraneo, si pose la lente legata in tartaruga all’occhio, e col pomo del bastoncino in bocca, fe’ il giro della camera esaminando e le armi ed i quadri.
 
— Ah! disse Monte-Cristo, ma a quanto mi diceste, non avrei creduto ad una così sollecita soluzione.
 
— Che volete? le cose camminano da sè; quando voi non pensate a loro, esse pensano a voi, e quando vi volgete, siete meravigliato del viaggio che hanno fatto. Mio padre ed il sig. Danglars hanno servito insieme in Ispagna, mio padre nell’esercito, Danglars nelle forniture. In questo modo mio padre, rovinato dalle rivoluzioni, e Danglars che non aveva mai avuto patrimonio, gettarono le prime fondamenta, mio padre della sua fortuna politico-militare che è bella, Danglars della sua politico-commerciale che è ammirabile.
 
— Sì, infatto, disse Monte-Cristo, credo che nella visita che gli ho fatta, il sig. Danglars mi abbia parlato di ciò, e continuò dando uno sguardo al lato dov’era Luciano che stava sfogliando un album, è bella madamigella Eugenia?... perchè io credo di ricordarmi ch’ella si chiami Eugenia.
 
— Molto bella, o piuttosto molto avvenente, disse Alberto, ma di una bellezza che non apprezzo; sono un indegno.
 
— Ne parlate già come se foste suo marito.
 
— Oh! fece Alberto, dando anch’egli uno sguardo a ciò che faceva Luciano.
 
— Sapete, disse Monte-Cristo abbassando la voce, che non mi sembrate molto entusiasmato per questo matrimonio?
 
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— Madamigella Danglars è troppo ricca per me, e ciò mi spaventa, disse Morcerf.
 
— Baie! disse Monte-Cristo, questa poi è una bella ragione? E non siete ricco voi pure?
 
— Mio padre ha qualche cosa... circa 50 mila lire di rendita, e maritandomi me ne cederà forse 10 o 12.
 
— La cosa è alquanto modesta, particolarmente a Parigi; ma in questo mondo il tutto non sta nelle ricchezze, e non è piccola cosa l’avere un nome ed un’alta posizione in società. Il vostro nome è celebre, la vostra posizione magnifica, e poi il conte di Morcerf è un soldato, ed è cosa ricercata la integerrimità di Baiardo, e la povertà di Duguesclin collegate insieme, il disinteresse è il più bel raggio di sole al quale possa balenare una nobile spada. Al contrario trovo questo matrimonio convenientissimo, voi nobiliterete la sig.ª Danglars, ella vi arricchirà!
 
Alberto scosse la testa e rimase pensieroso.
 
— Vi sono ancora altre cose, diss’egli.
 
— Vi confesso, che non giungo a comprendere tanta ripugnanza per una giovinetta ricca e bella.
 
— Oh! mio Dio! questa ripugnanza, se pur vi è, non viene tutta per parte mia.
 
— Ma da qual parte dunque? perchè mi diceste che vostro padre desiderava questo matrimonio.
 
— Per parte di mia madre, che ha un occhio prudente e sicuro. Ebbene ella non sorride a quest’unioe, ha una certa non so quale prevenzione contro i Danglars.
 
— Oh! disse il conte con un tuono di voce un po’ caricato, ciò si capisce; la sig.ª contessa di Morcerf che è la stessa distinzione, aristocrazia, e delicatezza personificata, esita alquanto a toccare una mano ordinaria, callosa e brutale.
 
— Non so se di fatto sia così, disse Alberto, ma quel che so si è, che mi sembra che questo matrimonio, se si effettua, la renderà infelice. Vi doveva già essere un congresso di famiglia sei settimane or sono per parlare di affari, ma sono stato affetto talmente forte dall’emicrania.
 
— Vera! disse il conte sorridendo.
 
— Oh! sì, vera; la paura senza fallo... e la riunioe fu aggiornata a due mesi. Non v’è nulla che solleciti, come capite, non ho ancora 21 anno, ed Eugenia non ne ha che 17, ma i due mesi compiono nella settimana ventura. Bisognerà sottoporvisi. Non potete immaginare, mio caro conte, come io sia impacciato. Ah! quanto siete felice voi che siete libero!
 
— Ebbene! restate libero voi pure; vi domando un poco chi ve lo impedisce?
 
— Oh! questo sarebbe un troppo crudele disinganno per mio padre, se non isposassi madamigella Danglars.
 
— Sposatela dunque, disse il conte con una particolare stretta di spalle.
 
