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33. — I BRIGANTI.

时间:2021-06-29来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:La dimane Franz si svegli pel primo e appena desto suon. Il tintinnio del campanello risuonava ancora quando Pastrini en
(单词翻译:双击或拖选)
 La dimane Franz si svegliò pel primo e appena desto suonò. Il tintinnio del campanello risuonava ancora quando Pastrini entrò in persona. — Ebbene! disse l’albergatore trionfante, e senza aspettare che Franz lo interrogasse, faceva bene io ieri sera a non prometter niente; voi avete aspettato troppo tardi a risolvervi, e adesso non v’è neppur una carrozza da nolo in Roma, pei tre ultimi giorni, s’intende.
 
— Sì, rispose Franz, vale a dire per quelli in cui essa è assolutamente necessaria. — Che c’è? domandò Alberto entrando: non si trovano carrozze? — Precisamente, mio caro amico, rispose Franz, e voi avete indovinato al primo colpo. — Ebbene! è una gran bella città, questa vostra città eterna!
 
— Cioè, eccellenza, riprese Pastrini, che desiderava mantenere la capitale del mondo cristiano in un certo decoro in faccia ai viaggiatori, non vi sono più carrozze da domenica mattina a martedì sera; ma da oggi a Domenica ne troverete cinquanta, se le volete.
 
— Non è poco, disse Alberto; oggi siamo a giovedì; chi sa di qui a domenica quello che può accadere.
 
— Accadrà l’arrivo di dieci, o dodici mila forestieri, rispose Franz, i quali renderanno la difficoltà sempre più grande.
 
— Amico mio, disse Morcerf, godiamo del presente, e non ci prendiamo cura per l’avvenire.
 
— Almeno, domandò Franz, potremo avere una finestra?
 
— Su che strada? — Sul Corso, per bacco.
 
— Ah sì! una finestra, esclamò Pastrini, impossibilissimo; ne restava una al quinto piano del Palazzo Doria, ed è stata appigionata ad un Principe russo per venti zecchini il giorno.
 
I due giovani si guardarono con aria stupefatta.
 
— Ebbene, mio caro, disse Franz ad Alberto, sapete ciò che torna meglio di fare? di andare a finire il carnevale a Venezia; almeno là, se non troviamo carrozze, ritroveremo gondole. — Oh! in fede mia, gridò Alberto, ho risoluto di vedere il carnevale di Roma, e lo vedrò, fosse ancora sopra una panchetta. — Bravo, gridò Franz, è un’idea magnifica, particolarmente per ispegnere i moccolotti; ci maschereremo da pulcinelli, e faremo un effetto meraviglioso.
 
— Le loro eccellenze desiderano sempre la carrozza fino a domenica? — Per bacco, disse Alberto, credete che noi siamo persone da correre le strade di Roma a piedi come i portieri, e i cursori?
 
— Vado ad eseguire gli ordini delle loro eccellenze, disse Pastrini; le prevengo [156] soltanto che la carrozza costerà sei scudi il giorno.
 
— Ed io, mio caro Pastrini disse Franz, che non sono il milionario nostro vicino, vi prevengo per parte mia che essendo la quarta volta che vengo a Roma, conosco il prezzo delle carrozze per i giorni ordinari, le domeniche, e le feste; vi daremo dodici piastre per oggi, domani, e dopo domani, e voi ci troverete ancora un non piccolo guadagno.
 
— Ma Eccellenza... disse Pastrini tentando di ribellarsi.
 
— Andate, andate mio caro, disse Franz, o vado da me stesso a fare il prezzo dal padrone delle rimesse, che conosco bene; è un mio vecchio amico che mi ha già rubato non poco danaro, e che nella speranza di rubarmene dell’altro accetterà anche per un prezzo minore di quel che io v’offro; perdereste la differenza, e questa sarebbe colpa vostra.
 
— Non vi prendete questo incomodo, eccellenza, disse Pastrini col sorriso dello speculatore di locanda che si confessa vinto, farò il meglio che potrò, e voi sarete contento.
 
— A meraviglia, ecco ciò che si chiama parlare.
 
— Quando volete la carrozza? — Fra un’ora.
 
— Fra un’ora sarà alla porta. — Un’ora dopo effettivamente la carrozza aspettava i due giovani; era un modesto calesse, che attesa la solennità della congiuntura era salito al grado di carrozza da rimessa. Ma qualunque fosse la mediocre apparenza, i due giovani sarebbero stati ben contenti di avere un eguale veicolo per gli ultimi tre giorni del carnevale.
 
— Eccellenza, gridò il servitore di piazza vedendo Franz mettere il naso alla finestra, vuole che faccia avvicinare la carrozza al palazzo?
 
Per quanto Franz fosse abituato all’enfasi italiana, il suo primo movimento fu di guardarsi attorno; ma a lui stesso venivano dirette quelle parole. Franz era l’eccellenza, il calesse era la carrozza, il palazzo era l’albergo di Londra.
 
Tutto il genio di lode della nazione era in queste sole frasi.
 
Franz, ed Alberto discesero, la carrozza si avvicinò al palazzo, le loro eccellenze allungarono le gambe sui posti davanti, e il cicerone saltò nel sedile di dietro.
 
— Dove vogliono andare le loro Eccellenze?
 
— Prima a S. Pietro, e poi al Colosseo, disse Alberto da vero parigino. — Ma egli non sapeva una cosa, cioè che vi vuole un giorno per veder S. Pietro, e un mese per istudiarlo. La giornata fu tutta impiegata nel veder S. Pietro.
 
D’improvviso i due amici si accorsero che il giorno declinava. Franz cavò l’orologio, erano le quattro e mezzo.
 
Ritornarono all’albergo; giunti alla porta, Franz dette ordine al cocchiere di tenersi pronto per le otto, voleva egli far vedere ad Alberto il Colosseo al chiaro di luna, come avevagli fatto vedere S. Pietro in pieno giorno. Allorchè si fa vedere ad un amico una Città che si è già veduta ci si mette quella civetteria che usasi quando s’indica una donna della quale si è stato l’amante. In conseguenza Franz indicò al cocchiere il suo itinerario; doveva uscire dalla porta del popolo, andare intorno le mura esterne della Città, e rientrare dalla porta S. Giovanni. In tal modo il Colosseo comparisce d’improvviso, e senza che il Campidoglio, il Foro, l’Arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina, e la Via-Sacra abbiano servito di gradazione posta sulla strada per rammemorarlo. Si misero a pranzo: Pastrini aveva promesso a’ suoi ospiti un eccellente desinare, gliene dette uno passabile, non v’era nulla a dirvi. Alla fine del pranzo entrò egli stesso; Franz sulle prime credè che fosse venuto per ricevere i loro complimenti, e si apparecchiava a farglieli, allorchè alle prime parole egli lo interruppe. — Eccellenza, diss’egli, sono lusingato della vostra approvazione, ma non fu questo il motivo che mi fe’ salire da voi.
 
— È forse per venirci a dire che avete ritrovato la carrozza? domandò Alberto accendendo il sigaro.
 
— Anche meno, ed anzi V. E. farà bene a non pensarci più. In Roma le cose, o si possono o non si possono. Quando vi si è detto che non si possono, tutto è finito.
 
— A Parigi, è molto più comodo; quando una cosa non si può avere, la si paga il doppio, e si ha sul momento ciò che si domanda.
 
