Ben veduto alla corte, tanto se regnava un re del ramo primogenito o del ramo cadetto, tanto se governava un ministro dottrinario, che liberale o conservatore; riputato abile da tutti, come si reputano generalmente abili tutte le persone che non hanno mai provati sinistri politici; odiato da molti ma caldamente protetto da certuni senza però essere amato da alcuno, il sig. de Villefort teneva un alto posto nella magistratura, e si teneva a questa altezza come un Harlay, o come un Molè. Il suo salone, rimodernato da una giovane sposa e da una figlia di primo letto dell’età appena di 18 anni, non era però uno di quei saloni severi di Parigi, in cui si osserva il culto delle tradizioni, e la religione dell’etichetta. La fredda cortesia, la fedeltà assoluta ai principii del governo, un disprezzo profondo delle teorie e dei teoretici, un odio grande alla ideologia, tali erano gli elementi della vita interna e pubblica professati dal sig. de Villefort.
Egli non era solamente un magistrato, era quasi un diplomatico. Le sue relazioni colla vecchia corte, di cui parlava sempre con dignità e rispetto, lo facevano rispettare dalla nuova; sapeva tante cose, che non solo era sempre blandito ma spesso ancora consultato; egli abitava una fortezza inespugnabile. Questa fortezza era la sua carica di procuratore del re, di cui si avvaleva meravigliosamente, e che avrebbe lasciata soltanto per esser fatto deputato, e per cambiare così la neutralità in opposizione.
In generale faceva o rendeva raramente visite, sua moglie le faceva in sua vece, cosa accettata in questa società, ove si teneva conto delle gravi e numerose occupazioni del magistrato, ciò che in realtà non era che un calcolo d’orgoglio, una quint’essenza d’aristocrazia, l’applicazione infine di quest’assioma: fa mostra di stimarti e sarai stimato, assioma le mille volte più utile nella nostra società di quello dei greci: conosci te da te stesso, sostituito ai nostri giorni dall’arte meno difficile e più vantaggiosa del conoscere gli altri. Pei suoi amici Villefort era un possente protettore; pei suoi nemici un avversario sordo, ma accanito; per gl’indifferenti la statua della legge fatta uomo: aspetto altero, fisonomia impassibile, sguardo fosco ed appannato, o insolentemente penetrante e scrutatore; tal era l’uomo di cui quattro rivoluzioni, abilmente ammassate l’una sull’altra, avevano da prima costruito, poscia cementato il piedistallo.
Il signor de Villefort aveva la riputazione d’essere l’uomo meno curioso e meno allegro della Francia. Egli dava un ballo tutti gli anni, ma non vi compariva che per un quarto d’ora, cioè 45 minuti di meno che non fa il re ai suoi; egli non si vedeva mai nè ai teatri, nè nei luoghi pubblici; qualche volta, ma raramente, faceva una partita di Whist, ma allora avevasi cura di scegliergli giuocatori degni di lui: qualche ambasciatore, qualche primo presidente o infine qualche duchessa primogenita.
Ecco qual era l’uomo la cui carrozza si era fermata davanti alla porta del conte di Monte-Cristo. Il cameriere annunziò il sig. de Villefort, al momento in cui il conte, chinato sopra una gran tavola, seguiva sur una carta geografica, un itinerario da Pietroburgo alla China.
Il procuratore del re entrò con quello stesso passo grave e misurato, con cui era solito andare al tribunale; era lo stesso uomo, che noi abbiamo veduto sostituto a Marsiglia. La natura, consentanea ai suoi principi, nulla aveva cambiato in costui nel corso che aveva dovuto seguire. Di snello egli era divenuto magro, di pallido giallo, gli occhi infossati erano [260] cavi, gli occhiali legati in oro appoggiati sull’orbita, sembravano ora far parte del viso; eccettuata la cravatta bianca tutto il rimanente del suo vestire era completamente nero; e questo color funebre non era interrotto che dalla striscia della fettuccia rossa che si mostrava impercettibilmente dall’occhiello del suo abito, e che sembrava una linea di sangue tirata col pennello. Per quanto Monte-Cristo fosse padrone di sè, esaminò con una visibile curiosità, rendendogli il saluto, il magistrato che, diffidente per abitudine, e poco credulo soprattutto alle maraviglie sociali, era più disposto di vedere nel nobile straniero, chiamato Monte-Cristo, un cavaliere d’industria che tentasse un nuovo teatro, o un malfattore in istato di rottura di bando, di quello che un principe dello stato romano, od un sultano delle Mille ed una notte.
