E tu onore di pianto Ettore avrai
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il sole
Risplenderà sulle sciagure umane.
(Foscolo).
Prima del 5 maggio partivano da Genova due giovani con destinazione alla Trinacria. L’uno bellissimo e castagno di capigliatura, apparteneva a nobile famiglia dell’isola; l’altro avea la bellezza del plebeo meridionale, con una capigliatura d’ebano, un volto regolare ma bronzato, tarchiato e robustissimo.—Egli era, a non ingannarsi, uno di quella casta che la fortuna condanna a menar le braccia per la sussistenza, e che qualche volta stimolati da istinti generosi o dall’ambizione d’innalzarsi, si lanciano al di fuori dell’area in cui la sorte sembrava volerli circoscrivere; e, se coadiuvati dal genio, si vedono transitare dall’infimo della condizione umana ai gradini superiori.—Tali i Cincinnati, i Mario ed i Colombo.
L’Italia incontrastabilmente—paese di non comune intelligenza in tutte le classi—ha forse troppi di questi nobili plebei ambiziosi di migliorare od innalzare la propria condizione: ciocchè, senza dubbio, è causa d’aver essa in proporzione un’esorbitanza di cittadini repugnanti alle manuali occupazioni.
Per esempio, ho veduto in America dei giovani Italiani letterati, ridotti a non trovar impiego e quindi alla miseria; mentre i nostri operai, contadini, carpentieri, ecc., appena giunti eran cercatissimi, impiegati subito con splendidi salari, e vivevano perciò una vita agiatissima.
Nella propensione nostra quindi di salire nella scala umana, v’è bene e male—dipendendo dalla fortuna, accertare o no, l’uno o l’altro.—Comunque io consiglierò sempre a’ miei concittadini d’imparare un’arte manuale qualunque—ove troveranno sempre più robustezza che nelle occupazioni di scrivanie—e più sicurezza di guadagnar la vita in ogni parte del mondo—sopratutto poi, non dimenticar la massima di spender nove quando si possiede dieci.
Nell’anima dei due però, che si lanciavano a morte quasi sicura, v’era la devozione eroica dei Leonida e dei Muzio Scevola.—Rosolino Pilo e Corrao ponno giustamente chiamarsi i precursori dei Mille; e noi li trovammo in Sicilia dopo di una traversata portentosa, facendo propaganda emancipatrice, e solleticando i coraggiosi figli dell’Etna a sollevarsi colla promessa di pronti soccorsi dal continente.
Due individui e non più sbarcavano sulla loro terra—proscritti e condannati a morte—spargendo la loro santa propaganda, e senza esitare dirò: con tanta sicurezza come sulla terra d’asilo!
Sappilo, tirannide! e sappi che questa non è terra da spie! Tu hai perduto il tuo tempo, impiegando ogni specie di corruzione! Qui—su questi frantumi di lava—il tuo potere, brutto di sangue e di vergogna, è effimero!
Butta giù quella tua maschera di Statuto, a cui nessuno più crede, e mostrati col tuo ceffo deforme da Eliogabalo o da Caracalla—qui altro non è che questione di tempo—d’anni—che dico? forse di giorni.—Che s’intendano questi ringhiosi discendenti della discordia e della grandezza, e come nel Vespro, in poche ore, verun vestigio resterà più delle vostre sbirraglie.
Rosolino Pilo in una scaramuccia coi Borbonici—mentre i Mille facevano alcune fucilate nelle vicinanze di Renne—fu colpito da un piombo nemico, mentre si accingeva a scrivermi dalle alture di S. Martino, e stramazzò cadavere.
Italia perdeva uno dei più forti di quella brillante schiera, che col loro coraggio e nobile contegno menomano alquanto le sue umiliazioni e le sue miserie.
Corrao, men fortunato di Rosolino, dopo d’aver pugnato valorosamente in ogni combattimento del 60, morì di piombo italiano per gare individuali.
Il generoso popolo della Sicilia, io spero, non dimenticherà quei suoi due prodissimi concittadini.