— Sento sempre dire la stessa cosa da tutti i francesi, disse Pastrini punto alcun poco, e non so comprendere come con tante meraviglie che sono a Parigi, i parigini viaggino.
 
— Ma è così, disse Alberto mandando flemmaticamente una fumata al soffitto e rovesciando il capo addietro sopra una [157] poltrona; non vi sono che i pazzi, e gli oziosi come noi che viaggino; la gente di buon senso non lascia la casa della strada di Helder, il baluardo di Gand, e il caffè di Parigi.
 
Non fa mestieri di dire che egli abitava nella strada suddetta, che tutti i giorni faceva la sua passeggiata in tutta eleganza sul baluardo suddetto, e che pranzava tutti i giorni nel solo caffè in cui si può pranzare, e quando ancora si è in buona relazione coi camerieri. Pastrini restò un momento silenzioso; era evidente che meditava sulla risposta che avevagli data Alberto, risposta che senza dubbio non gli pareva molto chiara.
 
— Ma in fine, disse Franz a sua volta, interrompendo le riflessioni geografiche del suo albergatore, voi eravate venuto con un qualche scopo: volete esporci l’oggetto della vostra visita?
 
— Oh! è vero; eccolo: avete ordinato la carrozza per le otto. — Sicuramente. — Avete l’intenzione di visitare il Coliseo! — Cioè il Colosseo. — È la stessa cosa. — Sia.
 
— Avete detto al vostro cocchiere di uscir dalla porta del Popolo, e fare il giro delle mura per rientrare dalla porta S. Giovanni! — Queste sono le mie precise parole.
 
— Ebbene! questo itinerario è impossibile, od almeno molto pericoloso. — Pericoloso! perchè?
 
— A cagione del famoso Luigi Vampa. — Primieramente, mio caro Pastrini, chi è questo famoso Luigi Vampa? domandò Alberto. Egli può essere famosissimo a Roma, ma vi assicuro che è perfettamente sconosciuto a Parigi.
 
— Come! voi non lo conoscete! — Non ho quest’onore.
 
— Ebbene! quest’è un bandito, vicino al quale i Decesari, e i Gasperoni sono una specie di chierichetti. — Attenti! Alberto, gridò Franz, ecco dunque finalmente un brigante! — Vi prevengo, mio caro Pastrini, che io non crederò una parola di tutto ciò che siete per dirci; perciò parlate quanto volete, che io vi ascolto.
 
— V’era una volta... — Ebbene! avanti adunque.
 
Pastrini si volse dalla parte di Franz sembrandogli il più ragionevole dei due giovani. Bisogna rendere giustizia al brav’uomo: egli aveva alloggiati molti francesi, ma non aveva mai ben capite alcune parti di ciò che essi chiamano il loro spirito.
 
— Eccellenza, diss’egli con gravità, indirizzandosi come si disse a Franz, se mi credete un racconta-storie è inutile che vi dica ciò che volevo dirvi: posso però assicurarvi che lo facevo per la premura che ho per le loro eccellenze.
 
— Alberto non vi ha detto che voi siate un racconta-storie, mio caro Pastrini, vi ha detto soltanto che non vi crederà. Ma io vi crederò, state tranquillo: parlate dunque.
 
— Però convenite, eccellenza, che se si mette in dubbio la sincerità delle mie parole...
 
— Mio caro, voi siete più suscettibile di Cassandra, che pure era una indovina, e alla quale nessuno credeva; mentre che voi siete sicuro di essere creduto almeno dalla metà del vostro uditorio. Sedetevi, diteci chi è questo sig. Vampa.
 
— Ve lo dissi, eccellenza, è uno di quei banditi di cui non abbiamo mai avuto l’uguale dall’epoca di Mastrilli.
 
— Ebbene! che rapporto ha questo bandito coll’ordine che ho dato al cocchiere di partire da porta del Popolo, e di rientrare per porta S. Giovanni?
 
— V’è, rispose Pastrini, che potreste uscir dall’una, ma dubiterei che potreste entrare dall’altra.
 
— E perchè? domandò Franz.
 
— Perchè quando è venuta la notte, non si è sempre in sicurezza in queste vicinanze.
 
— Parola d’onore? gridò Alberto.
 
Pastrini sempre punto nel fondo dell’anima pei dubbi emessi da Alberto sulla sua veracità, rispose: — Sig. conte, ciò che dico non è per voi, è pel vostro compagno di viaggio che conosce Roma, e sa benissimo che su questi argomenti non si scherza.
 
— Mio caro, disse Alberto volgendosi a Franz, ecco ritrovata un’ammirabile avventura: empiamo il nostro calesse di pistole, di tromboni, e di fucili a due canne, Luigi Vampa viene per arrestarci, e noi invece arrestiamo lui: lo portiamo a Roma, ne facciamo un omaggio al senato Romano: se il senatore domanda che può fare per dimostrarci la sua riconoscenza, reclamiamo puramente e semplicemente una carrozza e due cavalli delle scuderie del senatore: e gli ultimi tre giorni godiamo del carnevale in carrozza, senza calcolare che il popolo romano riconoscente potrebbe incoronarci in Campidoglio, e proclamarci, come Curzio e Orazio Coclite, i salvatori della patria.
 
Non è possibile poter descrivere i diversi [158] atteggiamenti del viso di Pastrini, durante questo discorso.
 
— In primo luogo, domandò Franz ad Alberto, dove prenderete queste pistole, questi tromboni, e questi fucili a due canne, coi quali volete riempire la vostra carrozza?
 
— Il fatto sta, che certamente non potrei prenderli nel mio arsenale, diss’egli, perchè a Terracina mi è stato tolto perfino il mio coltello a pugnale; e a voi? — Mi hanno fatto altrettanto ad Acquapendente. — Così, mio caro Pastrini, disse Alberto accendendo un secondo sigaro al residuo del primo, sapete che questa è una misura comodissima per i banditi? — S. E. sa che non c’è l’uso di difendersi quando si viene aggrediti dai banditi, rispose Pastrini che non voleva mettersi a cimento con osservazioni sulle leggi che vi sono ai confini. — Come! gridò Alberto, il cui coraggio si rivoltava all’idea di lasciarsi svaligiare senza dir niente; come! non c’è l’uso? — No, perchè qualunque difesa sarebbe inutile; che volete fare contro una dozzina di assassini che escono da un fosso, da un antro o da un acquedotto, e vi mettono nello stesso tempo le armi alla faccia!
 
— Ah! per bacco! voglio farmi ammazzare! gridò Alberto. — L’albergatore si volse verso Franz con una espressione che voleva dire: davvero eccellenza, il vostro camerata è pazzo.
 
— Mio caro Alberto, soggiunse Franz, la vostra risposta è sublime, e merita il dovea morir! del vecchio Cornelio; soltanto, quando Orazio rispondeva questo, si trattava della salute di Roma, e la cosa era abbastanza importante; ma in quanto a noi non si tratterebbe che di un capriccio, e sarebbe ridicolo l’arrischiare la propria vita per soddisfare un tal capriccio.
 
