Nè il conte, nè Battistino avevano mentito annunciando a Morcerf questa visita del maggiore Lucchese, che serviva a Monte-Cristo di pretesto per rifiutare il pranzo ch’eragli stato offerto. Battevano le sette, e già da due ore Bertuccio, giusta l’ordine ricevuto, era partito per Auteuil, quando una carrozza di piazza si fermò al cancello, e fuggì vergognosa subito dopo aver deposto a terra un uomo di circa 50 anni, vestito con uno di quei soprabiti verdi con alamari neri, la cui specie sembra non potersi estinguere in Europa. Larghe brache di panno blu, stivali abbastanza puliti, sebbene la vernice fosse incerta, e le suola un po’ troppo grosse, guanti di daino, un cappello che per la forma si accostava a quello di un gendarme, un colletto nero con un orlo bianco, che se non fosse stato portato di piena volontà del proprietario, sarebbesi potuto credere uno di quei cerchi di ferro a cui si attaccano pel collo i malfattori alla berlina; tal era il pittoresco abbigliamento della persona che picchiò al cancello domandando se all’entrata dei Campi-Elisi n. 30 abitasse il conte di Monte-Cristo, e che dietro la risposta affermativa del portinaro, entrò, richiuse la porta, e si diresse alla scalinata. La testa piccola e ad angoli di quest’uomo, i capelli grigi, i fitti baffi lo fecero riconoscere da Battistino che aveva gli esatti connotati del visitatore da lui aspettato nel vestibolo. Per tal modo appena pronunciato il suo nome in faccia all’intelligente servitore, Monte-Cristo era già avvisato del suo arrivo. Lo straniero fu introdotto nella sala più semplicemente messa. Il conte ivi lo aspettava, e gli andò incontro sorridendo: — Ah! caro signore, siate il benvenuto; io vi aspettava.
— Davvero, disse il Lucchese, V. E. mi aspettava?
— Sì, ero stato avvisato per oggi del vostro arrivo alle 7.
— Del mio arrivo? Cosicchè eravate prevenuto?
— Perfettamente. — Oh! tanto meglio! Temeva, lo confesso, che avessero dimenticata questa piccola cautela.
— Quale? — Quella di prevenirvi. — Oh! no!
— Ma siete sicuro di non ingannarvi? — Ne son sicuro.
— Ma veramente V. E. aspettava me alle sette?
— Veramente voi. D’altra parte verifichiamo.
— Oh! se mi aspettavate, non vale la pena....
— No, no, disse Monte-Cristo.
Il Lucchese parve alquanto commuoversi.
— Vediamo, non siete il marchese Bartolommeo Cavalcanti?
— Bartolommeo Cavalcanti, sta bene.
— E maggiore al servizio dell’Austria?
— Io era dunque maggiore? domandò timidamente il vecchio soldato.
— Sì, disse Monte-Cristo, eravate maggiore; questo è il nome che si dà in Francia al grado che avevate in Italia.
— Buono, disse il Lucchese, non domando meglio, capite...
— D’altra parte non venite qui di vostra spontanea elezione, riprese Monte-Cristo — Oh! sì certamente.
— Voi mi siete stato indirizzato da qualcuno. — Sì.
— Dall’eccellente abate Busoni. — Da lui precisamente! gridò tutto contento il Lucchese.
— Ed avete una lettera?
— Eccola.
— Per bacco, vedete bene che tutto corrisponde. Datemela dunque. — E Monte-Cristo prese la lettera che aprì e lesse.
Il maggiore guardava il conte con occhi spalancati e meravigliati che si portavano con curiosità in giro sopra ciascun oggetto della camera, ma che ritornavano invariabilmente sul suo scrigno.
— È ben lui... questo caro Busoni «il maggior Cavalcanti, un degno patrizio Lucchese, [295] discendente dal Cavalcanti di Firenze, continuò Monte-Cristo leggendo a voce alta, e che gode una fortuna di mezzo milione di rendita.» Mezzo milione, salute! mio caro Cavalcanti.
— Vi è un mezzo milione? domandò il Lucchese.
— In tutte le lettere; e dev’essere così, l’abate Busoni è l’uomo che conosce meglio di tutti le più grandi fortune di Europa.
