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LIX. — IL TELEGRAFO.

时间:2021-06-29来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:I coniugi Villefort rientrando nel loro appartamento, seppero che il conte di Monte-Cristo essendo venuto a far loro una
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 I coniugi Villefort rientrando nel loro appartamento, seppero che il conte di Monte-Cristo essendo venuto a far loro una visita era stato introdotto nel salotto ove li aspettava. La sig.ª de Villefort troppo commossa per essere in istato di potere sì tosto entrare, passò per la sua camera da letto, mentre che il procuratore del Re più padrone di sè stesso si avanzò direttamente verso il salotto. Ma per quanto sapesse dominare le sue sensazioni, per quanto cercasse ricomporre il viso, Villefort non potè allontanare tanto bene la [316] nube dalla sua fronte, che al conte, il cui sorriso brillava raggiante, non dinotasse quell’aria tetra e cogitabonda.
 
— Oh! mio Dio! disse Monte-Cristo dopo i primi complimenti; che avete dunque sig. de Villefort? sono forse giunto in un momento in cui stavate sostenendo qualche accusa un poco troppo capitale?
 
Villefort tentò di ridere: — No, sig. conte, disse, qui non vi è altra vittima fuori di me, sono io che perdo la causa, ed il caso, l’ostinazione, la pazzia han vibrata la sentenza.
 
— Che intendete di dire? domandò Monte-Cristo con un interessamento benissimo dissimulato. Vi è forse accaduto in realtà qualche grave disgrazia?
 
— Oh! sig. conte, disse Villefort con una calma piena d’amarezza; ciò non vale neppur la pena di parlarne; quasi niente, una semplice perdita di denaro.
 
— In fatto, rispose Monte-Cristo, una perdita di danari è poca cosa per chi goda una fortuna come la vostra, ed uno spirito filosofico ed elevato come il vostro.
 
— Per cui, rispose Villefort, non è la perdita del danaro che m’inquieta, quantunque 900 mila fr. possono ben valere un dispiacere, ma mi risento particolarmente di questa disposizione della sorte, del caso, della fatalità, non so come nominare la potenza che dirige il colpo che mi percuote, che rovescia le mie speranze di fortuna, e distrugge quasi l’avvenire di mia figlia, pel capriccio di un vecchio ricaduto nella infanzia.
 
— Eh! mio Dio! ma che cosa è dunque? gridò il conte, 900 mila fr. avete detto? ma in verità questa somma merita, che se ne affligga anche un filosofo. E chi vi procura questo dispiacere?
 
— Mio padre di cui vi ho parlato.
 
— Il sig. Noirtier? Davvero? Non mi diceste che era colpito interamente dalla paralisi, e che tutte le sue facoltà erano annichilite?
 
— Sì, le sue facoltà fisiche, perchè non può nè muoversi nè parlare, con tutto ciò però pensa, vuole, opera come vedete. L’ho lasciato da cinque minuti ed in questo momento è occupato a dettare un testamento a due notari.
 
— Ma allora dunque ha parlato?
 
— Fa di più, si fa capire.
 
— Ed in che modo?
 
— Per mezzo dello sguardo, i suoi occhi hanno continuato a vivere, e come vedete essi uccidono.
 
— Amico, disse la sig.ª de Villefort, che entrava in quel punto, forse voi esagerate la vostra situazione.
 
— Signora... disse il conte inchinandosi.
 
La sig.ª de Villefort lo salutò col più grazioso sorriso.
 
— Ma che cosa dunque mi racconta il sig. de Villefort? domandò Monte-Cristo, e quale disgrazia incomprensibile?...
 
— Incomprensibile, questa per l’appunto è la vera parola; riprese il procuratore del Re alzando le spalle, un capriccio da vecchio.
 
— E non vi è modo di farlo smettere dalla sua risoluzione?
 
— Vi sarebbe, disse la sig.ª de Villefort, e dipende anzi da mio marito, che questo testamento, invece di essere fatto a danno di Valentina, sia fatto in favore di lei.
 
Il conte accorgendosi che i due sposi cominciavano a parlarsi con parabole, assunse l’apparenza dell’uomo distratto, e guardò colla più profonda attenzione, e colla più manifesta approvazione Edoardo che versava dell’inchiostro nei beveratoi degli uccelli. — Mia cara, disse Villefort rispondendo a sua moglie, sapete che amo poco l’assumere il tuono patriarcale in casa mia, e che non ho mai creduto che i destini dell’universo dipendessero da un mio movimento di capo. Ciò non pertanto è necessario che le mie risoluzioni vengano rispettate in casa mia, e che la follia di un vecchio ed il capriccio di una fanciulla non rovescino un disegno stabilito nel mio spirito da molti anni. Il barone d’Épinay era mio amico, lo sapete, ed una alleanza con suo figlio era conveniente.
 