— Ah! per bacco! gridò Pastrini, alla buon’ora, questo si chiama parlare! — Alberto si versò un bicchiere di lacrima-christi, che bevve a sorsate, frammettendovi un brontolio di parole confuse che nessuno potè intendere. — Ebbene Pastrini, riprese Franz, ora che il mio compagno si è calmato, e che voi avete potuto apprezzare le mie disposizioni pacifiche, sentiamo: chi è questo sig. Luigi Vampa? è giovine o vecchio? è contadino o patrizio? descrivetecelo affinchè se lo avessimo per caso da incontrare nelle società, come Giovanni Sbogar, o Lara, lo possiamo almeno riconoscere.
 
— Non vi potevate rivolgere meglio che a me per averne esatti particolari poichè ho conosciuto Luigi Vampa da ragazzo, e un giorno anzi che caddi nelle sue mani, andando da Ferentino ad Alatri, si sovvenne, fortunatamente per me, della nostra antica conoscenza; e non solo mi lasciò andare liberamente senza esigere da me verun riscatto, ma eziandio volle farmi il regalo di un bell’orologio, e raccontarmi tutta la sua storia.
 
— Vediamo l’orologio, disse Alberto.
 
Pastrini cavò dal taschino un magnifico orologio a cilindro di Breguet, col nome dell’autore, il bollo di Parigi e una corona da conte. — Eccolo qui, diss’egli.
 
— Poffare! fece Alberto; ve ne faccio i miei complimenti. Io ne ho uno presso a poco come questo, che costa tremila fr.: Eccolo, e cavò l’orologio dal taschino del giubbetto.
 
— Sentiamo ora la storia, disse Franz tirando una sedia avanti, e facendo segno a Pastrini di sedersi.
 
— Le loro eccellenze mi permettono...? disse l’albergatore.
 
— Per bacco! disse Alberto, non siete già un predicatore, mio caro, per parlare sempre in piedi.
 
L’albergatore si assise dopo aver fatto un saluto rispettoso a ciascuno dei suoi due futuri uditori, come per indicare ch’egli era pronto a dar loro quei particolari di Vampa ch’essi avessero domandato.
 
— A noi! disse Franz arrestando Pastrini al momento che stava per aprire la bocca: voi dicevate d’aver conosciuto Luigi Vampa quando era ragazzo; è dunque molto giovine ancora?
 
— Lo credo bene! ha appena 22 anni! è un galeotto che andrà molto avanti, state pur sicuri.
 
— Che ne dite Alberto? è una bella cosa a 22 anni essersi già formata una riputazione, disse Franz.
 
— Sì certamente, alla sua età! Alessandro, Cesare e Napoleone non erano tanto avanti, e sì che questi hanno fatto dipoi qualche rumore nel mondo.
 
— E così, riprese Franz volgendosi all’albergatore, l’eroe di cui ora sentiremo la storia, non ha che 22 anni?
 
— Appena, come ebbi l’onore di dirvi.
 
— È grande o piccolo?
 
— Di mezzana persona, presso a poco come lei; disse l’albergatore designando Alberto.
 
— Grazie del paragone, disse quegli inchinandosi.
 
— Avanti, Pastrini, riprese Franz, sorridendo della suscettibilità del suo amico. [159] E a qual classe della società appartiene?
 
— Era un semplice pastore, addetto alla fattoria del conte S. Felice situata fra Palestrina e il lago di Gabri: nacque a Pampinara e fino dall’età di 5 anni entrò al servizio del conte. Suo padre, pastore anch’esso in Anagni, possedeva una piccola mandra e viveva della lana dei montoni e del prodotto delle pecore che veniva a vendere a Roma. Fin da fanciullo il piccolo Vampa aveva un’indole strana. Un giorno, all’età di 7 anni, andò a ritrovare il curato di Palestrina, e lo pregò d’insegnargli a leggere. Era una cosa assai difficile, perchè il pastorello non poteva lasciare le pecore. Ma il buon curato andava tutti i giorni a dire la messa in un piccolo borgo, troppo povero e troppo poco considerevole per poter mantenervi un prete, e che, non avendo neppure un nome, era conosciuto sotto quello di Borgo. Egli offrì a Luigi di trovarsi sulla strada che percorreva nell’ora del ritorno, e di dargli così la lezione, prevenendolo che questa sarebbe stata corta, e che per conseguenza avrebbe dovuto applicarsi molto da sè per renderla profittevole. Il fanciullo accettò con gioia. Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla strada da Palestrina al Borgo; e la mattina alle nove il curato passava: il prete ed il fanciullo si sedevano sulla riva di un fosso, e il giovine pastorello prendeva la lezione sul breviario del curato. Il prete fece fare a Roma da un maestro di calligrafia tre esemplari di alfabeto, uno grande, uno mezzano e l’altro piccolo, e gli fece vedere, che imitando quegli esemplari sopra una pietra di lavagna, coll’aiuto di una punta di ferro, poteva imparare a scrivere: la sera stessa, quando ebbe rinchiuso il gregge nell’ovile, il piccolo Vampa corse dal fabbro ferraio di Palestrina, prese un grosso chiodo, lo arroventò, lo martellò, lo arrotondì, e ne formò una specie di stiletto antico: la dimane unì una quantità di pezzi di lavagna, e si mise all’opera. Dopo tre mesi egli sapeva scrivere.
 
«Il curato, meravigliato di questa profonda intelligenza, e ammirando tutta questa attitudine, gli fece regalo di parecchi quaderni di carta, di alcune penne, e di un temperino. Allora ebbe a fare un altro studio; ma uno studio ch’era ben poca cosa dopo il primo. Otto giorni dopo maneggiava la penna come prima lo stiletto. Il curato raccontò quest’aneddoto al conte di San-Felice, che volle vedere il pastorello, lo fece leggere e scrivere innanzi a sè, ordinò al suo intendente di farlo mangiare coi domestici, assegnandogli due scudi al mese. Con questo danaro Luigi comprò dei libri e delle matite. Di fatto egli applicava a tutti gli oggetti il suo spirito d’imitazione, e, a guisa di Giotto fanciullo, copiava sulle lavagne le pecore, gli alberi, le case. Poi colla punta del temperino cominciò a tagliare dei pezzi di legno, e a dar loro tutte le forme che voleva. Pinelli pure, l’artista popolare, aveva cominciato così.
 
«Una ragazzina di sei in sette anni, cioè un poco più giovane di Vampa, era pur essa alla custodia delle pecore in una vicina tenuta, presso Palestrina: questa bambina era orfana, nata a Valmontone, e si chiamava Teresa. I due fanciulli s’incontravano, sedevano l’un presso all’altra, lasciavano le loro mandre mischiarsi e pascere insieme, discorrevano, ridevano, scherzavano; poi la sera separavano il gregge del conte San-Felice da quello del Barone Cervetri, e si lasciavano, promettendosi di ritrovarsi la dimane.
 