— Eh? vada per un mezzo milione, disse il Lucchese, ma parola di onore non credeva che andasse tant’alto.
— Perchè avete un’intendente che vi ruba; che volete, caro sig. Cavalcanti, bisogna adattarsi.
— Voi m’illuminate, disse il Lucchese con gravità, lo metterò alla porta.
Monte-Cristo continuò a leggere: «E al quale non manca che una cosa per essere felice.»
— Oh! sì una sola cosa, disse il Lucchese con un sospiro.
— «Di ritrovare un figlio adorato, rapito nella sua prima gioventù, o da nemici della sua famiglia o da zingari.»
— All’età di 5 anni, signore, disse il Lucchese con un profondo sospiro ed alzando gli occhi al cielo.
— Povero padre! disse Monte-Cristo. «Io gli rendo la speranza, gli rendo la vita, sig. conte, annunziandogli che questo figlio, che da 15 anni cerca invano, voi potete farglielo ritrovare.»
Il Lucchese guardò Monte-Cristo con una indefinibile espressione d’inquietudine.
— Lo posso, rispose Monte-Cristo.
Il maggiore riprese coraggio.
— Ah! ah! la lettera è dunque vera fino alla fine?
— Avreste potuto dubitarne?
— No, mai! E come lo potevo? ad un uomo grave ricoperto di un rispettabile carattere non sarebbe permessa una simile celia: ma voi non avete letto tutto, eccellenza!
— Ah! è vero, disse Monte-Cristo, v’è un post-scriptum.
— «Per non procurare al maggior Cavalcanti l’impaccio di spostare dei fondi dal suo banchiere gli mando una tratta di 2,000 fr. per le spese del viaggio e gli apro credito su voi per 48 mila fr. che rimanete a darmi.»
Il maggiore seguiva cogli occhi questo post-scriptum con una visibile ansietà. — Bene, si contentò di dire il conte.
— Ha detto bene, mormorò il Lucchese? — E così, signore? riprese egli.
— E così? domandò Monte-Cristo.
— Il post-scriptum è accettato da voi collo stesso favore come tutto il resto della lettera?
— Certamente. Ho conti con l’abate Busoni; non so se sieno precisamente 48 mila lire che ancora resto a dargli; ma in caso non guasteremo i nostri affari per qualche biglietto di banca. E che! voi dunque attaccate una grande importanza a questo post-scriptum, caro sig. Cavalcanti?
— Vi confesserò, disse il Lucchese, che pieno di fiducia nella firma dell’abate Busoni, non mi sono provveduto di altri fondi; di modo che se mi mancasse questa risorsa, mi troverei molto impacciato a Parigi.
— È possibile che un uomo come voi possa mai trovarsi impacciato in alcun luogo? disse Monte-Cristo; via dunque!
— Diavolo, non conoscendo alcuno, disse il Lucchese.
— Ma siete conosciuto. — Sì son conosciuto di modo che...
— Terminate, caro sig. Cavalcanti. — Di modo che mi pagherete questi 48 mila fr. — Alla vostra prima domanda.
Il maggiore girava gli occhi stralunati. — Ma sedetevi dunque, disse Monte-Cristo, da vero che non so più quel che mi faccio... è un quarto d’ora che vi tengo qui in piedi...
— Non ci fate attenzione. — Il maggiore avanzò una seggiola e vi si assise. — Ora, disse il conte, volete prendere qualche cosa? un bicchiere di Xeres, di Porto, d’Alicante?
— D’Alicante, poichè lo volete, è il mio vino prediletto.
— Ne ho dell’eccellente. E con un biscotto, n’è vero?
— Con un biscotto poichè mi forzate.
Monte-Cristo suonò, Battistino comparve, il conte s’avvicinò a lui. — Ebbene?... domandò a voce bassa.
— Il giovine è di là, rispose il cameriere collo stesso tuono.
— Buono! dove lo avete fatto passare? — Nel salotto blu come ordinò V. E. — A meraviglia, portate del vino d’Alicante e dei biscotti. — Battistino uscì.
— In verità, disse il Lucchese, vi do un incomodo che mi riempie di confusione.
— Che dite mai?
Battistino rientrò coi bicchieri, il vino ed i biscotti.