— Signore, disse Villefort, con quel tuono lamentevole che assumono i magistrati nei loro periodi oratori, e di cui non vogliono o non possono disfarsi nella conversazione; signore, il servigio segnalato che ieri avete reso a mia moglie ed a mio figlio mi fanno un dovere di ringraziarvi. Vengo dunque a compiere questo dovere, e ad esprimervi tutta la mia riconoscenza. — E nel pronunciare queste parole, l’occhio severo del magistrato nulla aveva perduto della sua abituale arroganza. Queste parole che aveva dette, le aveva articolate colla voce da procurator generale, con quella rigidità inflessibile di collo e di spalle, che faceva dire ai suoi adulatori, come noi lo ripetiamo, ch’egli era la statua vivente della legge.
— Signore, disse il conte a sua volta con una freddezza di gelo, io sono molto fortunato di aver potuto conservare un figlio a sua madre, perchè si dice che il sentimento di maternità sia il più possente com’è il più santo di tutti, e questa fortuna che mi sono procurata vi dispensava, signore, dal compiere un dovere di cui la esecuzione certamente m’onora, poichè so che il signor de Villefort non prodiga il favore che mi fa, ma che, per quanto ciò sia prezioso non ostante non vale per me la interna soddisfazione.
Villefort meravigliato di questa uscita cui non si aspettava, fremè come un soldato che sente il colpo che gli viene dato, ad onta dell’armatura di cui è coperto, ed una piega sdegnosa del suo labbro, indicò che da bel principio egli non riteneva il conte di Monte-Cristo per un gentiluomo bene educato. Girò gli occhi intorno a sè, come per riattaccare su qualche cosa la conversazione che era già caduta e che sembrava essersi infranta cadendo. Vide la carta che studiava Monte-Cristo quando egli entrò, e riprese:
— Vi occupate di geografia, signore? Questo è un ricco studio, per voi particolarmente, che, a quanto si assicura, avete già veduti tanti paesi quanti ne sono incisi su quella carta.
— Sì, signore, rispose il conte; io ho voluto fare sulla specie umana presa in massa ciò che voi fate ogni giorno sulle eccezioni, vale a dire uno studio fisiologico. Ho pensato che mi sarebbe più facile discendere dal tutto al particolare, che dal particolare salire al tutto. È un assioma algebrico che vuole che si proceda dal conosciuto allo sconosciuto e non dallo sconosciuto al conosciuto... Ma sedetevi dunque, io ve ne supplico. — E Monte-Cristo indicò colla mano al procuratore del Re una sedia, che questi dovette inoltrare da sè stesso, nel mentre ch’egli non ebbe che quella di lasciarsi ricadere sulla stessa, su cui era inginocchiato quando entrò il procuratore del Re; in questo modo il conte si ritrovò per metà voltato verso il suo visitatore avendo le spalle alla finestra ed il gomito appoggiato alla carta geografica che pel momento formava il soggetto della conversazione, la quale prendeva, come era accaduto da Morcerf e da Danglars, una piega del tutto analoga se non alla situazione, almeno al personaggio. — Ah! voi filosofate, riprese Villefort dopo un momento di silenzio, durante il quale, come un atleta che incontra un forte avversario, aveva riunite le sue forze. Ebbene! signore, parola d’onore, se come voi non avessi nulla da fare, cercherei un’occupazione men trista.
— È vero, signore, rispose Monte-Cristo, e l’uomo è un laido bruco se si osserva col microscopio solare; ma voi avete detto, che io non ho niente da fare. Vediamo, credereste per caso di aver voi qualche cosa da fare? o, per parlare più chiaramente, signore, credete che ciò che fate possa chiamarsi qualche cosa? — Lo stupore di Villefort raddoppiò a questo secondo colpo così brutalmente vibrato dal suo strano avversario; era gran tempo che il magistrato non si era sentito dire un paradosso di questa forza, o piuttosto, per parlare più rettamente, era la prima volta che lo sentiva.
