Il conte di Monte-Cristo entrò nel salotto vicino, che Battistino aveva indicato col nome di salotto blu, e dov’era stato preceduto da un giovine di portamento disinvolto vestito con sufficiente eleganza, che mezz’ora prima era stato gettato alla porta del palazzo da un cabriolet di piazza.
Battistino non aveva penato a riconoscerlo; era realmente quel giovine alto coi capelli biondi, colla tinta vermiglia sopra una candidissima pelle, come gli era stato contradistinto dal padrone. Il giovine era negligentemente steso sur un sofà percuotendosi lo stivale con un sottile bastoncino a pomo d’oro; scorgendo Monte-Cristo si alzò prestamente. — Il signore è il conte di Monte-Cristo?
— Sì signore, rispose questi, e credo di aver l’onore di parlare al sig. conte Andrea Cavalcanti.
— Il conte Andrea Cavalcanti, riprese il giovine accompagnando queste parole con un saluto di disinvoltura.
— Dovete avere una lettera che vi accredita meco?
— Non ve ne parlavo per cagione della firma che mi è sembrata strana. — Sindbad il marinaro, non è così?
— Precisamente, or siccome non ho mai conosciuto altro Sindbad il marinaro che quello delle mille e una notte...
— Ebbene! egli è uno dei suoi discendenti, uno dei miei amici, molto ricco, un inglese, qualche cosa più che stravagante, quasi pazzo, il cui vero nome è Lord Wilmore.
— Ah! ecco ciò che mi spiega ogni cosa, disse Andrea, allora tutto va a meraviglia. Egli è quello stesso inglese che [299] conobbi... a... sì; benissimo, sig. conte, vi son servo.
— Se ciò che avete l’onore di dirmi è vero, spero che vorrete favorirmi dei particolari sulla vostra famiglia.
— Volentieri, rispose il giovine con una volubilità che provava la sicurezza della sua memoria. Io sono, come diceste, il conte Andrea Cavalcanti, figlio del maggiore Bartolommeo, discendente dai Cavalcanti iscritti al libro d’oro di Firenze. La nostra famiglia quantunque ancora ricca, poichè mio padre gode di mezzo milione di rendita, ha provato moltissimi infortuni, ed io stesso, signore, all’età di 5 anni sono stato rapito da un aio infedele, di modo che da 19 anni non ho più riveduto l’autore dei miei giorni. Dacchè ho l’età della ragione, dacchè sono libero e padrone di me, lo cerco, ma inutilmente. Finalmente questa lettera del nostro amico Sindbad mi annunzia, ch’egli è a Parigi, e mi permette d’indirizzarmi a voi per averne notizia.
— In verità, signore, tutto ciò che mi raccontate è molto importante, disse il conte che guardava con una tetra soddisfazione questa fisonomia disinvolta, marcata di una beltà simile a quella dell’angelo cattivo; ed avete fatto benissimo a conformarvi in tutto e per tutto all’invito del buon amico Sindbad, perchè vostro padre in fatto è qui e vi cerca.
Il conte fin dal suo entrare nel salotto non aveva perduto di vista il giovine, ne aveva ammirato la sicurezza dello sguardo e della voce, ma a queste parole tanto naturali, vostro padre è qui e vi cerca, il giovine Andrea fece uno sbalzo gridando: — Mio padre! mio padre qui?
— Senza dubbio, rispose Monte-Cristo, vostro padre il maggiore Bartolommeo Cavalcanti. — L’impressione di terrore sparsa sui tratti del giovine si cancellò quasi subito.
— Ah! sì è vero, il maggiore Bartolommeo Cavalcanti. E voi dite, sig. conte, ch’egli è qui, questo caro padre?