— Sì, disse Morcerf, ma questo per mia madre non sarà un disinganno ma un dolore.
 
— Ed allora non la sposate, disse il conte.
 
— Vedrò, proverò, mi consiglierete, n’è vero? se vi è possibile, mi torrete da quest’impaccio. Oh! per non procurare un dispiacere alla mia ottima madre credo che mi disgusterei anche il padre.
 
Monte-Cristo si voltò, egli era commosso:
 
— Che! diss’egli a Debray ch’era seduto in una profonda seggiola in un angolo del salotto, tenendo con una mano il lapis, coll’altra un portafogli, e che fate dunque là? fate uno schizzo nel genere di Poussin?
 
— Io, rispose tranquillamente, sì davvero uno schizzo! amo molto la pittura per questo! Ma questa volta faccio all’opposto, scrivo dei numeri. — Dei numeri!
 
— Sì, calcolo, e ciò riguarda voi indirettamente, visconte, calcolo ciò che la casa Danglars ha dovuto guadagnare sull’ultima alzata dei fondi di Haïti: da 206 i fondi sono saliti fino a 409 in tre giorni ed il prudente banchiere ne aveva acquistati molti a 206. Deve averci guadagnato 300 mila lire.
 
— Non è il suo più bel colpo, disse Morcerf; non ha guadagnato un milione in quest’anno coi boni di Spagna?
 
— Ascoltate, mio caro, disse Luciano, qui vi è il sig. conte di Monte-Cristo che vi dirà come dicono gl’italiani, Denaro e santità, Metà della metà — ed è ancora molto: per tal modo quando mi si raccontano simili storie, mi stringo nelle spalle.
 
— Ma voi parlate d’Haïti? disse Monte-Cristo.
 
— Oh! Haïti è un’altra cosa, Haïti è il giuoco dell’écarté pel traffico usurario dei biglietti del commercio francese, si può amare la rollina, prediligere il Whist, affollarsi al boston, ma poi ognuno si stancherà sempre di tutti questi giuochi e si tornerà all’écarté che è un capo d’opera. Così il sig. Danglars ieri ha venduto a 405 e si è intascato 300 mila fr. [291] Se avesse aspettato fin oggi i fondi ricadevano a 205 ed invece di guadagnare 300 mila fr. ne avrebbe perduto 20 o 25 mila.
 
— E per qual motivo i fondi sonosi riabbassati da 409 a 205? vi chiedo scusa, ma sono molto addietro nella conoscenza di quest’intrighi di borsa.
 
— Perchè, rispose ridendo Alberto, le notizie si succedono, ma non si rassomigliano.
 
— Ah! diavolo, fece il conte, il sig. Danglars arrischia di guadagnare e di perdere 300 mila fr. in un giorno? Egli è dunque enormemente ricco. — Non è lui, gridò con vivacità Luciano, è la sig.ª Danglars. Ella è veramente intrepida!
 
— Ma voi, Luciano, che siete ragionevole e che conoscete la instabilità delle notizie, poichè ne siete alla sorgente, dovreste impedirlo, disse con un sorriso Morcerf. — Come potrò farlo io, se suo marito non ci riesce? domandò Luciano; voi conoscete l’indole della baronessa, nessuno ha influenza su lei, ed ella non fa che ciò che vuole.
 
— Oh! s’io fossi al vostro posto, disse Alberto.
 
— Ebbene?
 
— La guarirei; questo sarebbe un buon servizio da rendersi al suo futuro genero. — E in qual modo?
 
— Oh! è ben facile; le darei una buona lezione.
 
— Una lezione?
 
— Sì, la vostra posiziono come segretario del ministro vi dà una grande autorità per le notizie, voi non aprite la bocca che i sensali di cambi non stenografizzino subito le vostre parole; fatele perdere un centinaio di migliaia di fr. per volta, e ciò la renderà prudente.
 
— Non capisco, balbettò Luciano.
 
— Eppure la cosa è chiara, rispose il giovine con un’ingenuità senz’affettazione, un bel mattino annunciatele qualche cosa d’inaudito, una notizia telegrafica che voi solo possiate sapere; ciò farà salire i fondi, ella giuocherà il suo colpo di borsa, e perderà certamente, quando la dimane Beauchamp scriverà nel suo giornale: «È falso che persone bene informate abbiano saputo la tale notizia, essa è del tutto inesatta.»
 
