È un vero portento della natura.
(Autore conosciuto).
Nel campo di Renne, ove i Mille eran sequestrati da piogge dirotte, v’era mestieri di notizie certe sulla situazione di Palermo.—Quell’invitta popolazione fremente, di quel fremito che fa tremar la tirannide corazzata d’acciaio ed assiepata da baionette, era tenuta dopo l’eroico tentativo del 4 aprile nel più assoluto e rigoroso stato d’assedio.
Poche eran le comunicazioni colla campagna, e quelle poche persone a cui era permessa l’uscita dalla città dovevano garantire il Governo che nulla da loro avea da temere di congiure o d’intelligenza coi patrioti di fuori—al solito chiamati briganti.
Ma mal si governa colla tirannide e peggio ancora con popoli che hanno tradizioni come quella dei Vespri—la più terribile delle lezioni data dai popoli ai loro oppressori—e che non trova paragone in nessun tempo ed in nessuna delle storie delle Nazioni.
Italia! terra dei morti—secondo uno di quei grandi che vengono nominati tali, perchè nacquero tra generazioni di piccoli.—Italia, dico, depressa oggi, umiliata—e detto in onor del vero—anche disprezzata—conta dei fatti che nessun popolo della terra uguaglia.
1º Giunio Bruto, condannando a morte i proprii figli perchè creduti implicati in una congiura contro lo Stato.
2º Manlio, dittatore, facendo decapitare in sua presenza il valoroso suo figlio vincitore d’un gigante latino che avea sfidato a pugna singolare i migliori dell’Esercito Romano, perchè avea trasgredito il divieto dittatoriale di non uscire dalle fila. Questi due fatti d’insuperabile disciplina sono forse la chiave di quella severissima disciplina romana che condusse le Legioni su tutto l’orbe conosciuto, e di cui si trovò un saggio sotto le ceneri di Pompei, d’un legionario che coll’arma al piede lasciossi coprire dalle ceneri senza muoversi.
3º E i Vespri? Un popolo che conta i Vespri ne’ suoi annali, può durar poco nel servaggio.—E ricordatelo bene voi che nei tempi presenti (1870) cercate di imbavagliarlo con delle concessioni e delle carezze più o meno scellerate e sempre gesuitiche.—Voi che nascondete le ugne d’acciaio degli antichi signorotti sotto uno straccio di carta che presto, speriamolo, per il decoro dell’Italiana famiglia, vedremo svolazzare nel letamaio delle genti rigenerate.
Lina e Marzia abbandonando la loro assisa maschile, aveano indossato le vestimenta più confacenti alle loro bellissime forme, cioè la sottana ed il farsetto, così graziosamente allacciato dalle vezzose forosette della conca d’oro. Due rossi fazzoletti di seta che per caso si trovarono nel vicino borgo di Misero i cannoni, furono fantasticamente avvolti a quelle teste da modello, nascondendo non totalmente le ricchissime capigliature, giacchè il sesso gentile ama, com’è naturale, di mostrare i tesori che natura profuse sulla creatura prediletta.
Solo i calzari delle due eroine avevano militare, o piuttosto, cacciatrice fisionomia, poichè nel borgo suddetto non si trovarono calzature fatte da donna.
I volontari contemplavano meravigliati le superbe donzelle che sì fiere avean veduto sul campo di battaglia, ora orgogliose d’essere prescelte ad ardua e pericolosa impresa, e poi si guardavan l’un l’altro stupefatti.
Nullo, perdutamente innamorato della Lina—da lui conosciuta nelle natíe ed alpestri valli—supplicava invano il comando dei Mille, di lasciarlo andare in compagnia della bella coppia.
E P... non meno di lui invaghito della Marzia manifestava lo stesso proponimento. Alla vigilia di serii combattimenti però, non si volle privare il corpo di due sì valorosi ufficiali.
Una contadina del borgo anzidetto fu destinata ad accompagnarle come guida.—E così munite di adeguate istruzioni Lina e Marzia s’incamminarono verso la capitale della Sicilia, le di cui altiere torri scorgevansi alla distanza di poche miglia, dominando la superba metropoli dei Vespri ed il littorale Mediterraneo.