Il procuratore del re si mise all’opera per rispondere.
— Signore, diss’egli, voi siete straniero, [261] e, lo dite voi stesso, io credo, una parte della vostra vita l’avete passata nei paesi orientali; non sapete dunque come la giustizia umana, speditiva in quelle contrade, ha presso noi un andamento prudente e misurato?
— Sia, signore, sia, è il piede zoppo degli antichi. So tutto questo, perchè è particolarmente della giustizia di tutti i paesi che mi sono occupato, è la procedura criminale di tutte le nazioni che io ho paragonata colla giustizia naturale; e debbo dirlo, signore, è ancora la legge dei popoli primitivi, la legge del taglione che ho ritrovata la più conforme al bisogno e la più speditiva.
— Se questa legge fosse adottata semplificherebbe molto i nostri codici, ed allora pel colpo che ne riceverebbero i nostri magistrati, come dicevate or ora, non avrebbero più gran cosa da fare.
— Ciò accadrà forse nell’avvenire, disse Monte-Cristo; sapete che le invenzioni umane progrediscono dal composto al semplice, e che il semplice è sempre la perfezione.
— Mentre si aspetta questo avvenire però, disse il magistrato, vi sono i nostri codici coi loro articoli contraddittorii tolti dai gallici costumi, dalle leggi romane, e dagli usi franchi; ora la conoscenza di tutte queste leggi, ne converrete, non si acquista che con lunghi lavori ed abbisogna un lungo studio per acquistare tale conoscenza, ed una grande possanza di testa perchè non si abbia a dimenticare, una volta acquistata.
— Io sono del vostro parere, signore, ma tutto ciò che sapete in riguardo a questo codice francese, lo so io pure, ma non solamente riguardo a questo codice, ma a quello di tutte le nazioni: le leggi indiane, turche, giapponesi mi sono tanto famigliari quanto le leggi francesi; aveva dunque ragione di dire che relativamente (perchè tutto è relativo) a tutto ciò che ho fatto io, voi avete fatto ben poco, e che relativamente a quanto ho imparato io, voi avete ben molto da imparare.
— Ma con quale scopo avete voi appreso tutto ciò? riprese Villefort meravigliato.
Monte-Cristo sorrise: — Bene, signore, diss’egli; io vedo che ad onta della reputazione per la quale si ritiene un uomo superiore agli altri, voi vedete ogni cosa sotto il punto di vista materiale e volgare della società, cominciando dall’uomo e terminando all’uomo, cioè sotto il punto di vista più ristretto, più circoscritto che sia stato permesso all’umana intelligenza d’abbracciare.
— Spiegatevi, disse Villefort sempre più maravigliato, non vi capisco... molto bene.
— Dico, signore, che cogli occhi fissi sulla organizzazione sociale delle nazioni, voi non vedete che le molle della macchina, e non conoscete davanti a voi, e intorno a voi che i titolari dei posti, i cui diplomi sono stati firmati dai ministri o dal re, e che gli uomini che Iddio ha messo al di sopra dei titolati, dei ministri, e dei re, dando loro una missione da compiere e non un posto da occupare, io dico, che questi sfuggono alla vostra corta vista. Ciò è proprio dell’umana debolezza, e degli organi deboli ed incompleti. Tobia prendeva l’angiolo che doveva rendergli la vista per un giovine comune; le nazioni prendevano Attila, che doveva annientarle, per un conquistatore come tutti gli altri, e fu d’uopo che entrambi svelassero la loro missione celeste perchè gli uomini la conoscessero. Abbisognò che uno dicesse «io sono l’angelo del Signore» e l’altro «io sono il martello di Dio,» perchè la missione divina d’entrambi fosse rivelata.
— Allora, disse Villefort con istupore sempre crescente, e credendo di parlare ad un pazzo o ad un ispirato, voi vi considerate come uno di questi esseri straordinari che avete nominato.
— E perchè no? disse freddamente Monte-Cristo.