— Credete, disse la sig.ª de Villefort, che Valentina sia d’accordo con lui?... in fatto... ella è sempre stata contraria a questo matrimonio, e non sarei maravigliata che tutto ciò che abbiamo veduto ed inteso, non sia che l’esecuzione di un disegno concertato fra loro.
 
— Signora, disse Villefort, non si rinunzia così, credetemi, ad una fortuna di 900 mila fr.
 
— Ella rinunciava ancora al mondo, signore, poichè un anno fa voleva entrare in un monastero.
 
— Ebbene, io vi dico che questo matrimonio deve farsi.
 
— Ad onta della volontà di vostro padre? disse la sig.ª de Villefort toccando così un’altra corda, ciò è ben grave!
 
Monte-Cristo faceva sembiante di non ascoltare, e non perdeva neppure una parola di ciò che dicevano.
 
[317]
— N’importa, riprese Villefort, e posso dire che ho sempre rispettato mio padre, perchè al sentimento naturale della discendenza si univa in me la conoscenza della sua superiorità morale, perchè infine un padre è sempre sacro per due titoli, sacro come nostro autore, sacro come nostro padrone; ma oggi devo rinunziare a riconoscere una intelligenza in un vecchio che, per una semplice memoria di odio contro il padre, perseguita il figlio in tal modo; sarebbe dunque ridicolo in me conformare la mia condotta ai suoi capricci: continuerò ad avere il più gran rispetto pel sig. Noirtier; soffrirò senza lamentarmene la punizione pecuniaria che m’infligge; ma resterò irremovibile nella mia volontà ed il mondo giudicherà da qual lato sia la vera ragione. In conseguenza, mariterò mia figlia al barone Franz d’Épinay, perchè questo matrimonio è, a mio avviso, buono ed onorevole, e perchè in fine voglio maritare mia figlia a chi più mi piace.
 
— E che! disse il conte, del quale il procuratore del Re aveva costantemente sollecitata l’approvazione collo sguardo; e che! il sig. Noirtier disereda madamigella Valentina perchè sta per isposare il barone Franz d’Épinay?
 
— Eh! mio Dio! sì o signore; ecco la ragione, disse Villefort stringendosi nelle spalle.
 
— La ragione visibile, almeno, soggiunse la sig.ª de Villefort.
 
— La vera ragione, credetemi, io conosco mio padre.
 
— E come si capisce? rispose la giovane sposa. In che il sig. d’Épinay può dispiacer più di un altro al sig. Noirtier?
 
— In fatto, disse il conte, io ho conosciuto il sig. Franz d’Épinay; il figlio del generale Quesnel, n’è vero, fatto barone d’Épinay dal re Luigi XVIII?
 
— Precisamente, rispose Villefort.
 
— Ebbene! ma egli è un giovine grazioso, mi sembra.
 
— Per cui non è che un pretesto, ne sono certa, disse la sig.ª de Villefort; i vecchi sono tiranni nelle loro affezioni: il sig. Noirtier non vuole che sua nipote si mariti.
 
— Ma, disse Monte-Cristo, non conoscete la causa di quest’odio?
 
— Eh! mio Dio! chi può saperla?...
 
— Forse qualche antipatia politica...
 
— Di fatto mio padre ed il padre d’Épinay hanno vissuto nei tempi burrascosi, dei quali non ho veduto che gli ultimi giorni, disse Villefort.
 
— Vostro padre non era bonapartista? domandò Monte-Cristo. Mi sembra ricordarmi che mi avete detto qualche cosa su ciò.
 
— Mio padre prima d’ogni altra cosa è stato Giacobino, trasportato dalla emozione fuori dai confini della prudenza, e la toga da senatore che Napoleone gli aveva gettata sulle spalle, non faceva che mascherare l’uomo vecchio, senza averlo cambiato. Quando mio padre cospirava, non era per l’imperatore, era contro i Borboni, perchè egli non ha mai combattuto per le utopie non realizzabili, ma per le cose possibili, ed ha applicato alla riuscita di queste cose possibili le terribili teorie di Montaigne che non indietreggiava davanti a qualunque ostacolo.
 
