La notte, mentre lavoravo a tavolino, a una cert'ora sentivo picchiare nel muro e poi una voce insonnita che diceva:
—Non lavori più, figliuolo; s'abbia riguardo agli occhi.
Ed io:—Ancora una pagina.
—Nemmeno una pagina. Si ricordi del proverbio: È meglio un... cavallino vivo che un dottore morto.
Passava un altro quarto d'ora e lei daccapo:
—A letto, a letto, figliuolo.
—Padrona,—domandavo io,—com'è quel proverbio di Berto, che m'ha detto stamani? Ne ho bisogno per scriverlo.
—Berto,—rispondeva,—che dava a mangiare le pesche per vendere i noccioli. Vada a letto.
—Ancora una cosa. Come si chiama il bastone d'Arlecchino?
—Non mi cava più una parola, nemmeno se mi fa regina di Spagna.
E non diceva più una parola davvero e io andavo a dormire.
La mattina per tempo, appena svegliato, risentivo la sua voce:—Su, su! È un sereno che smaglia. Vada a fare un giro alle Cascine![6]
Una sera tornai a casa pieno di malinconia e mi buttai sul sofà senza dire una parola. Essa mi venne accanto. Duravo[Page 99] fatica a trattenere le lagrime. Mi domandò che cos'avessi. Non volevo rispondere. Insistette, e allora le apersi il mio cuore come a un amico.
—Ho avuto un dispiacere,—le dissi.—Ho saputo che l'altro giorno, in una casa, hanno detto che i miei scritti sono noiosi e che non farò mai nulla di buono. Io ne sono persuaso e non ho più voglia di studiare. Voglio buttar nel fuoco tutti i miei libri e tornare a fare il soldato. Sono triste, scoraggito e annoiato della vita. Non m'importerebbe nulla di morire.