Luciano si mise a ridere sull’estremità delle labbra. Monte-Cristo sebbene apparentemente indifferente non aveva perduto una parola di questo discorso, ed il suo sguardo penetrante aveva perfino preteso di scoprire un segreto nell’impaccio del segretario intimo; da quest’impaccio, ch’era pienamente sfuggito ad Alberto, risultò che la visita fu abbreviata da Luciano, poichè non si sentiva più a suo agio. Il conte accompagnandolo alla porta gli disse alcune parole a voce bassa, alle quali rispose: — Ben volentieri, accetto.
 
Il conte ritornò dopo al giovine Morcerf.
 
— Non credete voi, riflettendovi bene, di avere avuto torto di parlar così di vostra suocera in presenza di Debray?
 
— Conte, disse Morcerf, ve ne prego, non date alla baronessa questo nome prima del tempo.
 
— Da vero adunque, e senz’esagerazione, la contessa è contraria a tal punto a questo matrimonio?
 
— A tal punto che viene raramente dalla mia famiglia, e mia madre, credo non sia stata più di una o due volte in sua vita a far visita alla sig.ª Danglars.
 
— Allora, disse il conte, eccomi incoraggiato a parlarvi apertamente. Il sig. Danglars è il mio banchiere, il sig. de Villefort mi ha ricolmato di gentilezze in ringraziamento della fortunata combinazione che mi ha messo al caso di potergli rendere un servizio. Indovino sotto tutto ciò un buon numero di pranzi e di festini. Ora per non sembrare d’intracciar tutto a bella posta, ed anche per prendere l’iniziativa se così vi piace, ho ideato di riunire nel mio casino di campagna d’Auteuil il sig. e la sig.ª Danglars, il sig. e la sig.ª di Villefort. Se v’invito a questo pranzo unitamente al conte ed alla contessa di Morcerf, non avrebbe questo l’apparenza di un convegno matrimoniale, o almeno la contessa di Morcerf, non volterà la cosa in tal modo, particolarmente se il barone Danglars mi fa l’onore di condurvi sua figlia? Allora vostra madre mi prenderà in orrore ed io nol voglio menomamente. Al contrario ho tutta la premura, e ditelo a lei ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, di conservarmi il meglio che sia possibile nel suo spirito.
 
— In fede mia, disse Morcerf, vi ringrazio della franchezza che adoperate meco ed accetto l’esclusione che mi proponete. Mi dite che desiderate di conservarvi il meglio che sia possibile nel cuore di mia madre, vi assicuro che vi siete già a meraviglia.
 
— Lo credete? disse Monte-Cristo con interessamento.
 
— Oh! ne sono sicuro; quando l’altro giorno ci lasciaste, abbiamo parlato buona [292] pezza di voi. Ma ritorniamo a ciò che dicevamo. Se mia madre potesse sapere, ed arrischierò a dirglielo, questo riguardo che le usate son certo che ve ne sarebbe grata, sebben mio padre dal canto suo ne sarebbe furioso.
 
Il conte si mise a ridere. — Ebbene, eccovi avvisato. Ma vi rifletto, non solo vostro padre sarà furioso; il sig. e la sig.ª Danglars mi considereranno come uomo di cattivi modi. Sanno che fra noi passa una certa intimità, che anzi siete la mia più antica conoscenza parigina, e non ritrovandovi alla mia villa, mi chiederanno perchè non vi abbia invitato. Pensate almeno a munirvi di un impegno anteriore che abbia qualche apparenza di probabilità, e di cui mi darete avviso con un bigliettino. Ben sapete che i banchieri non riconoscono valide che le cose scritte.
 
— Farò anche meglio, disse Alberto, mia madre suole andare a respirare l’aria del mare; in che giorno è fissato il vostro pranzo? — Per sabato.
 
— Oggi è martedì, va bene, domani sera partiamo, dopo domani mattina saremo a Tréport. Sapete, sig. conte, che siete un cortese amico per mettere così le persone fuor di ogni intrigo? — Io? in verità mi stimate più di quel che valgo, desidero farvi cosa grata, ecco tutto.
 
— In che giorno avete mandati gl’inviti? — Oggi stesso.
 
— Bene, corro dal sig. Danglars, gli annunzio che domani mia madre ed io lasciamo Parigi. Non vi ho veduto, e per conseguenza non so nulla del vostro pranzo.
 
— Pazzo che siete, ed il sig. Debray che vi ha veduto da me?
 
— Ah! è giusto. — Al contrario io vi ho veduto e vi ho invitato qui senza cerimonie; e voi mi avete risposto candidamente che non potevate essere mio convitato, perché domani partivate per Tréport. — Va bene; ciò è concluso, ma verrete a visitare mia madre prima di domani?
 