— Ebbene! disse Monte-Cristo, il sig. Noirtier ed il sig. d’Épinay si saranno incontrati sul campo della politica, il sig. d’Épinay, quantunque avesse servito sotto Napoleone, avrebbe forse conservato nel fondo del cuore qualche sentimento realista? e non è lo stesso che fu assassinato uscendo da un club napoleonico, ov’era stato attirato nella speranza di ritrovarvi un fratello?
 
Villefort guardò il conte quasi con terrore.
 
— M’inganno forse? domandò Monte-Cristo.
 
— No, signore, disse la sig.ª de Villefort, anzi è precisamente così; ed appunto per quanto avete detto, e per vedere estinti questi odii antichi, il sig. de Villefort aveva avuta l’idea di fare amare i figli dei padri che si erano odiati.
 
— Idea sublime! idea piena di carità, ed alla quale tutto il mondo deve applaudire. In fatto, sarà bello il sentire madamigella Noirtier de Villefort chiamarsi la sig.ª Franz d’Épinay.
 
Villefort rabbrividì, e guardò Monte-Cristo come se avesse voluto leggere nel fondo del cuore con quale intenzione avesse pronunciate queste parole. Ma il conte conservò il benevolo sorriso impresso sulle sue labbra, ed ancor questa volta, ad onta della penetrazione del suo sguardo, il procuratore del Re non vide al di là dell’epidermide...
 
— Perciò, riprese Villefort, quantunque sia una gran disgrazia per Valentina di perdere le ricchezze di suo nonno, penso che il matrimonio non verrà meno per questo; io non credo che il sig. d’Épinay indietreggi in faccia di questo scacco pecuniario; vedrà che io valgo forse più della somma, io che la sacrifico al desiderio [318] di mantenere la mia parola. Calcolerà inoltre che Valentina è ricca anche coi soli beni di sua madre amministrati dal sig. e dalla sig.ª di Saint-Méran, suoi avi materni che la prediligono con tutta la tenerezza.
 
— E che meritano bene di essere amati al modo che Valentina ha fatto col sig. Noirtier, disse la sig.ª de Villefort; d’altra parte essi verranno a Parigi fra un mese al più, e Valentina, sarà dispensata dal seppellirsi come ha fatto fin qui presso il sig. Noirtier. — Il conte ascoltava con compiacenza la voce discordante di questi amor-propri feriti, e di questi interessi falliti. — Ma mi sembra, disse dopo un momento di silenzio, e vi chiedo prima perdono di ciò che sono per dirvi; mi sembra che se il sig. Noirtier disereda madamigella de Villefort, colpevole di volersi maritare con un giovine di cui egli detesta il padre, non ha lo stesso da rimproverare a questo caro Edoardo.
 
— N’è vero, gridò la sig.ª de Villefort con una intonazione impossibile a descriversi, che questa è una odiosa ingiustizia? Questo povero Edoardo è nipote del sig. Noirtier egualmente che Valentina, e ciò non ostante se Valentina non avesse dovuto sposare il sig. Franz, il sig. Noirtier le lasciava tutti i suoi beni; e per sopra più, Edoardo porta il nome della famiglia, e ciò non impedirebbe, quando anche Valentina venisse diseredata dal nonno, che ella fosse sempre tre volte più ricca di lui.
 
Lanciato questo colpo, il conte ascoltò, ma non parlò più.
 
— Basta, riprese Villefort, basta, sig. conte, cessiamo, vi prego, d’intrattenerci di queste miserie di famiglia; sì è vero, la mia fortuna andrà ad ingrossare le rendite dei poveri, che in oggi sono i veri ricchi. Sì, mio padre mi avrà privato di una legittima speranza e senza una ragione; ma io avrò operato da uomo di sentimento, da uomo di cuore. Il sig. d’Épinay al quale avevo promesso la rendita di questa somma, la riceverà, dovessi ancora impormi le più crudeli privazioni.
 
— Però, riprese la signora de Villefort, ritornando alla sola idea che mormorava senza posa in suo cuore, sarebbe forse stato meglio il confidare questa disavventura al sig. d’Épinay, e ch’egli stesso ritirasse la sua parola.
 
— Oh! sarebbe una gran disgrazia! gridò Villefort.
 
— Una gran disgrazia? ripetè Monte-Cristo.
 
