— Sig. conte, gli disse, permettetemi di dar principio al mio ufficio di cicerone col darvi la descrizione dell’appartamento di uno scapolo. Abituato ai palazzi d’Italia, non sarà piccolo studio per voi il calcolare in quanti piedi quadrati può vivere un giovine che passa per non essere male alloggiato. Passando noi da una camera all’altra apriremo le finestre, perchè possiate respirare.
Monte-Cristo conosceva già il salotto, e la camera da pranzo del piano terreno. Alberto lo condusse da prima nel suo studio, ciascuno si ricorderà che questa era la stanza di predilezione d’Alberto.
Monte-Cristo era un valente conoscitore di tutte le cose che Alberto aveva ammassate in questa stanza; antichi scrigni, porcellane del Giappone, stoffe d’Oriente, specchi di Venezia, armi di tutti i paesi del mondo, ogni cosa gli era famigliare, e al primo colpo d’occhio riconosceva il secolo, il paese, l’origine. Morcerf erasi creduto di dover tutto spiegare, ed al contrario egli faceva sotto la direzione del conte un corso completo di archeologia, mineralogia, e storia naturale. Discesero quindi al primo piano. Alberto introdusse il suo ospite nella camera di ricevimento, tappezzata di capi d’opera dei moderni pittori. V’erano paesaggi di Dupré dai lunghi canneti, dagli alberi slanciati, dalle vacche che pascolavano sotto un cielo maraviglioso; cavalieri arabi di Delacroix coi lunghi burnous bianchi, coi cinti brillantati, colle armi damaschine, i cavalli de’ quali mordevansi con rabbia, mentre che gli uomini si laceravano colla mazza di ferro; v’erano acquarelli di Boulanger, che rappresentavano tutti Nostra-donna di Parigi con quel vigore che rende il pittore emulo del poeta; quadri di Diaz che fa i fiori più belli dei fiori, il sole più brillante del sole; disegni di Dechamp tanto coloriti quanto quelli di Salvator Rosa, ma più poetici; quadri a pastello di Giraud e di Müller che rappresentavano fanciulli colle teste da angeli, e le donne colle sembianze di vergini; abbozzi tolti dall’album di Dauzats nel suo viaggio in Oriente, fatti colla matita in pochi secondi stando o sulla sella di un cammello, o sulla cupola di una moschea; finalmente tutto ciò che l’arte moderna può dare in cambio ed in compenso dell’arte perduta e svanita coi secoli passati.
Alberto supponeva di potere almeno questa volta mostrare qualche cosa di nuovo al suo strano viaggiatore; ma con sua grande sorpresa, questi, senza aver bisogno di guardare le sottoscrizioni, di cui alcune erano segnate soltanto colle iniziali, a ciascun’opera assegnava il nome dell’autore, e in modo tale che era facile accorgersi che, non solo gli erano noti i nomi di questi autori, ma che le loro opere erano state studiate ed apprezzate giustamente da lui.
Da questa camera si passò a quella da dormire. Questa era un modello di eleganza ad un tempo e di gusto severo: là non v’era che un sol ritratto; ma segnato col nome di Leopoldo Robert, risplendente in una cornice d’oro massiccio.
Questo quadro attirò subito l’attenzione del conte, perchè fece tosto tre passi rapidi ed andò a fermarsi davanti ad esso. Era quello di una donna giovane da 25 a 26 anni, con colorito bianco, sguardo acuto, velato sotto una palpebra languente; essa portava il costume pittoresco delle pescatrici catalane colla giubba rossa e nera, e gli spilli faccettati nei capelli guardava il mare, e l’elegante profilo si staccava sopra il doppio azzurro delle onde e del cielo.
La luce della camera era oscura, senza di che Alberto sarebbesi accorto del pallore livido che si era sparso sulle guance del conte, ed avrebbe scoperto il fremito convulso che gli sfiorò le spalle ed il petto.
Vi fu un momento di silenzio, nel quale Monte-Cristo restò fisso coll’occhio sulla pittura.
— Voi avete qui una bella amica, visconte, disse Monte-Cristo con una voce perfettamente tranquilla; e questo costume, certamente costume di ballo, le sta a meraviglia.