— Sì, signore, aggiungerò ancora che l’ho lasciato in questo punto; la storia che mi ha raccontata di questo prediletto figlio altra volta perduto, mi ha molto commosso, in verità, i suoi dolori, i timori, le speranze su tal soggetto formerebbero un poema commovente. Finalmente un giorno ricevette notizie che gli annunziavano che i rapitori di suo figlio offrivano di renderlo o d’indicare ove egli era mercè una forte somma. Ma niuna cosa ritenne questo buon padre, la somma fu inviata alle frontiere del Piemonte unitamente ad un passaporto regolare per l’Italia. Voi eravate nel mezzogiorno della Francia, credo?
— Sì signore, rispose Andrea con impaccio; era nel mezzogiorno della Francia.
— Una vettura doveva aspettarvi a Nizza?
— Precisamente così, signore, essa mi condusse da Nizza a Genova, da Genova a Torino, da Torino a Chambery, da Chambery a Pont-de Beauvoisin, e di lì a Parigi.
— A meraviglia, sperava sempre rincontrarvi in cammino, poichè questa era la strada che faceva egli stesso, ecco perchè il vostro itinerario era stato in tal modo tracciato.
— Ma, disse Andrea, se questo caro padre mi avesse incontrato temo che non mi avrebbe riconosciuto; sono qualche poco cangiato da che l’ho perduto di vista.
— Oh! la voce del sangue, disse Monte-Cristo.
— Ah! sì è vero, riprese il giovine, io non pensava alla voce del sangue!
— Ora, riprese Monte-Cristo, una sola cosa agita il marchese Cavalcanti, ed è ciò che avete fatto durante la vostra lontananza, ed il modo col quale siete stato trattato dai vostri persecutori; è il desiderio di sapere se hanno avuto per la vostra nascita i riguardi che le si dovevano, finalmente se per le sofferenze morali alle quali siete stato esposto, sofferenze cento volte peggiori delle fisiche, le vostre facoltà di cui siete stato dotato largamente dalla natura abbian sofferto qualche indebolimento, e se voi stesso credete poter rispondere e sostenere nella società il rango che vi appartiene.
— Signore, balbettò il giovine stordito, spero che nessun falso rapporto...
— Intesi parlare di voi per la prima volta dal mio amico Wilmore, il filantropo. Seppi che vi aveva ritrovato in una posizione molto dolorosa, però non so quale, non avendogli fatta alcun’interrogazione, essendo poco curioso. Le vostre disgrazie lo hanno interessato, dunque voi eravate in istato di potere inspirare interessamento. Mi disse che voleva rendervi nel mondo la posizione che avevate perduta, che cercava vostro padre, e che lo avrebbe ritrovato, a quanto sembra poichè è di là: finalmente mi ha prevenuto ieri del vostro arrivo, dandomi ancora alcune istruzioni relative alle vostre ricchezze: ecco tutto; so che questo mio buon amico Wilmore è un originale, ma nello stesso tempo siccome è un uomo sicuro, [300] ricco quanto una miniera d’oro, e che per conseguenza può soddisfare le sue originalità senza ch’esse lo rovinino, ho promesso di seguire le sue istruzioni. Ora, signore, non vi offendete della mia domanda; siccome sarò obbligato di farvi un poco da padre, desidererei sapere se le disgrazie che vi sono accadute, disgrazie indipendenti dalla vostra volontà, e che non diminuiscono in alcun modo la stima che vi porto, vi abbiano reso estraneo alquanto a questo mondo nel quale le vostre ricchezze vi chiamano a fare una così buona figura.
— Signore, rispose il giovine riprendendo il suo contegno sicuro, a seconda che il conte parlava, rassicuratevi su questo punto: i rapitori che mi hanno allontanato da mio padre, e che senza dubbio avevano per iscopo di rendermi a lui più tardi, come hanno fatto, hanno calcolato che per cavare un buon partito da me, bisognava lasciarmi tutto il mio valore personale, ed anzi aumentarlo ancora, se era possibile: ho dunque ricevuto una buona educazione e sono stato trattato dai miei rapitori, nello stesso modo circa con cui nell’Asia minore erano trattati gli schiavi dai loro maestri che erano o grammatici, o medici, o filosofi, per venderli ad un più caro prezzo nel mercato di Roma.