Il conte riempì un bicchiere, e versò nell’altro soltanto alcune gocce del liquido rubino che conteneva la bottiglia tutta [296] ricoperta di tela di ragno, e di tutti quegli altri segni che indicano la vecchiaia del vino, molto più sicuramente che non fanno le rughe sulla fronte dell’uomo.
Il maggiore non s’ingannò nella scelta, prese il bicchiere pieno ed il biscotto. Il conte ordinò a Battistino di depositare la sotto coppa alla portata della mano del suo ospite, che cominciò dal gustare l’Alicante colla estremità delle labbra, facendo una boccaccia di soddisfazione ed introdusse delicatamente il biscotto nel bicchiere.
— Così signore, disse Monte-Cristo, voi abitate Lucca, siete ricco, siete nobile, godete della stima universale, possedete tutto ciò che può formare un uomo felice?
— Tutto, eccellenza, disse il maggiore inghiottendo il suo biscotto, assolutamente tutto.
— E non manca che una cosa per fare la vostra felicità?
— Una sola, disse il Lucchese.
— Di ritrovar vostro figlio?
— Ah! fece il maggiore prendendo un secondo biscotto, ma anche questo mi mancava. — Il degno Lucchese alzò gli occhi al cielo e tentò uno sforzo per sospirare.
— Ora vediamo, sig. Cavalcanti, che cosa è questo figlio che tanto deplorate; perchè mi fu detto, che siete rimasto lungamente celibe.
— Lo credevano signore, disse il maggiore, ed io stesso...
— Sì, riprese il conte, e voi stesso avete accreditata questa voce. Un peccato di gioventù che volevate nascondere agli occhi di tutti.
Il Lucchese si ricompose, prese le maniere più placide e più degne nello stesso tempo, ed abbassando modestamente gli occhi, sia per assicurare la sua condotta, sia per aiutare la sua immaginazione guardando di sott’occhio il conte il cui sorriso a fior di labbra annunziava sempre la stessa benevola curiosità. — Sì signore, voleva nascondere questo fallo agli occhi di tutti.
— Non per voi.
— Oh! per me no certamente, disse il maggiore con un sorriso scuotendo la testa.
— Ma per sua madre, replicò il conte.
— Per sua madre! gridò il Lucchese, prendendo il terzo biscotto; per la sua povera madre.
— Bevete dunque caro signore, disse Monte-Cristo versando al Lucchese un secondo bicchiere d’Alicante; l’emozione vi soffoca.
— Per la sua povera madre! mormorò il Lucchese, provando se la forza della volontà avesse il potere di operare sulla glandula lagrimale, affine d’inumidire con una falsa lagrima l’angolo dell’occhio.
— Che apparteneva ad una delle prime famiglie d’Italia?
— Patrizia di Fiesole, sig. conte! — E si chiamava?
— Desiderate saperne il nome?
— È inutile che me lo diciate, lo so.
— Il sig. conte sa tutto, disse il Lucchese inchinandosi.
— Oliva Corsinari, n’è vero? — Oliva Corsinari!
— Marchesa? — Marchesa!
— Ed avete finito collo sposarla, ad onta degli ostacoli di famiglia.
— Mio Dio, sì, ho finito in tal modo.
— E portate le vostre carte in regola?
— Quali carte? domandò il Lucchese.
— L’atto di matrimonio con Oliva Corsinari, e l’atto di nascita di vostro figlio?
— La fede di nascita di mio figlio?
— Sì, l’atto di nascita di Andrea Cavalcanti; vostro figlio, non si chiama egli Andrea?
— Credo di sì, disse il Lucchese. — Come! voi lo credete?
— Diavolo, non oso affermarlo, è tanto tempo che l’ho perduto. — È giusto, disse Monte-Cristo. Avete dunque tutte queste carte? — Signore, con dispiacere debbo annunciarvi che non essendo stato prevenuto di munirmi di questi atti non ho curato di prenderli meco. — Ah! diavolo, fece Monte-Cristo. — Erano dunque assolutamente necessarii?
— Indispensabili. — Il Lucchese si grattò la fronte.
— Ah! per bacco, diss’egli, indispensabili.
— Senza dubbio, se qui venissero mossi dei dubbi sulla legalità del vostro matrimonio, sulla legittimità di vostro figlio.