— Prima di domani è difficile. Poi verrei a disturbare i vostri preparativi di partenza.
 
— Dunque fate ancor meglio, voi non eravate che un uomo grazioso, diventereste un uomo adorabile.
 
— E che debbo fare per giungere a questa sublimità?
 
— Oggi siete libero come l’aria, venite a pranzo con me. Noi saremo in piccola brigata: voi, mia madre ed io. Avete appena veduto mia madre, così la conoscerete da vicino. È una donna molto notevole, e mi spiace solo che non ve ne sia una uguale con vent’anni di meno, poichè vi assicuro che vi sarebbe presto una contessa ed una viscontessa Morcerf. Quanto a mio padre non lo troverete in casa, egli fa parte di una commissione, e pranza dal gran referendario. Venite, parleremo di viaggi; voi che avete veduto il mondo intero ci racconterete le vostre avventure, ci direte la storia di quella bella greca che dite essere vostra schiava, e che trattate come una principessa. Andiamo, accettate, mia madre ve ne saprà grado.
 
— Mille grazie, disse il conte; l’invito non può essere più bello, e mi spiace vivamente di non poterlo accettare. Non sono libero come credete, al contrario ho un convegno importantissimo.
 
— Ah! state in guardia, mi avete insegnato in qual modo, in fatto di pranzi uno può disimpegnarsi da un invito disaggradevole. Mi abbisogna una prova. Fortunatamente non sono un banchiere come Danglars, ma vi prevengo che sono incredulo quanto lui.
 
— Ed io vi do subito la prova, disse il conte; e suonò.
 
— Hum! fece Morcerf ecco già due volte che ricusate di pranzare con mia madre. Questa è una risoluzione stabilita.
 
Monte-Cristo rabbrividì:
 
— Ah! non lo credete, eppure, ecco la mia pruova.
 
Battistino entrò e si fermò sulla porta aspettando.
 
— Io non era stato prevenuto della vostra visita, n’è vero?
 
— Diamine, siete un uomo tanto straordinario, che non ne risponderei.
 
— Non poteva almeno immaginare che mi avreste invitato a pranzo?
 
— Oh! in quanto a ciò; è probabile.
 
— Ebbene! Ascoltate; Battistino, che vi ho detto questa mattina quando vi ho chiamato nel mio gabinetto di studio?
 
— Di far chiudere la porta del palazzo appena suonate le cinque, disse il cameriere. — E poi?
 
— Oh! sig. conte... disse Alberto.
 
— No, no voglio assolutamente tormi quella riputazione d’uomo misterioso che mi avete fatta, mio caro visconte, è troppo difficile di rappresentare sempre la parte di Manfredi. Voglio vivere in una casa di cristallo... E poi, continuate Battistino.
 
— E poi di non ricevere che il sig. maggiore Bartolommeo Cavalcanti e suo figlio.
 
— Capite, il maggiore Bartolommeo Cavalcanti; un uomo della più antica nobiltà [293] d’Italia, e di cui Dante si è preso la pena d’essere l’Hozier; vi ricordate, o non vi ricordate, nel X canto dell’Inferno; di più, un grazioso giovine della vostra età circa, e vostro stesso titolo, e che fa il suo primo ingresso nel mondo parigino coi milioni di suo padre. Il maggiore questa sera mi conduce suo figlio Andrea, il contino, come noi diciamo in Italia; egli me lo affida; lo presenterò se ha qualche merito, voi mi aiuterete, n’è vero?
 
— Senza dubbio. Il maggiore Cavalcanti è dunque un vostro antico amico? chiese Alberto.
 
— Niente affatto: è un degno signore molto educato, modesto, e discreto, come se ne trovano una quantità in Italia fra i discendenti decaduti delle antiche famiglie. L’ho veduto più volte tanto a Bologna, che a Firenze e Lucca, e mi ha avvisato del suo arrivo. Le conoscenze di viaggio sono esigenti; ovunque reclamano quell’amicizia che loro si è dimostrata una volta per caso; come se l’uomo incivilito, che sa vivere un’ora senza curarsi di sapere con chi, non avesse sempre i suoi riservati pensieri! Questo buon maggiore ritorna a rivedere Parigi che non vide che di passaggio sotto l’impero, quando andò a gelare a Mosca. Gli darò un buon pranzo, mi lascerà suo figlio, gli prometterò di sorvegliarlo, ma gli lascerò fare tutte quelle follie che gli piacerà di fare, e saremo pari.
 