Monte-Cristo sorrise con soddisfazione; egli non aveva sperato tanto dal sig. Andrea Cavalcanti, a quanto sembrava.
— D’altra parte, riprese il giovine, se vi fosse qualche difetto nella mia educazione o piuttosto nelle abitudini di società, si avrà, suppongo, l’indulgenza di scusarmi in considerazione delle disgrazie che hanno accompagnato la mia nascita, e perseguitata la mia gioventù.
— Ebbene! disse Monte-Cristo negligentemente; farete ciò che vorrete, conte, perchè voi siete il padrone, e ciò spetta a voi; ma non direi un motto di tutte queste avventure; la vostra storia è un romanzo, ed il mondo che adora i romanzi chiusi fra due copertine di carta gialla, diffida stranamente di quelli che vede legati in carta velina vivente, fossero puranche dorati come potete esserlo voi. Ecco la difficoltà che mi permetterò di farvi notare; tosto che avrete raccontata a qualcuno la vostra commovente storia essa verrà del tutto snaturata nella società. Non sarete più un giovine ritrovato, ma un giovine perduto. Sarete obbligato di prendere la posizione di Antony, ed il tempo degli Antony è un poco passato. Forse avreste un incontro di curiosità, ma tutti non amano farsi centro di osservazioni, argomento di commentarii, ciò forse vi stancherebbe ancor troppo.
— Credo che abbiate ragione, sig. conte, disse il giovine impallidendo suo malgrado sotto l’influenza dello sguardo di Monte-Cristo, questo è un grande inconveniente.
— Oh! non bisogna però esagerarselo, disse Monte-Cristo, perchè allora per evitare un errore si cadrebbe in una follia. No, non si tratta che di stabilire un disegno di condotta, e per un uomo intelligente come voi, esso è tanto più facile ad adottarsi in quanto che è conforme ai vostri interessi; bisognerà combattere con testimonianze ed onorevoli amicizie tutto ciò che può avere di oscuro la vostra vita passata.
Andrea perdè visibilmente il coraggio.
— Mi offrirò volentieri per voi come garante, disse Monte-Cristo, ma in me è un’abitudine morale di dubitare sempre dei miei migliori amici, ed un bisogno di cercare di far dubitare gli altri; per tal modo io rappresenterei una parte fuori del mio carattere come dicono i tragici, e mi esporrei a farmi fischiare, il che è inutile.
— Pure, sig. conte, disse Andrea con audacia, in riguardo a Lord Wilmore che mi ha raccomandato a voi...
— Sì, certamente, rispose Monte-Cristo; ma Lord Wilmore non mi ha lasciato ignorare, caro sig. Andrea, che avete avuto una gioventù alquanto procellosa... Oh! disse il conte vedendo il movimento che faceva Andrea, non vi domando delle confessioni, d’altra parte perchè non aveste ad aver bisogno di alcuno, fu fatto venire da Lucca il sig. marchese Cavalcanti vostro padre.
— Ah! voi mi tranquillate signore; l’ho lasciato da sì lungo tempo che non avevo più di lui alcuna rimembranza.
— E poi sapete che le molte ricchezze fanno chiudere un occhio sopra varie cose.
— Mio padre è dunque realmente ricco, signore?
— Milionario... 500 mila lire di rendita.
— Allora, domandò il giovine con ansietà, mi troverò ben presto in una posizione... aggradevole?
— Delle più aggradevoli, mio caro signore, vi assegna 50 mila lire di rendita per ogni anno durante il tempo che resterete a Parigi.
— Ma... in questo caso vi resterò sempre?
[301]
— Oh! chi può rispondere delle congiunture, mio caro signore? l’uomo propone ed Iddio dispone.
Andrea mandò un sospiro: — Ma finalmente per tutto il tempo che resterò a Parigi e... che nessuna occasione mi sforzerà di abbandonare; questo danaro di cui mi parlavate poco fa mi sarà assicurato?
— Oh! perfettamente.
— Da mio padre? domandò Andrea con inquietudine.