— È giusto, disse il Lucchese, potrebbero insorgere dubbii.
— Sarebbe tormentoso per questo giovine.
— Sarebbe fatale.
— Ciò potrebbe mandargli a monte qualche magnifico matrimonio. — Oh! peccato! — In Francia, lo saprete, vi è molto rigore, in Francia vi è il matrimonio civile, e per maritarsi civilmente vi vogliono le fedi d’identità.
— Ecco la disgrazia; non ho queste carte.
— Fortunatamente le ho io, disse Monte-Cristo.
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— Voi? — Sì. — Le avete? — Le ho.
— Ah! disse il Lucchese, che vedendo lo scopo del suo viaggio fallire per la mancanza di queste carte, temeva che questa dimenticanza non facesse insorgere qualche difficoltà sull’argomento delle 48 mila lire; ah! per esempio, ecco una fortuna. Sì, riprese egli, perchè non ci avrei pensato.
— Per bacco, credo bene, non si può sempre pensare a tutto. Ma fortunatamente l’abate Busoni vi ha pensato in vece vostra.
— Guardate un po’ quanto è amabile questo caro abate!
— È un uomo pieno di cautele.
— È un uomo ammirabile! disse il Lucchese, ve le ha egli inviate? — Eccole qui... — Il Lucchese congiunse le mani in segno di ammirazione.
— Voi avete sposato Oliva Corsinari a Monte Catini; ecco il certificato.
— Sì, da vero eccolo, disse il maggiore, guardandolo con meraviglia.
— Ed ecco la fede di nascita di Andrea Cavalcanti rilasciata a Seravezza.
— Tutto è in regola, disse il maggiore.
— Allora, prendete queste carte, delle quali non so che farne, le darete a vostro figlio che le custodirà con cura.
— Lo credo bene... s’egli le perdesse...
— Ebbene! s’egli le perdesse? domandò Monte-Cristo.
— Ebbene! riprese il Lucchese, sarebbe obbligato di scrivere laggiù, e vi sarebbero delle grandi difficoltà a procurarsene delle altre.
— In fatto sarebbe difficilissimo, disse Monte-Cristo.
— Quas’impossibile, rispose il Lucchese.
— Son ben contento che comprendiate il valore di queste carte.
— Vale a dire le riguardo impagabili.
— Ora, quanto alla madre del giovine...
— Quanto alla madre del giovine... ripetè il maggiore con inquietudine.
— In quanto alla Marchesa Corsinari.
— Mio Dio, disse il Lucchese sotto i passi del quale sembravano nascere le difficoltà; si avrà forse bisogno di lei?
— No signore, rispose Monte-Cristo, d’altra parte non ha ella...
— Sia così, sia così, disse il maggiore ella ha...
— Pagato il suo tributo alla natura.
— Ahimè! sì, disse vivamente il Lucchese.
— Seppi, riprese il conte, ch’era morta da dieci anni.
— Ed io ne piango ancora la morte, disse il maggiore cavando di saccoccia un fazzoletto a quadretti ed asciugandosi alternativamente ora l’orlo dell’occhio destro, ora quello dell’occhio sinistro.
— Che volete farci, disse Monte-Cristo, noi tutti siamo mortali. Ora capirete mio caro ch’è inutile che si sappia in Francia che voi siete stato diviso da vostro figlio per 15 anni. Tutte queste storie di zingari che rapiscono i ragazzi, non hanno credito presso di noi. Voi lo avete inviato per la sua educazione in un collegio di provincia, e volete ch’egli la compisca in mezzo al gran mondo di Parigi. Ecco perchè avete lasciato Viareggio ove abitate dopo la morte di vostra moglie. Ciò basterà.
— Lo credete? — Certamente. — Va benissimo allora.
— Se mai venisse scoperta qualche cosa di questa separazione.
— Ah! sì, e che dovrei dire allora? — Che un precettore infedele, venduto ai nemici della vostra famiglia...
— Ai Corsinari? — Certamente... ha rapito questo figliuolo, perchè si estinguesse il vostro nome. — È giusto perchè è figlio unico... — Bene, ora che tutto è combinato, che le vostre rimembranze essendo state rinnovate, non vi tradiranno, avrete certamente indovinato che vi ho preparato una sorpresa? — Aggradevole? domandò il Lucchese.