«La dimane infatto mantenevano la parola, e crescevano in età da una parte e dall’altra. Vampa compì i 12 anni, e Teresa gli undici. Frattanto i loro istinti naturali si sviluppavano. A lato del gusto per le arti, che Luigi aveva spinto tant’oltre quanto è permesso di poterlo fare nella solitudine, egli era ad intervalli triste, ardente a scosse, collerico per capriccio, burbero sempre. Nessuno dei giovani di Pampinara, di Palestrina e di Valmontone aveva potuto non solo prendere alcuna influenza su di lui, nè tampoco divenire suo compagno. Il suo temperamento assoluto e l’essere sempre disposto ad esigere, e non mai a lasciarsi piegare ad alcuna concessione, gli allontanava ogni movimento amichevole, ed ogni dimostrazione di simpatia. Teresa sola comandava con una parola, con un gesto, con uno sguardo a questa indole, che piegava sotto la mano di una donna, ma che sotto quella di un uomo si sarebbe irritata fino all’eccesso. Teresa al contrario era vivace, vispa e gaia, ma eccessivamente civetta; i due scudi che Luigi riceveva dall’intendente di San-Felice, il ricavato di tutti i piccoli lavori in intaglio che vendeva ai mercanti di giuocarelli in Roma, si tramutavano in pendenti di perle, in collane di cristallo, in spilli d’oro per la mercè di questa prodigalità del giovine amico. Teresa era la più bella e la più elegante di tutte le contadine delle vicinanze di Roma. [160] I due giovani continuavano a crescere, passando le giornate insieme, e si abbandonavano senza opposizione a tutti gl’istinti primitivi della loro natura; così, nelle loro conversazioni, nei loro desideri, nei loro castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello, o generale, o governatore di una provincia: Teresa si vedeva ricca, vestita delle più belle stoffe, seguita da servitori in livrea; quindi quando essi avevano passata un’intera giornata a circondare il loro avvenire di questi folli e brillanti arabeschi, si separavano per ricondurre ciascuno la loro mandra alla stalla, ricadendo dall’altezza dei loro sogni alla umiliante realtà della loro condizione.
 
«Il giovine pastore disse un giorno all’intendente del conte, che aveva veduto un lupo uscir dalle montagne della Sabina e ronzare attorno al gregge. L’intendente gli dette un fucile; era ciò che ambiva Vampa. Questo fucile trovavasi ad avere per caso una eccellente canna di Brescia che mandava la palla come quella di una carabina inglese; l’incassatura soltanto era stata in qualche modo guastata dal conte mentre dava la caccia alla volpe, e per questo messo fra gli scarti. Ciò però non era di nessuna difficoltà per un intagliatore come Vampa. Egli esaminò la forma primitiva, calcolò ciò che bisognava cambiare per metterla in un migliore aspetto, fece un’altra incassatura zeppa di ornamenti così meravigliosi, che certamente avrebbe ritrovato a guadagnarvi una ventina di scudi, del solo incasso, se fosse venuto a venderlo in città. Ma si era astenuto dall’operar così; un fucile era stato da gran tempo il sogno del giovine. In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuor forte, ogni struttura possente, è quello di un’arma, che assicuri nello stesso tempo l’assalto e la difesa, e facendo terribile chi la porta, spesso lo fa pur anche divenir temuto. Da quel punto Vampa impiegò nell’esercizio del fucile tutti i momenti che gli rimanevano liberi: comprò della polvere e delle palle, e tutto gli serviva di bersaglio: il tronco di un olivo, triste, pallido, e cenerino, che vegeta sul declive delle montagne della Sabina; la volpe che nella sera usciva dalla tana per cominciare la caccia notturna; l’aquila che s’innalzava per l’aria. Ben presto diventò così valente, che Teresa, superato quel primo ribrezzo che le produceva sul principio la detonazione, si divertiva nel vedere il giovine compagno situare la palla ove aveva indicato, così giustamente, come se ve l’avesse gettata colla mano.
 
«Una sera, un lupo uscì effettivamente da un bosco vicino al quale i due giovani avevano l’abitudine di starsi; il lupo non aveva fatti dieci passi sulla pianura che già era morto; Vampa, altero di questo bel colpo, sel caricò sulle spalle e lo portò alla fattoria. Tutti questi particolari davano a Luigi una certa riputazione nei dintorni della fattoria: l’uomo superiore, in qualunque luogo si trovi si forma una clientela d’ammiratori. Nei luoghi circonvicini si parlava di questo giovine pastore come del più destro, del più forte, e del più bravo contadino che fosse a dieci leghe di circonferenza; e quantunque Teresa, in un circolo più esteso ancora, passasse per la più bella delle giovinette della Sabina, pure nessuno si arrischiava dirle una parola d’amore, perchè si sapeva amata da Vampa. E frattanto i due giovani non si erano mai detto che si amavano. Essi avevano vegetato l’uno accanto all’altro, come due alberi che uniscono le loro radici nel suolo, che intrecciano i loro rami nell’aria, il loro profumo nel cielo; soltanto era in loro lo stesso desiderio di vedersi; questo desiderio divenne bisogno, ed era per loro assai più facile il comprendere che cosa sia la morte, di quello che una separazione anche di un sol giorno. Teresa aveva allora 16 anni e Vampa 17.
 
«In quel tempo cominciavasi a parlar molto di una banda di briganti, che si ordinava sui monti Lepini. Il brigantaggio, per quante efficacissime misure siansi prese, non è stato mai affatto distrutto nelle nostre vicinanze. Qualche volta manca un capo, ma quando se ne presenta uno è difficile che manchi di una banda. Il celebre Cucumetto, circondato negli Abbruzzi, cacciato dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra, aveva traversato il Garigliano come Manfredi, ed era venuto fra Sonnino e Giuperno, a rifugiarsi sulle rive dell’Amasina, egli si occupava a riordinare una banda che avrebbe camminato sulle orme di Gasparone e di Decesaris, cui sperava ben presto di sorpassare. Molti giovanotti di Palestrina, di Frascati, e di Pampinara disparvero. Sulle prime si stette in pena sul loro conto, ma ben presto si seppe ch’erano andati a raggiungere la banda di Cucumetto. In capo a poco tempo Cucumetto diventò l’oggetto dell’attenzione generale. Venivano ovunque citati dei tratti di questo capo bandito di una estrema audacia, e di rivoltante brutalità.
 
«Le storie di ogni genere che si raccontavano [161] di questo capo bandito, formavano spesso l’oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa. La giovinetta tremava molto a questi racconti; ma Vampa la tranquillava battendo in terra il suo bel fucile che mandava così dritta la palla: poi, quando non era del tutto tranquilla, le faceva vedere un qualche corvo posato sopra una frasca secca di un albero, metteva il fucile alla guancia, premeva sul grilletto, e l’animale colpito cadeva ai piedi dell’albero. Frattanto il tempo passava, i due giovinetti avevano stabilito sposarsi quando Vampa avesse avuto 20 anni, Teresa 19. Erano orfani entrambi; entrambi non avevano altri permessi a chiedere che quello dei loro disegni sull’avvenire. S’intesero due o tre colpi di fucile, quindi un uomo uscì dal bosco presso al quale i due giovani erano soliti far pascolare i loro armenti, e corse verso di loro. Giunto alla portata della voce, gridò tutto ansante.
 
— Io sono inseguito, potete voi nascondermi?
 
«I due giovani riconobbero ben presto che il fuggitivo doveva essere un bandito: ma fra i banditi ed i paesani romani vi è una innata simpatia, che fa sì, che il secondo è sempre disposto a rendere servigio al primo. Vampa, senza dire una parola, corse ad una pietra che chiudeva l’ingresso di una grotta, scoprì quest’entrata tirando a sè la pietra, fece segno al fuggitivo di entrare in questo asilo sconosciuto a tutti, rimise la pietra tosto che fu entrato, e ritornò a sedersi vicino a Teresa. Quasi subito dopo, quattro carabinieri a cavallo comparvero sul confine del bosco. Tre sembravano essere alla ricerca del fuggitivo, il quarto trascinava pel collo un bandito prigioniero. Essi esplorarono il luogo con un colpo d’occhio, s’accorsero dei due giovani, accorsero di galoppo alla loro volta, e l’interrogarono; ma questi risposero che nulla avevano veduto.
 