— Perdonatemi, signore, riprese Villefort sbalordito, ma mi scuserete se, presentandomi a voi, non sapeva di presentarmi ad un uomo, il cui sapere ed il cui spirito sorpassavano di tanto il sapere e lo spirito ordinario ed abituale degli uomini. Non è usanza, fra noi infelici corrotti dall’incivilimento, che i gentiluomini possessori come voi di un’immensa fortuna, almeno a ciò che mi si assicura, notate bene che io non interrogo, ma ripeto soltanto ciò che ho inteso, non è usanza fra noi, diceva, che questi privilegiati dalle ricchezze perdano il loro tempo in ispeculazioni sociali, in astrazioni filosofiche, fatte tutt’al più per consolare quelli che la sorte ha diseredati dei beni della terra.
— Eh! signore, riprese il conte, siete voi dunque giunto al posto eminente che occupate senza aver mai fatta, o incontrata qualche eccezione? e non esercitate mai il vostro sguardo, che pure avrebbe bisogno di molta finezza e sicurezza, ad indovinare con un sol colpo chi è caduto [262] sotto di questo sguardo? Un magistrato non dovrebb’egli essere, non il migliore applicatore della legge, non il più furbo interprete delle oscurità della cabala, ma uno specchio d’acciaio per provare i cuori, una pietra di paragone per assaggiare l’oro che in ciascun’anima si trova sempre misto a più o meno lega?
— Signore, disse Villefort, voi mi confondete, non ho mai inteso parlare come fate voi.
— Egli è perchè siete sempre rimasto racchiuso fra il cerchio delle condizioni generali, perchè non avete mai osato innalzarvi con un batter d’ali nelle sfere superiori che sono popolate d’esseri invisibili ed eccezionali.
— Ammettete dunque, signore, che vi sieno queste sfere, e che gli esseri eccezionali ed invisibili si mischino a noi?
— E perchè no? vedete voi forse l’aria che respirate, e senza la quale non potreste vivere?
— Allora non vediamo questi esseri di cui parlate?
— Voi li potete vedere ogni qual volta quegli esseri si materializzano; voi li toccate allora, li urtate, parlate loro, essi vi rispondono. — Ah! disse Villefort sorridendo, vi confesso che vorrei essere avvisato quando uno di questi esseri si ritroverà meco in contatto. — Voi siete stato servito a seconda del vostro desiderio, signore; poichè testè siete stato avvisato, ed ora pure vi avviso.
— Così, voi stesso...
— Io sono uno di questi esseri eccezionali, sì, signore, io lo credo; sino ad oggi nessun uomo si è ritrovato in una posizione simile alla mia. I regni dei re sono circoscritti, sia dalle montagne, sia dai fiumi, sia da un cambiamento di costumi o di favella. Il mio regno è grande come il mondo, perchè non sono nè italiano, nè francese, nè indiano, nè americano, nè spagnuolo: io sono cosmopolita. Nessuno può dire di avermi veduto nascere, Dio solo sa quale terra mi vedrà morire. Io adotto tutti i costumi, io parlo tutte le lingue; voi mi credete francese, non è vero, perchè parlo il francese colla stessa facilità e purezza di voi? Ebbene! Alì, il mio moro, mi crede Arabo; Bertuccio, il mio intendente, mi crede Romano; Haydée, la mia schiava, mi crede Greco. Dunque capirete, che non essendo di alcun paese, non domandando protezione ad alcun governo, non riconoscendo alcun uomo per mio fratello, non un solo scrupolo che arresta i potenti, non un solo ostacolo che paralizza i deboli, può nè arrestarmi nè paralizzarmi. Non ho che due avversarii, non dirò due vincitori, perchè li sottometto colla persistenza; la distanza ed il tempo. Il terzo, ed è il più terribile, sta nella mia condizione di mortale. Ciò solo può fermarmi nella strada che percorro, e prima che abbia conseguito lo scopo a cui miro; tutto il resto, l’ho calcolato. Ciò che gli uomini chiamano capricci della fortuna, vale a dire la ruina, i cambiamenti, le eventualità, le ho tutte prevedute, e se qualcuna può colpirmi, nessuna può rovesciarmi. A meno che non muoia, sarò sempre ciò che sono, ecco perchè vi dico cose che voi non avete mai intese, neppure dalla bocca dei re, perchè i re hanno bisogno di voi, e gli altri uomini hanno paura di voi. Chi è quegli che non supponga, in una società ordinata tanto ridicolmente quanto la nostra: «forse un giorno posso aver che fare col procuratore del re»?