— Senza dubbio, riprese Villefort raddolcendosi; un matrimonio fallito, anche per causa d’interesse, è sempre sfavorevole per una giovanetta; poi, antiche voci ch’io voleva estinguere, riprenderebbero consistenza. Ma no, non sarà niente; il sig. d’Épinay, se è un onest’uomo, si ritroverà ancor più impegnato dopo che Valentina è stata diseredata, di quel che lo era prima, altrimenti egli oprerebbe col semplice scopo dell’avarizia; no, questo è impossibile.
 
— Io la penso come il sig. de Villefort, disse Monte-Cristo fissando lo sguardo sopra la sig.ª de Villefort; e se io fossi abbastanza fra il numero dei suoi amici, per permettermi di dargli un consiglio, lo inviterei, (poichè il sig. d’Épinay sarà in breve di ritorno per quanto almeno mi è stato detto) ad annodare l’affare così strettamente, che non si possa più sciogliere; impegnerei finalmente una partita, la cui riuscita dev’essere tanto onorevole pel sig. de Villefort.
 
Quest’ultimo si alzò, trasportato da una gioia visibile, mentre che sua moglie impallidiva leggermente.
 
— Bene, diss’egli, ecco ciò ch’io domandava, ed io mi prevarrò dell’opinione di un consigliere come siete voi, disse stendendo la mano a Monte-Cristo. Per tal modo adunque, che tutti qui considerino quel che oggi è accaduto come non avvenuto; nulla v’è di cambiato nei miei disegni.
 
— Signore, disse il conte, il mondo, per quanto sia ingiusto, vi saprà grado della vostra risoluzione; i vostri amici ne saranno orgogliosi; ed il sig. d’Épinay, dovesse ancora sposare madamigella Valentina senza dote, ciò che non potrà essere, sarà superbo di potere entrare in una famiglia ove si sa innalzarsi all’altezza di simili sacrifici per mantenere la parola data. — Dicendo queste parole il conte s’era alzato e si disponeva a partire.
 
— Voi ci lasciate, sig. conte? disse la sig.ª de Villefort.
 
— Vi sono costretto, signora, io veniva soltanto a rammentarvi la vostra promessa per sabato.
 
— Temevate che la dimenticassimo?
 
— Siete troppo buona, ma il sig. de Villefort ha occupazioni sì gravi, e qualche volta sì urgenti...
 
— Mio marito ha data la sua parola, signore, disse la giovane sposa; ed avete veduto che la mantiene quand’anche vi è da perdere tutto, a più forte ragione quando vi è tutto da guadagnare.
 
[319]
— La riunioe ha luogo alla vostra casa dei Campi-Elisi?
 
— No disse Monte-Cristo, e ciò renderà il vostro sacrificio anche più meritorio, è in campagna.
 
— In campagna? — Sì. — E dov’è? vicino a Parigi?
 
— Alle porte, ad una mezza lega dalla barriera, ad Auteuil.
 
— Ad Auteuil! gridò Villefort. Ah! è vero, la signora mi disse che abitavate ad Auteuil, poichè nella vostra casa la trasportarono. E in qual posizione d’Auteuil?
 
— Strada della Fontana.
 
— Strada della Fontana! riprese Villefort con voce strangolata; ed a qual numero? — Al numero 28.
 
— Ma fu dunque venduta a voi la casa del sig. di Saint-Méran?
 
— Del sig. di Saint-Méran? domandò Monte-Cristo. Questa casa apparteneva dunque al sig. di Saint-Méran?
 
— Sì, rispose la sig.ª de Villefort; e credereste una cosa?
 
— Quale? — Voi trovate bella questa casa, n’è vero?
 
— Graziosa.
 
— Ebbene! mio marito non ha voluto mai abitarla.
 
— Oh! riprese Monte-Cristo, questa in verità è una prevenzione di cui non mi saprei render conto.
 
— Non mi piace Auteuil, signore, rispose il procuratore del Re facendo uno sforzo sopra sè stesso.
 
— Ma non sarò tanto disgraziato, spero, disse con inquietudine Monte-Cristo, perchè quest’antipatia mi privi del bene di ricevervi?
 
— No, credetemi farò tutto ciò che potrò, balbettò Villefort.
 
— Oh! rispose Monte-Cristo, non ammetto scuse. Sabato alle sei vi aspetto, e se non verrete, crederò che so io? che su questa casa disabitata graviti da vent’anni qualche lugubre tradizione, qualche sanguinosa leggenda.
 
— Vi verrò, sig. conte, disse vivamente Villefort.
 
— Grazie, disse Monte-Cristo. Ora bisogna che mi permettiate di prendere congedo da voi.
 