«— È dispiacevole, disse il brigadiere, perchè quello che cerchiamo è il capo. — Cucumetto? non poterono fare a meno di gridare insieme Luigi e Teresa. — Sì, rispose il brigadiere, e siccome la sua testa porta la taglia di mille scudi romani, così voi ne avreste guadagnati 500 se ci aveste aiutati a prenderlo. — I due giovani si guardarono reciprocamente. Il brigadiere ebbe un raggio di speranza. 500 scudi romani fanno circa 3 mila fr.; e 3 mila fr. sono una fortuna per due poveri orfanelli che sono sul punto di maritarsi.
 
«— Sì, è dispiacevole, disse Vampa, ma non abbiamo veduto nessuno. — Allora i carabinieri percorsero il luogo in tutte le sue diverse direzioni, ma inutilmente: quindi successivamente disparvero. Allora Vampa andò a togliere la pietra, e Cucumetto uscì. Egli aveva veduto attraverso una fessura della porta di macigno i due giovani discorrere coi carabinieri; non aveva alcun dubbio sull’argomento della conversazione; aveva letto sul volto di Teresa e di Luigi l’inalterabile risoluzione di non consegnarlo; cavò di saccoccia una borsa d’oro per fargliene dono. Ma Vampa rialzò la testa con fierezza; quanto a Teresa i suoi occhi brillarono pensando a tutto ciò che ella potrebbe comprare di ricchi gioielli, e belli abiti con quella borsa d’oro.
 
«Cucumetto era un satana molto abile, solo aveva preso la forma di bandito invece di serpente: egli s’accorse di questo sguardo, riconobbe in Teresa una degna figlia d’Eva, e rientrò nella foresta rivolgendosi più volte, col pretesto di salutare i suoi liberatori. Il tempo del carnevale si avvicinava, il conte di Sanfelice annunziò un gran ballo mascherato al quale fu invitato quanto Roma aveva di più elegante. Teresa aveva gran volontà di vedere questo ballo.
 
«Luigi domandò al suo protettore, l’intendente, il permesso di assistervi per lui e per lei, nascosti in mezzo alla servitù della casa; permesso che venne loro accordato.
 
«Il ballo veniva dato dal conte particolarmente per fare cosa grata a sua figlia Carmela ch’egli adorava. Carmela era precisamente dell’età e della persona di Teresa, la quale era per lo meno tanto bella quanto Carmela. La sera del ballo Teresa si mise quanto aveva di più bello, i suoi spilli di maggior valore, i gioielli di cristallo più rilucenti. Ella aveva il costume delle donne di Frascati; Luigi aveva l’abito tanto pittoresco del paesano romano in giorno di festa. Entrambi si mischiarono, come avevano promesso, fra i servitori ed i paesani.
 
«Il festino era magnifico. Non solo la villa era tutta illuminata, ma migliaia di lampioni a colori erano appesi ai rami degli alberi nel giardino: così ben presto l’onda degli accorsi straripò dal palazzo sulle terrazze, e dalle terrazze nei viali. Ad ogni crociera vi era una orchestra, trattamenti, e rinfreschi; coloro che passeggiavano si fermavano, formavano delle quadriglie, e ognuno ballava ove [162] più gli piaceva. Carmela portava il costume delle donne di Sonnino: aveva la pettinatura intrecciata di perle, gli spilli dei capelli erano d’oro, e di diamanti, il busto era di seta turca a gran fiori di broccato, la giubba e le gonnelle di cachemire: il senale di mussolino delle Indie, i bottoni della giubba altrettante pietre preziose; altre due delle sue compagne portavano il costume delle donne della Riccia. Quattro giovani dei più ricchi e delle famiglie più nobili di Roma l’accompagnavano, essi erano vestiti da paesani d’Albano, di Velletri, di Civita-Castellana, e di Sora. Non fa mestieri dire che questi costumi da paesani, come quelli da paesana, erano risplendenti d’oro e di pietre. Venne a Carmela l’idea di fare una quadriglia uniforme; mancava però una donna. Carmela guardò intorno a sè, e fra le invitate non trovò alcuna che portasse un costume analogo al suo ed a quello delle sue compagne. Il conte di San-Felice le mostrò fra le contadine Teresa, che stava appoggiata al braccio di Luigi.
 
«— Me lo permettete, padre mio? disse Carmela.
 
«— Senza dubbio, rispose il conte; non siamo in carnevale?
 
«Carmela si accostò ad un giovine che l’accompagnava, e gli disse alcune parole a bassa voce, indicandogli col dito la giovinetta. Il giovine si volse, seguì cogli occhi la direzione della bella mano che gli serviva da indicatore, fece un gesto di obbedienza, e andò ad invitare Teresa perchè venisse a figurare nella quadriglia diretta dalla figlia del conte. Teresa sentì come una fiamma salirle al viso. Interrogò d’uno sguardo Luigi: non v’era mezzo di rifiutare: Luigi lasciò lentamente sdrucciolare il braccio di Teresa che teneva sotto al suo, e Teresa si allontanò condotta dal suo elegante cavaliere, e tutta tremante venne a prendere il posto nella quadriglia aristocratica. Certamente per un’artista l’esatto e severo costume di Teresa, avrebbe avuto tutt’altro carattere che quello di Carmela e delle sue compagne, ma Teresa era una giovanetta frivola, e civetta, i ricami del mussolino, le palme della cintura, lo splendore del cachemire l’abbagliavano, il riflesso dei zaffiri, e dei diamanti la rendevano pazza. Dall’altra parte, Luigi sentiva nascere in sè un sentimento sconosciuto; era come un dolore sordo lo mordesse sulle prime il cuore, e di là corresse fremendo nelle sue vene, e s’impadronisse di tutto il corpo.
 
«Egli non perdeva un momento d’occhio i piccoli movimenti di Teresa, e del suo cavaliere; allorchè le loro mani si toccavano provava delle vertigini, le arterie gli battevano con violenza, e sarebbesi detto che il suono di una campana ripercuotesse le sue vibrazioni all’orecchio di lui. Allorchè parlavan fra di loro, quantunque Teresa ascoltasse timidamente e con gli occhi bassi i discorsi del cavaliere, siccome Luigi leggeva negli occhi ardenti del bel giovine che questi discorsi erano elogi, gli sembrava che la terra girasse sotto di lui, e che tutte le voci dell’inferno gli soffiassero idee di uccisioni, e di assassinio. Allora, temendo lasciarsi trasportare a qualche pazzia si aggrappava con una mano all’albero contro il quale era appoggiato, e coll’altra stringeva con un movimento convulsivo il pugnale dal manico intagliato che era passato nella sua cinta, e che senza accorgersene qualche volta cavava dal fodero quasi interamente.
 