— A meraviglia, m’accorgo che siete un prezioso mentore. Addio dunque, ritorneremo domenica. A proposito, ho ricevuto notizie di Franz.
 
— Ah! davvero? disse Monte-Cristo; il soggiorno d’Italia gli piace sempre?
 
— Credo di sì; però vi desidera. Dice che eravate il sole di Roma, e che senza di voi vi fa buio; non so se giunge fino a dire che vi piova.
 
— Si è dunque ricreduto sul conto mio?
 
— Al contrario persiste a credervi un essere fantastico in primo grado; ecco perchè vi desidera.
 
— Grazioso giovinotto, disse Monte-Cristo, e pel quale ho sentito una viva simpatia fin dalla prima sera in cui lo vidi cercare una cena qualunque, ed in cui volle accettare la mia. Egli è, credo, il figlio del generale d’Épinay?
 
— Precisamente. — Lo stesso che fu così miserabilmente assassinato nel 1815? — Dai bonapartisti. — È vero, in fede mia io l’amo! Non vi è anche per lui qualche disegno di matrimonio? — Sì, deve sposare la figlia del sig. de Villefort. — Davvero? — Come io devo sposare quella del barone Danglars; riprese Alberto sorridendo.
 
— Voi ridete?
 
— Sì. — Perchè ridete?
 
— Rido, perchè mi sembra di vedere da quel lato tanta simpatia nel matrimonio, quanta ne vedo da un altro lato fra madamigella Danglars e me. Ma veramente, mio caro conte, parliamo delle donne, come le donne degli uomini, questo è imperdonabile. — Alberto si alzò.
 
— Volete andarvene?
 
— La domanda è buona, sono due ore che vi assedio, e voi avete la gentilezza di chiedermi se voglio andarmene? In verità, conte, siete l’uomo più gentile della terra! La vostra servitù com’è educata! Battistino particolarmente. Non ho mai potuto averne uno simile. I miei sembrano tutti modellarsi su quelli del teatro francese, che precisamente perchè non hanno che una parola da dire, vengono sempre a dirla sulla scala. Se mai aveste a disfarvi di Battistino vi prego darmi la preferenza.
 
— Resta stabilito, visconte.
 
— Ma qui non è tutto, aspettate, fate i miei complimenti al vostro discreto Lucchese Cavalcante dei Cavalcanti; e se per caso avesse intenzione di dar moglie a suo figlio, trovategli una donna molto ricca, molto nobile almeno dal lato di sua madre, e baronessa dal lato di suo padre, io vi aiuterò a trovarla.
 
— Oh! oh! rispose Monte-Cristo, da vero, siamo a questi termini?
 
— Sì. — In fede mia non bisogna giurare su niente.
 
— Ah! conte, gridò Morcerf, qual servizio mi rendereste! E come io vi amerei cento volte di più ancora, se mercè vostra potessi restare celibe, altri dieci anni almeno!
 
— Tutto è possibile, rispose con gravità Monte-Cristo.
 
E prendendo congedo da Alberto rientrò nel suo gabinetto, e battè tre colpi sul campanello. Bertuccio comparve. — Bertuccio, sapete che sabato ho ricevimento nel mio casino d’Auteuil.
 
Bertuccio ebbe un leggero fremito: — Bene, signore.
 
— Ho bisogno di voi, continuò il conte, perchè tutto sia disposto convenientemente. Quella casa è bella, o per lo meno può diventare bella.
 
— Per far ciò bisognerebbe cambiar tutto, sig. conte, ogni cosa è invecchiata.
 
— Cambiate dunque tutto, ad eccezione di una camera sola, della camera da letto di damasco rosso. Anzi, la lascerete assolutamente come si trova. — Bertuccio s’inchinò.
 
— Non toccherete niente neppure nel giardino; ma del cortile per esempio fatene tutto ciò che volete, gradirò anzi assaissimo se sarà ridotto in modo da non essere più conosciuto.
 
— Farò il possibile perchè il sig. conte rimanga contento; sarei più tranquillo però se volesse dirmi le sue intenzioni sul pranzo.
 
— In verità, disse il conte, da che siamo a Parigi vi trovo sconcertato e tremante; dunque non mi conoscete più?
 
— Ma infine V. E. potrebbe dirmi chi riceve?
 
— Non so ancora niente, e voi pure non avete bisogno di saperlo. Lucullo pranza da Lucullo; ecco tutto.
 
Bertuccio s’inchinò e partì.

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