— Ah! disse Monte-Cristo, ben m’avveggo che non si può ingannare l’occhio più di quel che non si possa ingannare il cuore di un padre. — Hum! fece il maggiore. — Vi è stata fatta qualche rivelazione indiscreta, o avete indovinato ch’egli è là. — Chi è là? — Il vostro figlio, il vostro Andrea.
— L’ho indovinato, rispose il Lucchese colla più gran flemma del mondo, così egli è qui?
— In questa stessa casa, disse Monte-Cristo, il cameriere poco fa mi ha avvisato del suo arrivo.
— Ah! benissimo, benissimo! disse il maggiore allacciandosi gli alamari della sua polacca. — Mio caro signore, disse Monte-Cristo, concepisco tutta la vostra emozione, e bisogna accordarvi un po’ di tempo per rimettervi, voglio pure disporre il giovine a questo incontro tanto desiderato, giacchè presumo che non sia meno impaziente di voi.
— Lo credo, disse Cavalcanti. — Ebbene, fra un quarto d’ora saremo qui. — Voi dunque me lo conducete? portate la [298] bontà fino al punto di presentarmelo voi stesso?
— No, non voglio pormi fra il padre ed il figlio, sarete soli, ma state tranquillo, nel caso che la voce del sangue rimanesse muta, non potrete ingannarvi; egli entrerà da questa porta. È un bel giovinetto biondo, forse anche un po’ troppo biondo, con modi tutti che prevengono in suo favore, vedrete.
— A proposito, disse il maggiore, sapete che non ho portato meco che i due mila fr. che mi ha fatto passare il buon abate Busoni. Su questi ho levato le spese di viaggio... e...
— Ed avete bisogno di denaro, è troppo giusto. Prendete, ecco qui un conto pari, otto biglietti di mille fr.; or ve ne devo altri 40 mila. — V. E. vuole che le faccia la ricevuta? disse il marchese facendo scivolare i biglietti nella saccoccia interna della polacca. — Perchè farne? disse il conte.
— Ma per darvene discarico nel conto dell’abate Busoni.
— Ebbene, mi farete una ricevuta generale quando vi sborserò gli ultimi 40 mila fr.; fra galantuomini sono inutili queste cautele.
— Ah! sì è vero, disse il maggiore; fra galantuomini...
— Mi permetterete una piccola raccomandazione, n’è vero?
— E come mai, la domando. — Non sarebbe mal fatto, se lasciate questa polacca. — Davvero, disse il maggiore guardando con una certa compiacenza il suo soprabito.
— Sì, questa a Viareggio si porta ancora, ma è già gran tempo che questo vestito per quanto sia elegante, è passato di moda a Parigi. — Mi rincresce, disse il Lucchese.
— Ma se vi ci siete affezionato, potrete rimetterla al ritorno.
— Ma intanto che metterò? — Ciò che troverete nei vostri bauli. — Come nei miei bauli? Non ho portato meco che il porta mantello. — Con voi lo credo; e perchè avreste dovuto impacciarvi? D’altra parte un vecchio militare desidera marciare con un piccolo fardello. — Ecco precisamente perchè...
— Ma voi siete un uomo pieno di cautele, e perciò avete mandato avanti i vostri bauli. Sono giunti ieri all’albergo dei Principi, strada Richelieu, ove avete fatto fissare il vostro alloggio.
— Allora in questi bauli?...
— Presumo che avrete avuta la cautela di farvi racchiudere dal vostro cameriere tutto ciò che vi poteva abbisognare, abiti da città, abiti d’uniforme. Nelle grandi congiunture vestirete l’uniforme, il che fa sempre bene. Non dimenticate poi le decorazioni. In Francia se ne beffano ancora, ma le portano sempre.
— Benissimo, benissimo, benissimo, disse il maggiore passando da uno stordimento in un altro.
— Ed ora che il vostro cuore si è rafforzato contro le sensazioni troppo vive, preparatevi, mio caro Cavalcanti, a rivedere il vostro Andrea.
E facendo un grazioso saluto al Lucchese rapito in estasi, Monte-Cristo disparve dietro la portiera.