«Luigi era geloso, egli capiva che Teresa poteva sfuggirgli, trasportata dalla sua natura orgogliosa e ambiziosa, e frattanto la forosetta che sulle prime era timida, e quasi spaventata, erasi ben presto rimessa. Si disse che Teresa era bella. Questo però non era tutto, Teresa era graziosa, di quella grazia selvaggia molto più possente che la nostra grazia studiata, ed affettata. Ella ebbe quasi gli onori della quadriglia, e se fu invidiosa della figlia del Conte di S. Felice, non oseremo dire che Carmela non fosse di lei gelosa. Così a forza di complimenti il suo bel cavaliere la ricondusse al posto ove l’aveva presa, ed ove l’aspettava Luigi.
 
«Due, o tre volte nel tempo del ballo la giovinetta aveva volto lo sguardo su lui, e ciascuna volta lo aveva veduto più pallido, e con i lineamenti più alterati. Una volta ancora i suoi occhi rimasero abbagliati come da un lampo di sinistro augurio nel vedere la lama del coltello cavata per metà dal fodero; quasi tremando riprese il braccio dell’amante. La quadriglia ebbe i suoi felici successi, e sembrava evidente che si sarebbe discorso di ripeterla una seconda volta. Carmela sola vi si opponeva, ma il Conte di S. Felice pregò tanto teneramente la figlia, che finalmente v’acconsentì.
 
«Tosto uno dei cavalieri si slanciò per invitare Teresa senza la quale era impossibile che si potesse fare la quadriglia, ma la giovinetta era di già sparita. Infatto Luigi non avrebbe avuta la forza di sopportare un secondo esperimento, e parte [163] per persuasione, e parte per forza, aveva trascinato Teresa da un’altra parte del giardino. Teresa aveva ceduto suo malgrado; ma aveva veduto la figura scomposta del giovine, e capiva dal suo silenzio, interrotto da un fremito nervoso, che in lui passava qualche cosa di strano. Essa pure non era esente da un’interna agitazione; e quantunque non avesse fatto niente di male, comprendeva che Luigi avrebbe avuto ragione di farle dei rimproveri; su che? non lo sapeva; ma si accorgeva ciò nonostante che questi sarebbero stati ben meritati. Pur nulla meno, con gran sorpresa di Teresa, Luigi si stette muto, e durante il rimanente della sera le sue labbra non dissero più una parola. Solo, allorchè il freddo della notte avea costretti tutti gl’invitati a lasciare i giardini, e che le porte della villa furono chiuse per dar luogo alla festa interna, ricondusse alla sua casa Teresa, poi quand’ella fu entrata, le disse:
 
«— Teresa, che pensavi tu quando ballavi dirimpetto alla contessina di S. Felice?
 
«— Pensava, rispose la giovinetta con tutta la franchezza dell’animo suo, che io darei la metà della mia vita per essere abbigliata come lei.
 
«— E che ti diceva il tuo cavaliere?
 
«— Mi diceva che dipendeva soltanto da me, e che non dovevo dire che una parola per ottener questo.
 
«— Egli aveva ragione, rispose Luigi. Lo desideri tu così ardentemente come tu dici?
 
«— Sì.» — Ebbene! tu l’avrai.
 
«La giovinetta maravigliata, alzò la testa per interrogarlo, ma il suo viso era così tetro e così terribile, che la parola le si agghiacciò sulle labbra. D’altra parte dicendo queste parole Luigi si era allontanato. Teresa lo seguì con gli sguardi fra le tenebre fino a che ella potè scorgerlo. Poi quando fu sparito rientrò sospirando nella sua cameretta.
 
«Questa medesima notte accadde un grande avvenimento che fu giudicato il prodotto, senza alcun dubbio, della imprudenza di qualche servitore, che aveva usata negligenza nello spegnere i lumi: la villa S. Felice prese fuoco, precisamente dalla parte dell’appartamento della bella Carmela. Svegliata nel mezzo del sonno dalla luce delle fiamme, era saltata dal letto, si era inviluppata nella veste da camera, ed aveva tentato di fuggire dalla porta; ma il corridore pel quale abbisognava che passasse ere già tutto in preda all’incendio. Allora rientrò nella sua camera, chiamando ad alte grida soccorso, quando la sua finestra, posta a venti piedi dal suolo si aperse, un giovine contadino si slanciò nell’appartamento, la prese fra le braccia, e con una forza e destrezza sovrumana la trasportò sull’erba del prato ove rimase svenuta. Allorchè riprese l’uso dei sensi, il padre le era vicino, tutti i servitori la circondavano portando soccorsi. Un lato intero della villa fu bruciato; ma non premeva, poichè Carmela era sana e salva. Venne ovunque cercato il suo liberatore, ma questi non ricomparve più; fu domandato di lui a tutti, ma nessuno lo aveva veduto.
 
«Quanto a Carmela ella era così turbata che non lo aveva riconosciuto. Del rimanente, siccome il conte era immensamente ricco, se si eccettui il pericolo corso da Carmela, e che gli sembrò dal modo miracoloso con cui era stata salvata, piuttosto un novello favore della provvidenza che una disgrazia reale, fu ben poca cosa per lui la perdita di ciò che avevan consumato le fiamme.
 
«La dimane nell’ora consueta i due giovani si ritrovarono sul confine della foresta. Luigi era arrivato pel primo. Egli venne incontro alla giovinetta con molta allegria, e sembrava avere completamente dimenticata la scena della sera innanzi. Teresa era manifestamente pensierosa, ma vedendo la disposizione di animo di Luigi, simulò un’allegra non curanza che era la base della sua indole, quando qualche passione non veniva a disturbarla. Luigi prese sotto il braccio Teresa, e la condusse fino all’apertura della grotta; là si fermò. La giovinetta conoscendo che doveva esservi qualche cosa di straordinario lo guardò fissamente.
 
«— Teresa, disse Luigi, ieri sera tu mi dicesti che avresti dato metà della tua vita per avere un costume uguale a quello della figlia del conte.
 
«— Certamente, disse Teresa con meraviglia, ma era ben pazza quando esternava un simil desiderio.
 
«— Ed io ti ho risposto: sta bene, tu l’avrai.
 
«— Sì, soggiunse la giovinetta, la cui meraviglia si aumentava od ogni parola di Luigi; ma tu certamente hai risposto così, solo per farmi piacere.
 
«— Non ti ho mai promesso cosa che non ti abbia data, Teresa, disse con orgoglio Luigi: entra nella grotta, e vestiti.
 
«A queste parole allontanò la pietra, [164] e fece vedere a Teresa la grotta illuminata da due candele, che ardevano ai lati di un magnifico specchio. Sopra una tavola rustica fatta da Luigi, erano distesi gli spilli di diamanti, e la collana di perle; sopra una panca vicina era depositato il rimanente del vestiario. Teresa mandò un grido di gioia, e senza informarsi donde veniva questo vestito, senza prendere il tempo di ringraziare Luigi, si slanciò nella grotta trasformata in gabinetto da toletta. Luigi respinse la pietra dietro ad essa, poichè s’accorse che sulla cresta di una piccola collina, che impediva di vedere Palestrina dal posto in cui stava, un viaggiatore a cavallo si era fermato un momento, incerto sulla strada da tenere, e che compariva sull’azzurro del cielo con quella nettezza di contorno particolare alle vedute in lontananza dei paesi meridionali.
 