— In fatto avevate detto di essere costretto a lasciarci, sig. conte, disse la sig.ª de Villefort, e voi ci dicevate, voler fare ancora qualche cosa, quando siete stato interrotto per passare ad un’altra idea.
 
— In verità signora, disse Monte-Cristo, non so se oserò di dirvi ove vado. — Bah! dite pure.
 
— Io vado, da vero allocco che sono, a visitare una cosa che spesso mi ha tenuto distratto per delle ore intere.
 
— Quale?
 
— Un telegrafo: ecco la parola lanciata.
 
— Un telegrafo? ripetè la sig.ª de Villefort.
 
— Eh! mio Dio, sì, un telegrafo. Ho veduto qualche volta in capo di una strada sopra un poggio, un giorno di bel sole, innalzarsi queste braccia nere e snodate, simili alle zampe di una immensa coleoptra, e ciò non fu mai senza emozione, ve lo giuro, perchè pensava che questi segni bizzarri fendendo l’aria con precisione, e portando a trecento leghe la volontà sconosciuta di un uomo assiso ad una tavola ad un altr’uomo assiso all’estremità della linea davanti ad un’altra tavola, si disegnavano o sul grigio della nuvola, o sull’azzurro dei cieli per la sola forza del volere di questo capo possente. Allora io credeva ai geni, alle silfidi, ai folletti, infine a tutti i poteri occulti, e rideva. Ora, non mi era mai venuta la volontà di vedere da vicino questi grossi insetti dal ventre bianco, dalle zampe nere e magre, perchè temeva di ritrovare sotto le loro ali di pietra il piccolo genio umano, ben saputo, bene imburrato di scienza, di cabala, o di cancelleria. Ma ecco che un bel mattino intesi che il motore di ciascun telegrafo era un povero diavolo d’impiegato a 1200 fr. l’anno, occupato tutto il giorno a guardare, non il cielo come l’astronomo, non l’acqua come il pescatore, non il paesaggio come un cervello vòto; ma invece l’insetto dal ventre bianco e dalle zampe nere, suo corrispondente, situato 4, o 5 leghe lontano da lui. Allora mi son sentito prendere da un desiderio curioso di vedere da vicino questa crisalide vivente, e di assistere alla commedia che dal fondo della sua buccia ella dà all’altra crisalide tirandogli uno dopo gli altri alcuni capi della cordicella.
 
— E voi volete andare là? — Sì, vi vado.
 
— A qual telegrafo? a quello del ministero dell’Interno, o a quello dell’osservatorio?
 
— Oh! no, troverei là delle persone che vorrebbero costringermi ad imparare delle cose che desidero ignorare, e che mi spiegherebbero contro mia voglia un mistero che essi non conoscono. Diavolo, voglio conservare quelle illusioni che ho sugl’insetti; è ben molto che abbia perduto quelle che avevo sugli uomini. Non andrò dunque, nè al telegrafo del ministero [320] dell’Interno, nè a quello dell’osservatorio. Ciò che mi abbisogna, è il telegrafo in piena campagna per ritrovarvi il solo buon uomo petrificato nella sua torre.
 
— Siete un singolar gran signore, disse Villefort.
 
— Qual linea mi consigliate di studiare?
 
— Quella che in oggi è la più occupata.
 
— Bene! quella di Spagna dunque?
 
— Precisamente. Volete una lettera del ministero perchè vi facciano delle spiegazioni?...
 
— Ma no, disse Monte-Cristo, poichè vi dico che al contrario io non ci voglio capir niente. Dal momento in cui capissi qualche cosa, non vi sarebbe più telegrafo, non vi sarebbe più che un segno del signor Duchâtel, o del signor Montalivet trasmessi al prefetto di Baiona, travestiti in due parole greche: téle, graphéin. È la bestia dalle zampe nere, la parola misteriosa che io voglio conservare in tutta la sua purezza ed in tutta la mia venerazione.
 
— Andate dunque, perchè fra due ore sarà notte, e voi allora non vedreste più niente.
 
— Diavolo! voi mi spaventate! qual è il più vicino?
 
— Sulla strada di Baiona?
 
— Sì, sia sulla strada di Baiona!
 
— È quello di Chàtillon.
 
— E dopo quello di Chàtillon?
 
— Quello della torre Montlhéry, io credo.
 
— Grazie! a rivederci! sabato io vi racconterò le mie impressioni.
 
Alla porta il conte s’incontrò coi due notari che avevano diseredata Valentina, e che si ritiravano incantati di aver fatto un atto che avrebbe certamente procurato loro un grande onore.
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