Si spandea lungo nei campi
Di falangi un tumulto, e un suon di tube
E un incalzar di cavalli accorrenti,
Scalpitanti sugli elmi ai moribondi
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
(Foscolo).
La battaglia di Maratona fu una ben gloriosa vittoria di popoli contro la tirannide; ed i valorosi di Milziade ebbero una santa, terribile e liberatrice vittoria.
I Greci—come gli altri popoli che han la disgrazia di aver dei preti—son questi gli anniversari che dovrebbero ricordare e santificare, non i Domenichi, gl’Ignazi, gli Arbues e compagnia brutta di sangue!
Come la Maratona per i Greci, la battaglia di Palermo, quasi dimenticata e avversata dall’eunuco sistema che regge in Italia, sarà ricordata dalle generazioni venture con entusiasmo e con rispetto!
Sorgi, aurora del 27 maggio!—men sanguigna, men cupa del precedente tramonto—tu vai a rischiarare il giorno più glorioso ch’io mi conosca in Italia.—S. Fermo, Palermo!—i nostri nepoti vi rammenteranno con orgoglio, e quando seduto al focolare, ed attorniato dalla gioventù bramosa, il veterano volontario starà narrando ad essa quelle superbe pugne, grandirà d’un palmo ed il suo volto venerando risplenderà ringiovanito.
Vittorie di popolo! del diritto sulla prepotenza, del vero sulla menzogna, e della giustizia sulla tirannide!
E perchè con tante splendide vittorie, l’umanità rimane sempre schiacciata sotto il peso dei pochi furbi, che la corrompono, la derubano e la fanno infelice?
Ditelo voi, archimandriti Bizantini, che assordate il mondo di ciarle—voi eletti a legislatori colla frode, o dalla dabbenaggine del popolo, o dalla parte di popolo comprato, voi, dottrinari e dottori di tante specie: molti di voi un giorno repubblicani arrabbiati—oggi!..... ho vergogna di dirlo, cosa siete? Comunque, legislatori, che a forza di leggi ci fate desiderar la vita primitiva.
Una scelta schiera di prodi dovea aprire la strada nella capitale dei Vespri.
Tucheri dovea condurla, e per compagni egli aveva nientemeno che Nullo, Cairoli, Vigo, Taddei, Poggi, Uziel, Scopini, Perla, Cucchi, ed altri valorosissimi, i di cui nomi, io raccomando vengano pubblicati dal prode Stato Maggiore dei[96] Mille e dai condottieri nobili delle otto famose compagnie, come pure dal capo delle guide, le quali primeggiavano fra i più coraggiosi[16].
Quella schiera scelta tra i Mille, non contava il numero, le barricate ed i cannoni che i mercenari dei Borboni avevano assiepati fuori di porta Termini.—Essa tempestava e fugava al ponte dell’ammiraglio gli avamposti nemici, e proseguiva.
Le barricate di porta Termini furono superate volando—e le colonne dei Mille, e le squadre dei Picciotti calpestavano le calcagna della valorosa avanguardia, gareggiando d’eroismo.
Non valse una vigorosa resistenza dei nemici su tutti i punti, nè il fulminare delle artiglierie di terra e di mare, massimamente d’un battaglione di cacciatori indigenicollocato nel dominante convento di S. Antonino che ci fiancheggiava sulla nostra sinistra a mezzo tiro di carabina.—Nulla valse: la vittoria sorrise al coraggio ed alla giustizia, ed in poco tempo il centro di Palermo fu invaso dai militi della libertà italiana.
Trovandosi la popolazione della capitale della Sicilia completamente inerme, essa non poteva il primo giorno esporsi ai fuochi tremendi che[97] avean luogo per le strade.—Giacchè non solo sparavano le artiglierie della truppa concentrata in Palazzo Reale, Castellamare, ecc., ma la flotta Borbonica infilando le strade principali, le spazzava coi suoi forti proietti e distruggeva non pochi edifizi con granate e bombe.
Ed ognuno sa che quando i bombardatori ponno bombardare una povera città senza esserne molestati, la loro bravura da cannibali si accresce in ragione geometrica.
Ben presto però il popolo di Palermo accorse all’erezione di quei propugnacoli cittadini, che fanno impallidir la tirannide—le barricate—e vi si distinse come direttore il colonnello dei Mille, Acerbi, milite valoroso di tutte le battaglie italiane.
I popolani, armati d’un ferro in qualunque guisa dal coltello alla scure, presentavano nei giorni susseguenti, quelle imponenti masse, irresistibili in una città, a qualunque truppa, per ben organizzata che sia. E quando un’intimazione di deputati borbonici fece significare ai Palermitani: di dover ricorrere alla clemenza del Re, un ruggito di sublime sdegno—somigliante a quello dei terribili nostri vulcani quando scuotono la superficie del globo—si udì nelle illustri vie che risuonano ancora l’eco sterminatore di un esercito di tiranni.
Allora potè vedersi cosa vale una città di dugento mila anime disposta a seppellirsi sotto le macerie dei suoi focolari, pria di piegar il ginocchio sotto la prepotente tirannide.
Da quel momento le barricate sortivan da terra come per incanto—e che barricate! da poter sfidare anche le più forti artiglierie. Palermo n’era stipata.—Ogni finestra di casa presentava un’alta barricata di materassi, cuscini, mobilia d’ogni specie, e le più pesanti suppellettili vedevansi sospese, pronte ad esser precipitate sulle teste dei mercenari, in caso essi avessero tentato di assalire i figli della libertà.
Salve! città dalle grandi memorie—anche questa volta l’eroica tua iniziativa valse la quasi unità della patria italiana, che sarebbe compiuta oggi, senza la prevalenza della menzogna, del dottrinarismo e degli adoratori del ventre!