«Lo straniero vedendo Luigi, mise il cavallo al galoppo, e venne alla sua volta. Luigi non si era ingannato; il viaggiatore che andava da Palestrina a Tivoli era incerto sul cammino da prendere. Il giovine glielo indicò; ma siccome ad un quarto di miglio la strada si divideva in tre, e il viaggiatore giunto a questo luogo poteva nuovamente sbagliare, pregò Luigi di servirgli di guida: questi depose a terra il mantello, si pose sulla spalla la carabina, e liberato così dal pesante vestito camminò davanti al viaggiatore con quel passo rapido del montanaro, che un cavallo a stento può seguire.
 
«In dieci minuti, Luigi ed il viaggiatore si trovarono al crocivio indicato dal giovine pastore. Giunto là, con un gesto maestoso a guisa di un imperatore, stese la mano, e indicò al viaggiatore quella delle tre vie che doveva seguire. — Ecco la vostra strada, eccellenza, voi ora non potete più sbagliare. — E tu prendi la tua ricompensa, disse il viaggiatore offrendo al pastore alcune piccole monete. — Grazie, disse Luigi ritirando la mano, io rendo un servizio, non lo vendo. — Ma, disse il viaggiatore, che del resto sembrava abituato a quella differenza che passa tra la servilità dell’uomo di città, e l’orgoglio del campagnuolo, se tu rifiuti una mercede, accetterai un regalo?
 
«— Ah! sì, questa è un’altra cosa. — Ebbene, disse il viaggiatore, prendi questi due zecchini di Venezia, e dalli alla tua fidanzata per acquistarsi un paio di pendenti.
 
«— E voi allora prendete questo pugnale, disse il pastore, non ne ritroverete uno la cui impugnatura sia meglio intagliata, da Albano a Civita-Castellana. — Lo accetto disse il viaggiatore, ma allora sono io che ti resto obbligato, perchè il pugnale vale molto più di due zecchini.
 
«— Per un mercante può essere, ma non per me che l’ho intagliato io stesso, e mi costa appena uno scudo.
 
«— Come ti chiami tu? domandò il viaggiatore.
 
«— Luigi Vampa, rispose il pastore collo stesso tuono come se avesse risposto: Alessandro re di Macedonia; e voi?
 
«— Io, disse il viaggiatore, mi chiamo Sindbad il marinaro.»
 
Franz d’Épinay mise un grido di sorpresa.
 
— Sindbad il marinaro! diss’egli.
 
— Sì, rispose il narratore, è il nome che il viaggiatore disse a Vampa essere il suo.
 
— Ebbene! che avete voi da dire in contrario a questo nome? interruppe Alberto; questo è un bellissimo nome e le avventure di chi lo portava mi hanno divertito assaissimo nella mia prima gioventù. — Franz non insistè. Il nome di Sindbad il marinaro, come si capirà bene, aveva risvegliato in lui una quantità di ricordi, non diversamente da quello che aveva fatto la sera innanzi il nome di conte di Monte-Cristo: — Continuate, disse all’albergatore.
 
«Vampa mise sdegnosamente i due zecchini in saccoccia e riprese lentamente il cammino pel quale era venuto. Giunto a due o trecento passi della grotta gli parve di sentire un grido. Si fermò ascoltando da qual parte venisse questo grido. Dopo un secondo, intese pronunziare distintamente il suo nome; la voce veniva dalla parte della grotta.
 
«Balzò come un camoscio, e mentre correva, caricava il fucile, e in meno di un minuto era sulla sommità della piccola collina opposta a quella ove aveva scoperto il viaggiatore. Là si fecero più distinte le grida «aiuto, soccorso!» Girò gli occhi sullo spazio che dominava; un uomo rapiva Teresa come il centauro Nesso Deianira. Quest’uomo, che si dirigeva verso il bosco, aveva già percorso tre quarti del cammino dalla grotta alla foresta. Vampa misurò l’intervallo; quest’uomo aveva già duecento passi di vantaggio su lui, non vi era possibilità di raggiungerlo prima che entrasse nel bosco. Il giovine si ferma come se i suoi piedi avessero messo radice: appoggia l’incasso del fucile alla spalla, leva lentamente la canna nella direzione [165] del rapitore, lo segue un secondo nella corsa, e fa fuoco. Il rapitore si fermò sul punto; le ginocchia gli si piegarono, e cadde trascinando nella sua caduta Teresa la quale si alzò subito, ed il fuggito restò steso dibattendosi nelle ultime convulsioni dell’agonia. Vampa si slanciò verso Teresa, che era a dieci passi dal moribondo, ed alla quale erano a sua volta venute meno le gambe cadendo in ginocchio. Allora al giovine venne il terribile sospetto che la palla che aveva colpito l’avversario avesse puranco ferita la fidanzata. Fortunatamente però non fu; il solo terrore aveva paralizzate le forze di Teresa. Allorquando Luigi fu ben sicuro che era sana e salva, si volse verso il ferito; era di già morto, colle pugna serrate, la bocca contratta dal dolore, e i capelli ritti dal sudore dell’agonia; gli occhi erano rimasti aperti e minacciosi.
 
«Vampa si avvicinò al cadavere e riconobbe Cucumetto. Dal giorno in cui il bandito fu salvato dai due giovani, erasi innamorato di Teresa, ed aveva giurato che la giovine sarebbe stata sua. Da quel giorno, l’aveva spiata con assiduità; e, profittando del momento in cui il suo amante l’aveva lasciata sola per andare ad indicare la strada al viaggiatore, l’aveva involata e già la credeva sua, quando la palla di Vampa, diretta dal colpo d’occhio infallibile del giovine pastore gli aveva traversato il cuore. Vampa lo guardò un momento senza che la minima emozione si presentasse sul suo viso, nel mentre che Teresa al contrario, tutta tremante ancora, non osava avvicinarsi al morto bandito che a piccoli passi, e gettava esitando uno sguardo sul cadavere al di sotto della spalla del suo amante. Dopo un momento Vampa si rivolse verso la sua innamorata.
 
«— Ah! ah! diss’egli, sta bene, tu sei di già vestita. Or tocca a me a fare la mia toletta.
 
«Infatto Teresa era vestita da capo a piedi col costume della figlia del conte S. Felice. Vampa prese il corpo di Cucumetto fra le braccia, e lo trasportò nella grotta, mentre che Teresa l’aspettava di fuori. Se fosse passato allora un altro viaggiatore, avrebbe veduto una cosa strana; cioè una pastorella guardare il gregge, vestita di cachemire coi pendenti alle orecchie, una collana di perle, degli spilli di diamanti, e dei bottoni di zaffiri, di smeraldi e di rubini. Senza dubbio sarebbesi creduto di ritornare ai tempi di Florian: e di ritorno a Parigi, avrebbe assicurato di avere incontrata la pastorella delle Alpi ai piedi dei monti Sabini. A capo di un quarto d’ora, Vampa uscì dalla grotta. Il suo costume non era meno elegante, nel suo genere, di quello di Teresa. Aveva una veste di velluto granato coi bottoni d’oro cesellati, un giubbetto di seta tutto ricoperto di galloni, una sciarpa annodata intorno al collo, un porta cartucce tutto in oro ed in seta rossa e verde, i pantaloni di velluto celeste attaccati al di sotto del ginocchio colle fibbie di diamanti, le ghette di pelle di daino ricamate con mille arabeschi, ed un cappello su cui sventolavano dei nastri di ogni colore; due catene da orologio pendevano dalla sua cintura ed un magnifico pugnale era attaccato al porta cartucce.
 