— Sì, ma garantito da Lord Wilmore, che ha sulla domanda di vostro padre aperto un credito di 5 mila fr. il mese presso il sig. Danglars, uno dei più sicuri banchieri di Parigi.
— E mio padre conta di restare lungamente a Parigi?
— Soltanto qualche giorno, rispose Monte-Cristo, il suo servizio non gli permette di assentarsi più di due o tre settimane. — Oh! che caro padre! disse Andrea visibilmente incantato per questa pronta partenza.
— Per cui, soggiunse Monte-Cristo facendo sembiante d’ingannarsi sull’accento di queste parole, per cui non voglio ritardare più oltre di un solo momento la vostra riunioe. Siete preparato ad abbracciare questo degno sig. Cavalcanti?
— Spero che non ne dubiterete. — Ebbene, entrate dunque nel salotto, mio giovine amico e vi troverete vostro padre che vi aspetta. — Andrea fece un profondo saluto al conte ed entrò nel salotto. — Il conte lo seguì con lo sguardo ed avendolo veduto sparire, spinse una molla corrispondente ad un quadro che scostandosi dal muro lasciava penetrare la vista nell’interno del salotto, per mezzo d’una fessura maestrevolmente disposta. Andrea chiuse la porta dietro a sè, e si avanzò verso il maggiore, che si alzò appena inteso il rumore dei passi che si avvicinavano.
— Ah! signore e caro padre, disse Andrea ad alta voce, ed in modo che il conte lo sentisse al di là della porta chiusa, siete veramente voi?
— Buon giorno, caro figlio, disse con gravità il maggiore.
— Dopo tanti anni di separazione, ripetè Andrea, continuando a guardare dal lato della porta, quale fortuna di rivederci!
— Difatto la separazione è stata lunga.
— E non ci abbracciamo signore? riprese Andrea.
— Come vi piace, figlio mio, soggiunse il maggiore.
E i due uomini si abbracciarono al modo degli attori del teatro francese, cioè situando la testa al disopra delle spalle.
— Eccoci dunque riuniti, disse Andrea. — Eccoci riuniti, ripetè il maggiore. — Per non più separarci?
— Sia; però credo, mio caro figlio, che ora considerate la Francia come la vostra seconda patria.
— Il fatto è che sarei disperato se dovessi lasciar Parigi.
— Ed io, capirete, non saprei vivere fuori di Lucca; ritornerò dunque in Italia appena il potrò.
— Ma, caro padre, prima di partire mi consegnerete, n’è vero, le carte con le quali contestar possa la mia nascita?
— Senza dubbio, son venuto espressamente per questo ed ho già molto sofferto per ritrovarvi, da non farlo una seconda volta; ciò occuperebbe il restante dei miei giorni.
— E le carte? — Eccole. — Andrea afferrò avidamente la fede di matrimonio di suo padre e quella della sua nascita, e le percorse con una rapidità ed abitudine che dinotavano un colpo d’occhio esercitato, ed un vivo interessamento; appena terminato, un’indefinibile gioia gli brillò sulla fronte, e guardando il maggiore con uno strano sorriso:
— E che! diss’egli in buon toscano, non vi son più galere in Italia?
Il maggiore si raddrizzò: — E perchè? diss’egli.
— Perchè vi si fabbricano impunemente certificati simili; per la metà di questo, caro padre, in Francia vi manderebbero a respirare per cinque anni l’aria di Tolone.
— Come sarebbe a dire? sclamò il Lucchese sforzandosi d’assumere un tuono maestoso.
— Mio caro sig. Cavalcanti, disse Andrea stringendo il braccio al maggiore, quanto vi pagano per essere mio padre...
Il maggiore volea parlare; ma Andrea soggiunse abbassando la voce: — Zitto, sarò il primo a darvi l’esempio di confidenza, a me danno 50 mila fr. l’anno per esser vostro figlio; per conseguenza capirete bene, che non sarò mai disposto a negare che voi siete mio padre.
Il maggiore guardò con inquietudine a sè dintorno.