— Ma voi stesso potete dir questo, perchè, dal momento che abitate la Francia, siete naturalmente sottoposto alle leggi francesi.
— Lo so, signore, rispose Monte-Cristo, ma quando devo andare in un paese, comincio dallo studiare, con mezzi che mi sono particolari, tutti gli uomini dai quali posso avere qualche cosa da sperare o da temere, e giungo a conoscerli molto bene, forse meglio ancora di quello che non si conoscono da sè stessi. Ciò porta ad un resultato, che, il procuratore del re, qualunque egli fosse, con cui avessi da fare sarebbe certissimamente più impacciato di me.
— Ciò vuol dire, riprese con esitanza Villefort, che la natura umana è debole, ed ogni uomo, secondo voi, ha commesso qualche... sbaglio. — Sbaglio... o delitto, rispose negligentemente Monte-Cristo. — E che voi solo fra gli uomini, che non riconosceste per fratelli, come avete detto voi stesso, riprese Villefort con voce leggermente alterata, e che voi solo siete perfetto.
— Non perfetto, rispose il conte, impenetrabile, ecco tutto. Ma tronchiamo quest’argomento, signore; se la conversazione vi dispiace, molto più che voi non vi trovate maggiormente minacciato dalla mia doppia vista, di quello che io lo sia dalla vostra giustizia.
— No! signore, disse vivamente Villefort, che senza dubbio temeva comparisse aver abbandonato il terreno; no! colla vostra [263] brillante e quasi sublime conversazione mi avete innalzato al di sopra dei livelli ordinarii; noi non parliamo più, dissertiamo. Ora, voi sapete come i professori in cattedra, ed i filosofi nelle loro dispute, si dicono qualche volta delle crudeli verità. Fingiamo adunque di fare una disputa sociale e filosofica, vi dirò dunque, per quanto vi sembri duro: «Caro fratello voi sacrificate all’orgoglio; voi siete al di sopra degli altri, ma al di sopra di voi sta Dio!»
— Al di sopra di tutti, signore, rispose Monte-Cristo con un accento così profondo che Villefort ne fremette involontariamente. Ho il mio orgoglio per gli uomini, serpenti sempre pronti a drizzarsi contro colui che li sorpassa di fronte, senza schiacciarli col piede; ma lo depongo davanti a Dio, che mi ha tolto dal niente per farmi quel che sono.
— Allora, sig. conte, vi ammiro, disse Villefort che per la prima volta, in questo strano dialogo, impiegava questa formula aristocratica collo straniero, che fino allora aveva soltanto chiamato signore. Sì, ve lo dico, se siete realmente forte, superiore, sano o impenetrabile, ciò che torna la stessa cosa, siate superbo, questa è la legge della dominazione. Ma voi pertanto avrete una qualche ambizione?
— Ne ho avuta una, signore.
— E quale?
— Ho ambito di essere fatto strumento della Provvidenza.
Villefort guardò Monte-Cristo con somma meraviglia.
— Signor conte, diss’egli, non avete voi parenti?
— No, signore, son solo in questo mondo.
— Tanto peggio!
— Perchè? domandò Monte-Cristo. — Perchè avreste potuto vedere uno spettacolo atto ad infrangere il vostro orgoglio. Non temete che la morte, diceste?
— Non dico di temerla; dico ch’ella sola può arrestarmi.
— E la vecchiaia?
— La mia missione sarà compita prima che sia vecchio.
— E la pazzia?
— Poco ha mancato che non diventassi pazzo, e voi sapete l’assioma, non due volte nello stesso, non bis in idem: è un assioma criminale, e perciò della vostra sfera.