«Teresa gettò un grido di ammirazione; Vampa sotto questo abito rassomigliava ad una pittura di Léopold Robert o di Schnetz. Egli aveva vestito il costume completo di Cucumetto. Il giovine s’accorse dell’effetto che produceva nella sua fidanzata, ed un sorriso di orgoglio gli sfiorò le labbra. — Or dimmi Teresa, sei pronta a dividere la mia sorte qualunque essa possa essere?
 
«— Oh! sì, gridò la giovinetta con entusiasmo.
 
«— A seguirmi ovunque andrò? — Anche in capo al mondo!
 
«— Allora prendi il mio braccio, e partiamo, poichè non abbiam tempo da perdere.
 
«La giovinetta intrecciò il suo al braccio dell’innamorato, senza neppur domandargli ove la conduceva; perchè in questo momento le sembrava bello, superbo e potente come il Nume della guerra. E tutti e due s’incamminarono verso la foresta di cui in breve tempo sorpassarono il confine.
 
«Non fa bisogno di dire che Vampa conosceva tutti i sentieri della montagna; egli s’inoltrò dunque nella foresta senza esitare neppur per poco, e quantunque non vi fosse praticata alcuna strada, riconosceva la direzione che doveva seguire dal solo guardare gli alberi ed i cespugli; essi camminarono in tal guisa per circa un’ora e un quarto.
 
«Dopo questo tempo giunsero nel punto più fitto del bosco. Un torrente il cui letto era secco, conduceva in una gola profonda. Vampa prese questo strano sentiero, che incassato fra le due rive, e ottenebrato dall’ombra degli alberi sembrava il sentiero d’Averno di cui parla Virgilio. Teresa ritornata timorosa all’aspetto [166] di questo luogo selvaggio e deserto si stringeva contro la guida senza dir parola; ma siccome lo vedeva camminare con un passo sempre uguale, siccome una calma sempre profonda irradiava il suo viso, ella stessa aveva la forza di dissimulare la sua emozione.
 
«D’un subito, dieci passi lontano da loro, un uomo sembrò staccarsi da un albero dietro cui era nascosto, e prendendo col suo fucile di mira Vampa, gridò:
 
«— Non fare un passo di più o sei morto.
 
«— Andiamo, via! disse Vampa facendo con la mano un gesto di disprezzo, nel mentre che Teresa non dissimulando il suo terrore, si stringeva sempre più contro di lui; e che i lupi forse si sbranano fra di loro?
 
«— Chi sei tu? dimandò la sentinella. — Io sono Luigi Vampa, il pastore della fattoria di S. Felice. — Che vuoi tu?
 
«— Voglio parlare ai tuoi compagni che sono su lo spianato di Rocca-Bianca.
 
«— Allora seguimi, disse la sentinella, o piuttosto, giacchè sai la strada, cammina avanti.
 
«Vampa sorrise con aria di disprezzo alla cautela di questo bandito, passò avanti con Teresa, e continuò il suo cammino collo stesso passo fermo e tranquillo che lo aveva condotto fin là. Dopo cinque minuti, il bandito fece loro il segno di fermarsi. Essi obbedirono. Il bandito imitò tre volte il grido del corvo, un altro grido eguale rispose a questo triplice appello. — Ora tu puoi continuare la strada, disse il bandito. — Luigi e Teresa si rimisero in cammino: ma, a seconda che s’inoltravano, Teresa tremante si serrava sempre più contro il suo amante; infatto attraverso gli alberi si vedevano comparire degli uomini e scintillare delle canne di fucile. Lo spianato di Rocca-Bianca era sulla sommità di una piccola montagna, che altre volte doveva certamente essere stata un piccolo vulcano, vulcano estinto prima che Romolo e Remo disertassero da Alba per andare a fabbricar Roma. Teresa e Luigi giunsero alla sommità e nello stesso tempo si ritrovarono circondati da una ventina di banditi.
 
«— Ecco un giovine che vi cerca, e che desidera parlarvi, disse la sentinella. — Che vuole egli da noi? chiese colui che in assenza del capo faceva le provvisorie funzioni di capitano.
 
«— Voglio dirvi che mi sono annoiato di fare il mestiere del pastore, disse Vampa.
 
«— Ah! capisco, disse il luogotenente, e tu vieni a domandarci di entrare nelle nostre file? — Che sia il benvenuto, gridarono molti banditi di Ferrusino, di Pampinara, e d’Anagni i quali avevano riconosciuto Luigi Vampa.
 
«— Sì, ma io vengo ancora a chiedervi un’altra cosa, oltre di esser vostro compagno. — E che vieni tu a chiederci? dissero con meraviglia i banditi. — Io vengo a domandarvi di esser fatto vostro capitano, disse il giovine. — I banditi dettero in una gran risata. — E che hai tu fatto per aspirare a questo onore? domandò il luogotenente. — Io ho ammazzato il vostro capo Cucumetto, di cui porto le spoglie, disse Luigi, ed ho messo il fuoco alla villa di S. Felice per dare il corredo di nozze alla mia fidanzata. — Un’ora dopo, Luigi Vampa era stato eletto capitano nel posto di Cucumetto.»
 
— Ebbene mio caro Alberto, disse Franz volgendosi all’amico, che pensate ora di questo cittadino Luigi Vampa?
 
— Io dico che questo è un Mythe, rispose Alberto, e che non ha mai esistito. — E che significa questo Mythe, domandò Pastrini. — Sarebbe troppo lungo a spiegarsi, mio caro Pastrini, rispose Franz. E voi dite adunque che maestro Vampa esercita in questo momento la sua professione in queste vicinanze?
 
— E con un tale ardire che nessun bandito ne ha mai dato esempio uguale.
 
— E la polizia non cerca d’impadronirsene?
 
— Che volete? egli è d’accordo ad un tempo coi pastori della pianura, coi pescatori del Tevere e i contrabbandieri della costa. Se si cerca nelle montagne è sul fiume; se si perseguita sul fiume, prende l’alto mare; poi d’improvviso quando si crede che sia rifugiato nell’isola del Giglio, di Gianuti, o di Monte-Cristo, si vede ricomparire in Albano, a Tivoli o alla Riccia.
 
— E qual è il suo modo di operare verso i viaggiatori?
 
— Eh! mio Dio! è semplicissimo; a seconda della distanza che si è dalla città, egli accorda loro otto ore, dodici ore, un giorno per pagare il loro riscatto; quando è passato il tempo accorda ancora un’ora di grazia. Al sessantesimo minuto di quest’ora se non ha il riscatto, fa saltare le cervella del prigioniero con un colpo di pistola, o gli pianta un pugnale nel cuore, e tutto è finito. — Ebbene! Alberto, domandò Franz al suo compagno, siete ancora disposto ad andare al Colosseo per la strada fuori delle mura?
 
— Certamente, disse Alberto, se la strada è più pittoresca.
 
In questo momento batterono le nove, la porta s’aprì, e il cocchiere comparve. — Eccellenza, diss’egli, la carrozza è alla porta. — Ebbene! disse Franz, andiamo al Colosseo.
 
— Per la porta del Popolo, eccellenza, o per le strade interne? — Per le strade interne, per bacco! per le strade interne, gridò Franz. — Ah! mio caro, disse Alberto, alzandosi ed accendendo il suo terzo sigaro, in verità io vi credeva più coraggioso.
 
Dopo queste parole i due giovani discesero le scale e salirono in carrozza.
 
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