Non catafratto un popolo
Dalla battaglia uscir!
(Berchet).
L’alba del 15 maggio trovò i Mille disposti a battaglia sulle alture di Vita, piccolo villaggio di quel nome, e dopo poco il nemico usciva in colonna da Calatafimi alla nostra direzione.
I colli di Vita sono fronteggiati verso tramontana dalle alture chiamate Pianto dei Romani; distanti un miglio circa dalla città di Calatafimi, ove esiste la tradizione: esser stati i Romani disfatti in quel sito dai Siciliani, collegati alla potente popolazione di Segeste, di cui si scoprono le ruine non lontane al settentrione.
Dalla parte di Calatafimi le alture suddette hanno un dolce declivio: il nemico le ascese facilmente e ne coronò i vertici tutti. Così rimase colla fronte appoggiata alla parte scoscesa che guardava verso i Mille.
Occupando noi le alture opposte a mezzogiorno era forse più conveniente di aspettarlo che iniziare l’attacco. E veramente spiegammo i Carabinieri Genovesi, in catena, sull’ultimo ciglione della posizione nostra verso il nemico.
Le compagnie restanti dei Mille scaglionate indietro ed in colonna, e la nostra povera ma valorosa artiglieria sullo stradale alla nostra sinistra.
Il nemico credendo d’aver a fare forse colle sole squadre, essendo i Mille al coperto, inviò baldanzoso alcune catene di tiratori con adeguati sostegni e due pezzi di montagna.
Giunto a tiro, esso cominciò a far fuoco, e continuò ad avanzare su di noi. L’ordine tra i Mille era di non sparare ed aspettare il nemico vicino; quantunque già i prodi Liguri avessero un morto e varii feriti.
Come foriero di vittoria, uno squillo di tromba nostra suonò una sveglia americana, e l’avanguardia nemica come per incanto fermossi e forse i suoi capi si pentirono d’aver avanzato tanto.—I Borbonici capirono di non aver a che fare colle sole squadre, e le loro catene cominciarono un movimento retrogrado.
I Mille toccarono allora la carica—i Carabinieri Genovesi in testa e con loro un’eletta schiera di giovani non appartenenti alle compagnie ed impazienti di menar le mani.
L’intenzione della carica era di fugar l’avanguardia nemica e d’impossessarsi dei pezzi—ciocchè fu eseguito con un impeto degno dei campioni della libertà italiana—non però di attaccare di fronte le formidabili posizioni occupate dal nemico con molte forze.
Però chi fermava più quei focosi e prodi volontari, una volta lanciati sul nemico?—Invano le trombe toccarono: Alto! I nostri o non le udirono o fecero i sordi, e portarono a baionettate l’avanguardia nemica sino a mischiarla col grosso delle forze Borboniche che coronavano le alture.
Non v’era tempo da perdere, o perduto sarebbe stato quel pugno di prodi—e subito dunque si toccò a carica generale, e l’intiero corpo dei Mille accompagnato da alcuni coraggiosi delle squadre, mosse a passo celere alla riscossa.
La parte più pericolosa dello spazio da percorrersi era nella vallata che ci divideva dal nemico. Ivi pioveva una grandine di moschetterie e mitraglie che ci ferirono un bel po’ di gente.
Giunti poi a piede del Monte Romano, si era quasi al coperto delle offese, ed in quel punto i Mille, alquanto diminuiti di numero, si aggrupparono alla loro avanguardia.—La situazione era suprema! Il nemico più forte di noi in numero, era lì sulla testa nostra in posizioni fortissime!—Eppure bisognava vincere!—E con tale risoluzione si cominciò ad ascendere la prima banchina.
Non ricordo il numero, ma certo eran varie le banchine che ci dividevano dai Borbonici.
Ed ogni volta che si avanzava dopo aver preso fiato, da una banchina all’altra, era una grandinata di palle.—E noi!—Mi fa ribrezzo il ricordarlo! i catenacci che ci aveva regalati il Governo Sardo, ci negavano fuoco, e si scorgeva il dispetto sull’eroiche fisonomie di quei giovani, che spero saran presi ad esempio dalla generazione che segue, destinata a compiere l’opera santa.
Qui pure fu grande il servizio reso dai figli della Superba che armati delle loro buone carabine, sostenevano l’onore delle armi.—Tutti poi corrispondendo all’intemerata risoluzione di andar avanti, finirono coll’affidarsi al freddo ferro delle loro baionette.
Calatafimi! Io, avanzo di tante pugne, se all’ultimo mio respiro—i miei amici vedranmi sorridere l’ultimo sorriso d’orgoglio—esso sarà ricordando—Tu fosti il combattimento più glorioso di popolo!
I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti d’una nazione oppressa, assaltavano, col sangue freddo dei Trecento di Sparta o di Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione—e formidabile—ed i soldati della tirannide brillanti di pistagne e spalline fuggivano davanti a loro!
Come potrò io scordare quel gruppo di giovani, che tementi di vedermi ferito, m’attorniavano, facendomi del loro prezioso corpo un baluardo impenetrabile!
Se io scrivo commosso a tali memorie, ne ho ben donde! E dover mio non è forse di ricordar, fra i molti, almeno i nomi di quei valorosi caduti: Montanari, Schiaffino, Poggi, Elia?