— Signore, vi è ancora un’altra cosa da temersi oltre la morte, la vecchiaia, o la pazzia; vi è, per esempio, l’apoplessia, questo colpo di fulmine che vi colpisce senza distruggervi, ma dopo il quale però tutto è finito; siete sempre voi, e ciò non ostante non siete più voi. Venite, se vi piace, a continuare questa conversazione, venite in casa mia, sig. conte, un giorno che abbiate volontà d’incontrarvi in un avversario capace di comprendervi ed avido di confutarvi, e vi mostrerò mio padre, il sig. Noirtier de Villefort, uno dei più focosi giacobini della rivoluzione francese, vale a dire la più brillante audacia messa al servizio della più vigorosa organizzazione; un uomo che, come voi, non aveva forse veduto tutti i regni della terra, ma aveva aiutato a rovesciarne uno dei più forti; un uomo finalmente che, come voi, pretendeva di essere un inviato da Dio, dall’Essere supremo, dalla Provvidenza. Ebbene! signore, la rottura di un vaso sanguigno in un lobo del cervello ha rovinato tutto questo; non in un giorno, non in un’ora, ma in un secondo. Il giorno prima il sig. Noirtier, antico giacobino, antico senatore, antico carbonaro, rideva della ghigliottina, rideva del cannone, rideva del pugnale; il sig. Noirtier che giuocava colle rivoluzioni, egli per cui la Francia non era che una vasta scacchiera della quale pedine, torri, cavalli e regina dovevano sacrificarsi perchè il re ricevesse scacco-matto, il sig. Noirtier tanto temuto e temibile, era il giorno dopo quel povero Noirtier, vecchio immobile, abbandonato alla volontà dell’essere più debole della casa, vale a dire della sua nipote Valentina; infine un cadavere muto ed agghiacciato, che vive senza gioie, e spero, senza soffrire.
— Ahimè! signore, questo spettacolo non è nuovo nè ai miei occhi, nè al mio pensiero, disse Monte-Cristo; sono alcun poco medico, e qui rammenterò che la Provvidenza si appalesa nei fatti che ci cadono sotto gli occhi, e non potete negarlo. Cento autori, dopo Socrate, dopo Seneca, hanno fatto in prosa ed in versi il ravvicinamento che avete fatto voi; ciò non pertanto capisco che le sofferenze di un padre possono operare grandi cangiamenti nello spirito del figlio; verrò, signore, poichè mi v’impegnate, verrò a contemplare, a profitto della mia umiltà, questo tristo spettacolo, che deve molto contristare la vostra casa.
— Questo certamente sarebbe, se il cielo non mi avesse dato un largo compenso. In faccia del vecchio che discende trascinandosi nella tomba, sorgono due figli [264] che entrano nella vita; Valentina figlia della mia prima moglie Renata di Saint-Méran, ed Edoardo, quel fanciullo cui avete salvata la vita.
— E che concludete da questo confronto, signore?
— Concludo, rispose Villefort, che mio padre, travolto dalle passioni, ha commesso qualcuno di quegli errori che sfuggono all’umana giustizia, ma che si attirano la giustizia di Dio!.... e che Dio non volendo punire che un solo, non ha percosso che lui solo.
Monte-Cristo col sorriso sulle labbra, mandò nel profondo del cuore un ruggito, che avrebbe fatto fuggire Villefort, se lo avesse inteso. — Addio, signore, riprese il magistrato che si era alzato da qualche tempo e parlava in piedi; io parto portando meco una memoria di voi piena di stima e che, spero, vi potrà essere più aggradita quando mi conoscerete meglio; poichè non sono un uomo leggero quanto può credersi. D’altra parte vi siete formato della sig.ª de Villefort un’amica eterna. — Il conte salutò, e si contentò di accompagnare Villefort soltanto fino alla porta del gabinetto, questi raggiunse la carrozza, preceduto da due lacchè, che, dietro un segno del loro padrone, si affrettarono di fargli aprire. Indi quando il procuratore del re fu disparso: — Andiamo, disse Monte-Cristo, cavando a stento un sospiro dal petto oppresso; andiamo, abbiamo preso abbastanza di questo veleno, ora che il cuore ne è pieno, andiamo a cercarne l’antidoto! — E battè un colpo sul campanello sonoro. — Salgo dalla signora, diss’egli ad Alì, che fra mezz’ora la carrozza sia pronta!