Dieu fit la liberté, l’homme a fait l’esclavage.
(Chenier).
Il 4 aprile era trascorso, e la tirannide avea trovato il mezzo di far delle vittime sempre grate a Lei, perchè con ciò crede di frenare i popoli e mantenerli nel timore. Ma di quelle vittime che sono i martiri d’una causa santa, i coraggiosi raccolgono il sangue, vi tingono le fasce delle sorgenti generazioni, ed a loro ne consacrano la memoria—e... la vendetta...—E Dio alle volte paga tardi, ma paga giusto.
Gettando nella bilancia lo stato selvaggio dell’uomo da una parte e l’incivilimento dall’altra, dovrebbe certamente risultare per il bene dell’umanità il peso maggiore nel piatto civile. Eppure qualche volta l’uomo angosciato da reggitori perversi—occupati solo a tiranneggiarlo ed impoverirlo—si trova costretto a desiare la vita primitiva delle foreste, ove mangiava frutte di selva, è vero, ma non avea la schifosa presenza del prete, del dottrinario, del birro, di quella caterva d’arpie che col nome di moderati, cointeressati ministri, pubbliche sicurezze, ecc., lo spolpano, lo corrompono e lo prostituiscono allo straniero.
Tutta gente che vogliono lautamente vivere alle spalle sue accusandolo di rivoluzionario quando si lamenta di essere stracarico, e quando vorrebbe respirare un tantino, scaraventando tutta l’odiosa turba reggitrice all’inferno!
I Governanti sono generalmente cattivi, perchè d’origine pessima e per lo più ladra. Essi, con poche eccezioni, hanno le radici del loro albero genealogico nel letamaio della violenza e del delitto.
Al loro sorgere—tempi feudali—essi, dopo d’aver cacciato l’aquila dall’alpestre nido, l’occupavano—e di là piombavano sulle inermi popolazioni, rubando quanto a loro conveniva: messe, frutta, donne e sostanze d’ogni specie per provvederne i loro covili che chiamavan castelli.
Ai tempi nostri (1870) non meno feudali di quelli, più potenti i signori, più numerosi i birri, e più servili e prostituiti i satelliti, benchè i bravi, si chiamino Pubbliche Sicurezze—e i signori, Re o Imperatore—credo si stia in peggiori condizioni, essendo gli ultimi più potenti dei primi—e con una sequela di legali cortigiani, sempre pronti a sancire colla maggioranza dei loro voti ogni più turpe mercato delle genti o delle loro sostanze.
Al Governo della cosa pubblica, poi, giacchè i padroni regnano od imperano e non governano, vi si collocano sempre coloro che ne son men degni od i più atti a sgovernare, non volendo, i despoti, gente onesta a tali offici, ma disonesti com’essi, striscianti e corruttori parassiti coll’abilità della volpe o del coccodrillo.
Ciò non succede soltanto nelle monarchie dispotiche, più o meno mascherate da liberali—ma spesso anche nelle repubbliche, ove gl’intriganti s’innalzano sovente ai primi posti dello Stato, ingannando tutto il mondo con ipocrisie e dissimulazioni; mentre uomini virtuosi e capaci, perchè modesti, rimangono confusi nella folla a detrimento del bene pubblico; e sovente pure nelle immense Società popolane succede lo stesso inconveniente; d’archimandriti immeritevoli.—I popoli son così facili ad essere ingannati!
Il principio repubblicano ha certamente fatto dei progressi in questi ultimi tempi, e non si deve disperare di vederlo finalmente prevalere. Ma ciò che succede nelle piccole società succede pure dovunque nella grande società umana, ove similmente l’intrigo e le esagerazioni fanno inciampare ad ogni passo cotesto bello andamento del progresso umano.
Parlate di Repubblica—Governo normale e naturale delle nazioni—e propagatela con successo—vi sortono subito i socialisti, i comunisti, gli agraristi, ecc., che spaventano il mondo e ritardano i risultati del vostro lavoro.
Parlate del vero e della ragione—non difficili a seminarsi nelle masse a dispetto della tirannide e del negromantismo—e compariscono gli atei, i materialisti, a menomare le vittorie del buon senso.
Aggiungete a tutto ciò le gloriuzze di certi individui che vogliono essere chiamati grandi a qualunque costo—e vogliono far parlar di loro i giornali, fosse anche per un incendio del tempio d’Efeso alla Erostrato.
Tali considerazioni mi conducono alla conseguenza d’esser possibile nel mondo, non so per quanto tempo ancora, certi governi mostruosi, come quello del Borbone—che la tempesta rivoluzionaria del 60 rovesciò nella polve—e la peste pretina—compimento delle miserie e delle degradazioni umane.
Le prigioni del despota eran zeppe a Palermo ed i fatti di Maniscalco e del 4 aprile le avean colme—giacchè la prigionia serve alla tirannide per reprimere non solo le aspirazioni dei popoli ma per spaventarli.
Lascio pensare in che orgasmo di diffidenza e di paura si trovarono le autorità borboniche nella capitale della Sicilia—allo sbarco dei Mille a Marsala.—Se vi si fosse potuto imprigionare i dugentomila abitanti, sono certo, i Borboni non vi avrebbero ripugnato.
E dopo Calatafimi e la marcia dei filibustieri sulla Metropoli? Dio me ne liberi! In tali frangenti entrarono in Palermo Lina e Marzia e Lia—la graziosa contadina dell’Agro Palermitano—le tre vestite a foggia del paese, e favorite dalla prima oscurità d’una notte di maggio.