— Eh! state pur tranquillo, siamo soli, disse Andrea; e d’altra parte noi parliamo in italiano.
— Ebbene! ripetè il Lucchese, a me danno 50 mila fr. per una sola volta. — Sig. Cavalcanti, credete ai racconti delle [302] fate? — Prima non vi credeva, ma adesso bisogna che vi creda. — Avete dunque avuto delle prove? — Il maggiore cavò dal taschino un pugno di monete d’oro: — Palpabili, come vedete. — Credete dunque, ch’io possa aggiustar fede alle promesse fatte? — Lo credo.
— E questo brav’uomo del conte le manterrà?
— Sicuramente, ma capirete che per giungere allo scopo, bisogna che noi rappresentiamo bene la parte impostane.
— In qual modo dunque? — Io di tenero padre. — Ed io di figlio rispettoso, dapoicchè essi desiderano che io discenda da voi? — Chi essi? — Diavolo nol so, quelli che vi hanno scritto, non avete ricevuta una lettera?
— Da un certo abate Busoni.
— Che non conoscete?
— Che non ho mai veduto. — Che diceva questa lettera?
— Voi al certo non mi tradirete?
— Me ne guarderei bene; abbiamo eguali interessi.
— Allora tenete; ed il maggiore presentò la lettera al giovine. — Andrea lesse a voce bassa:
«Voi siete povero, un’infelice vecchiaia vi attende; volete diventare, se non ricco, almeno indipendente? Partite sul momento per Parigi, per reclamare dal conte di Monte-Cristo, Campi-Elisi n. 30, il figlio che avete avuto con la marchesa Corsinari, e che vi fu rapito nell’età di 5 anni.
«Egli chiamasi Andrea Cavalcanti. Perchè non abbiate alcun dubbio sulle intenzioni che il sottoscritto ha di rendersi a voi vantaggioso, troverete qui unite:
«1. Un bono di 2400 lire toscane pagabili dal sig. Gozzi in Firenze.
«2. Una lettera di presentazione pel sig. di Monte-Cristo sul quale vi apro un credito della somma di 48 mila fr.
«Siate dal conte li 26 maggio alle sette p. m.»
Abate Busoni.
— È questa. — Come? è questa? che intendete dire? domandò il maggiore. — Dico che ne ho ricevuta una presso a poco come questa. — Voi? — Sì, io. — Dall’abate Busoni? — No. — Da chi dunque? Da un inglese, da un certo Wilmore, che prende il nome di Sindbad il marinaro...
— E che voi non conoscete più che io l’abate Busoni?
— È un fatto, ma sono più avanti di voi.
— L’avete veduto? — Sì una volta. — E dove?
— Ecco ciò che precisamente non posso dirvi, voi ne sapreste quanto me, e ciò è inutile.
— E quella lettera vi diceva? — Leggete:
«Voi siete povero, e non avete che un avvenire miserabile; volete avere un nome, esser libero, esser ricco?»
— Per bacco! fece il giovine librandosi sui talloni, come se una simile interrogazione gli fosse stata fatta veramente in quel punto.
«Prendete la carrozza di posta che troverete già allestita uscendo da Nizza per la porta di Genova. Passate per Torino, Chambery, e Pont-de-Voisin, e recatevi a Parigi. Presentatevi al sig. conte di Monte-Cristo, entrate dai Campi-Elisi il 26 maggio alle 7 p. m. e domandategli di vostro padre. Voi siete figlio del marchese Bartolommeo Cavalcanti, e della marchesa Oliva Corsinari, come l’attestano le carte che vi saran rimesse dal marchese, e che vi permetteranno di potervi presentare con questo nome nella società di Parigi. In quanto al vostro rango, una rendita di 50 mila lire l’anno vi metterà in istato di poterlo sostenere. Unito alla presente troverete un bono di 5 mila lire pagabili dal sig. Ferrea di Nizza, ed una lettera di presentazione sul conte di Monte-Cristo, incaricato da me di provvedere ai vostri bisogni.»