Ho già detto: la terra del Vespro non è terra da delatori, ed era probabile che tre ragazze del paese, appartenenti al ceto rurale, potessero entrare senza eccitar sospetti nella popolosa capitale.
Mentre però passavan le tre sotto il primo riverbero di Piazza reale, due occhi somiglianti a quei del serpente[13] si fissarono sul bel volto di Marzia, e vi cagionarono l’effetto della scintilla elettrica—ma malefica, ma funesta come quella vibrata dalla cupa, nera partoriente delle tempeste sulle dominanti torri del feudo o della bottega pretina.
La coraggiosa fanciulla—che abbiam veduto alla testa degli eroi di Calatafimi in quella solenne pugna—fu padroneggiata da tal brivido in tutte le membra, le luci le si ottenebrarono in tal modo, che non sentiva più il terreno sotto i piedi, traballò come in uno stato d’ubbriachezza, e senza il sostegno di Lina—a cui s’appoggiò subito—si sarebbe rovesciata sul macigno del marciapiede su cui transitavano.
«Celeste dote è negli umani—la corrispondenza d’amorosi affetti», dice Foscolo, che segue le anime elette, sacerdotesse dell’amore celeste sino oltre tomba.
L’occhiata d’un perverso che vi fa l’effetto di una punta di stile, sarà dunque l’antitesi di quella dote e la potremo chiamar: dote infernale.
E tale fu veramente l’effetto di quell’occhio sulla bellissima fanciulla romana.
Riconfortata alquanto da quel primo scompiglio dell’esser suo—e tornata alla virile sua natura, Marzia era lì per consigliar l’amica di tornare verso il campo—ma voltandosi e scorgendo lo stesso individuo con altri, senza dubbio della stessa risma, che le seguivano, disse a Lina, senza rispondere al «cosa hai?» dell’amica, «sollecitiamo».
Scivolavano quindi le tre giovani sul selciato del marciapiede di Piazza reale colla velocità e leggerezza della Silfide—ma nella popolosa Toledo a quell’ora facea mestieri rompere la folla per poter proseguire celeremente, e la folla trovavasi sempre più densa a misura che s’inoltravano verso il centro della città.
Tutto ciò dava vantaggio ai persecutori, sulle giovani perseguite, che di più inciampavano nel non indifferente ostacolo che incontrano le belle donne nelle città grandi, quando non accompagnate da uomini, cioè: lo esser bersaglio alle occhiatine, ai motteggi, e sovente alla persecuzione de’ cicisbei.
Comunque, le tre compagne non eran ragazze da lasciarsi spaventare per poco, e la stessa Marzia sul di cui volto era improntata abituale malinconia—e che forse s’era aumentata col sinistro incontro—Marzia, dico, avea ripreso quel fiero contegno cui dava diritto l’indomito suo coraggio.
Passati i Quattro canti e continuando per via Toledo verso il mare, esse giunsero finalmente ove quella via principale forma una piazzetta regolare, ed ove verso levante trovasi l’ingresso del vicolo che conduce all’Albergo d’Italia, e nell’entrare nel portone dello stesso, esse s’accorsero che sin lì eran state seguite.
A gente più assuefatta a mene poliziesche delle belle fanciulle, sarebbe forse venuto in mente di non fermarsi in quell’albergo di prim’ordine, oppure giungendovi, fare in modo di uscire subito da un andito posteriore che conduceva alla splendida passeggiata sul mare, e di là cercare una più modesta ed appiattata dimora. A Lia però, che la faceva da guida, non occorsero tali considerazioni, e forse anche qualche motivo particolare la induceva a prender stanza in detto albergo. La noncuranza poi delle nostre eroine per qualunque pericolo coadiuvò la scelta di tale dimora—non sicura certamente per esse in quel tempo di parossismo rivoluzionario da una parte e di paura governativa dall’altra.
Il fatto sta che appena le tre fanciulle avean messo piede nella stanza richiesta ed a loro assegnata dal padrone di casa, questo si presentò ad esse con un commissario di polizia e tre birri dicendo loro: «Signore, io era venuto per chiedere ciò che desideravano per cena; la comparsa però e l’intimazione di questi signori (la seconda parte del discorso fu a voce bassa ed arrugando le labbra), mi duole dirlo, farà inutile la mia richiesta».
Quelle parole aveano un accento di simpatia, e si capisce con quel colpo d’occhio intelligente che distingue i nostri meridionali, il padron di casa avea indovinato che le belle viaggiatrici eran gente di conto—e bastava per ciò gettar uno sguardo sul distinto, nobile e vezzoso volto delle due compagne dei Mille.—La Lia, di bellezza non comune, pure era conosciuta in quella casa.
Anche si capisce l’istantaneo apparir della polizia borbonica in quei giorni di terrore, ove in Palermo si era concentrata quasi tutta quella del Regno, coadiuvata da quanto il gesuitismo avea di più astuto e di più diabolico.
L’uomo dall’occhio sinistro la di cui vista avea sì stranamente e malignamente magnetizzato la nostra Marzia, avea quindi durato poca fatica a raccoglier sgherri sufficienti per la cattura delle fanciulle sospette.
L’Albergo d’Italia attorniato dalla birraglia, quei birri che col commissario aveano invaso la stanza delle donne e tre carrozze già occupate da custodi pronti al portone, furono gli apparecchi idonei per il trasporto delle tre donne a Castellamare, ove le lasceremo per un pezzo, dolenti del mal esito della loro impresa—ed indispettite.
«Cozzo» fu la sola parola che Lia potè articolare al padrone di casa in un momento in cui i poliziotti stavan concertandosi sulle grandi misure da prendere per assicurare la famosa preda.