Sindbad il marinaro.
— Hum! fece il maggiore, benissimo! avete veduto il conte?
— L’ho lasciato or ora. — Ed egli ha ratificato?...
— Tutto.
— Ne capite qualche cosa? — No in fede mia.
— In questa faccenda v’è certamente un merlotto.
— In ogni caso non sarem, nè io, nè voi.
— No certamente. — Ebbene allora...
— Poco c’importa, n’è vero?... — Precisamente, ciò voleva dire anch’io, andiamo fino alla fine e sempre uniti.
— Vedrete che son degno di giuocare alla vostra partita.
— Non ne ho dubitato neppur un momento, caro padre.
— Voi mi fate onore, caro figlio.
Monte-Cristo scelse questo momento per entrar nel salotto. Sentendo il rumore dei suoi passi, i due uomini si gettarono nelle braccia l’uno dell’altro, il conte li [303] trovò abbracciati: — Ebbene, marchese, disse egli, sembra che abbiate trovato un figlio a seconda del vostro cuore.
— Ah! conte, la gioia mi soffoca.
— E voi? — Ah! signore, la felicità mi opprime.
— Padre fortunato, figlio avventuroso, sclamò Monte-Cristo.
— Una sola cosa mi rattrista, disse il maggiore, la necessità di dover così presto lasciar Parigi.
— Non partirete prima che vi abbia presentato a qualche amico.
— Sono agli ordini del sig. conte.
— Or via, giovinotto, confessatevi. — A chi?
— A vostro padre, ditegli qualche cosa sullo stato delle vostre finanze. — Ah! diavolo disse Andrea, voi toccate la corda sensibile... — Capite, maggiore, disse Monte-Cristo.
— Senza dubbio. — Egli dice che ha bisogno di danaro.
— E che volete che ci faccia io? — Che gliene diate, per bacco! — Io? — Sì, voi! Monte-Cristo si pose fra loro:
— Prendete, disse ad Andrea, lasciandogli scorrer tra le mani dei biglietti di banca. — E che cos’è? — La risposta di vostro padre; non gli avete fatto capire che avevate bisogno di danaro? — Ebbene?
— Ebbene, ed egli m’incarica di rimettervi questi.
— In conto delle mie rendite?
— No, per le spese d’istallazione.
— Oh! caro padre! — Silenzio, disse Monte-Cristo; vedete bene ch’egli non vuole che vi dica che vengano da lui.
— Apprezzo questa delicatezza, disse Andrea nascondendo i biglietti nella saccoccia del calzone.
— Sta bene, disse Monte-Cristo, ora andate!
— E quando avrem l’onore di rivedere il sig. conte? domandò il maggiore.
— Sabato, se vi piace; avrò parecchie persone a pranzo nella mia casa d’Auteuil, strada Fontana n. 28, fra esse il sig. Danglars, vostro banchiere; vi presenterò a lui, bisogna ben che faccia la conoscenza di entrambi per isborsarvi il vostro danaro.
— In gran tenuta? domandò a mezza voce il maggiore.
— Sì! uniforme, decorazioni, e calzoni corti.
— Ed io? domandò Andrea.
— Oh! voi con gran semplicità: calzoni neri, stivali verniciati, gilè bianco, abito nero o blu; andate da Blin, o Véronique per abbigliarvi; se non ne sapete gl’indirizzi, Battistino ve li darà, se prendete cavalli servitevi da Devedeux, e se comprate un phaéton andate da Baptiste.
— A che ora potrem presentarci? — Alle sei e mezzo.
— Sta bene, disse il maggiore portando la mano al cappello.
I due Cavalcanti salutarono il conte e partirono.
Il conte si avvicinò alla finestra e li vide che attraversavano il cortile, tenendosi sotto il braccio: — In verità, diss’egli, ecco due gran miserabili! peccato che non siano veramente padre e figlio. — Dopo un momento di cupa riflessione: — Andiamo dai Morrel, credo che il disprezzo mi accori ancor più dell’odio.