— Ah! signore, ecco uno sbaglio ch’io non vi perdonerei, se vicino a questo ritratto voi ne aveste veduto qualche altro. Voi non conoscete mia madre, signore; è lei che vedete in questo quadro; essa si fece ritrattare così saranno sette o 8 anni. Questo costume è di fantasia, a quanto pare, e la rassomiglianza è tanto grande, che mi pare sempre di vedere mia madre tale quale era nel 1830. La contessa fece fare questo ritratto in assenza del conte. Senza dubbio credeva di preparargli una dolce sorpresa pel ritorno; ma, cosa bizzarra, questo ritratto dispiacque a mio padre; ed il merito della pittura, che come vedete è una delle più [221] belle opere di Leopoldo Robert, non potè vincerla sulla sua antipatia. È vero, sia detto fra noi, mio caro sig. conte, che mio padre è uno dei pari più assidui al Lussemburgo, un generale rinomato per la teoria, ma è un conoscitore di arti dei più mediocri; non è lo stesso però di mia madre, che dipinge in modo notevole, e che, stimando troppo questo lavoro per separarsene del tutto, l’ha regalato a me, perchè qui fosse meno esposto a dispiacere al sig. Morcerf, di cui vi farò vedere a suo tempo il ritratto dipinto da Gros. Perdonatemi se vi parlo in tal guisa di cose intime di famiglia; ma siccome avrò l’onore di presentarvi fra momenti al conte, vi dico tutto ciò, perchè non vi avesse a sfuggire qualche elogio di questo quadro in sua presenza. Del rimanente però, ha una trista influenza; è difficile che mia madre venga in camera mia senza fermarsi a contemplarlo, e più difficile ancora che lo contempli senza piangere. La nube che portò questa pittura in famiglia, è del resto la sola che sia insorta fra il conte e la contessa, che, sebbene maritati da più di 20 anni, sono uniti come se fosse il primo giorno.
Monte-Cristo vibrò una rapida occhiata sur Alberto, come per cercare un fine nascosto alle sue parole, ma apparve evidente che il giovine le aveva pronunciate con tutta semplicità.
— Ora, disse Alberto, avete veduto tutte le mie ricchezze, sig. conte, permettetemi di offrirvele, per quanto sieno indegne di voi; consideratevi come in casa vostra, e per mettervi ancora a maggior comodo vostro, abbiate la bontà di accompagnarmi dal sig. de Morcerf, al quale scrissi da Roma il servigio che mi avete reso, e cui ho annunziata la visita che mi avevate promessa, e, posso assicurarvene, il conte e la contessa aspettano con impazienza che loro sia permesso di ringraziarvene; siete un poco singolare in tutte le cose, lo so, sig. conte, e forse le scene di famiglia non hanno molta azione su Sindbad il marinaro: avete vedute tante scene! Frattanto però accettate ciò che vi propongo come iniziativa alla vita parigina, vita di cortesie, di visite e di presentazioni.
Monte-Cristo s’inchinò senza rispondere: egli accettò la proposta senza entusiasmo e senza rincrescimento, come una di quelle convenienze sociali, di cui ciascun uomo, come si deve, si fa un dovere. Alberto chiamò il cameriere, e gli ordinò d’andare a prevenire il sig. e la sig.ª de Morcerf del prossimo arrivo del conte di Monte-Cristo.
Alberto lo seguì col conte. Giungendo nell’anticamera del conte, vedevasi, al di sopra della porta che metteva nel salotto, uno scudo, che dai ricchi fregi che lo circondavano, e dall’armonia cogli arredi della stanza, scorgevasi in quanto conto fosse tenuto.
Monte-Cristo si fermò davanti a questo blasone e lo esaminò con attenzione. — Sette merli d’oro a stormo, in campo azzurro. Questa senza dubbio è l’arme della vostra famiglia, domandò egli. Facendo astrazione dai pezzi del blasone che mi permettono di decifrarla, sono molto ignorante in materia araldica; io conte per caso, fatto in Toscana per aver fondata una commenda di Santo-Stefano, e che mi sarei contentato d’essere semplicemente un gran signore, se non mi fosse più volte ripetuto, che per uno che viaggia molto, un titolo è cosa necessaria. E di fatto il portare un’arme allo sportello della carrozza è cosa molto utile, non foss’altro che per non essere visitati dai doganieri. Scusatemi dunque se vi ho fatta questa domanda.
— Essa non è punto indiscreta, disse Morcerf colla semplicità della convinzione, e avete colto nel vero: queste sono le nostre armi, vale a dire, quelle del capo della famiglia, di mio padre; ma esse, come vedete, sono inquartate con un altro scudo, che è composto di gole con torri d’argento e che proviene dal capo della famiglia di mia madre. Dal lato di donna io sono spagnuolo, ma la famiglia Morcerf è francese, a quanto ho inteso dire, è ancora una delle più antiche del mezzodì della Francia.
— Sì, rispose Monte-Cristo, è quello che viene indicato dai merli. Quasi tutti i pellegrini armati che tentarono o fecero la conquista della terra santa, presero per loro armi, o croci, simbolo della missione alla quale si erano astretti con voto, o uccelli di passaggio, simbolo del lungo viaggio che imprendevano, e supponendo ancora che non fosse che a tempo di S. Luigi; ciò nonostante vi fa risalire al XIII secolo, il che è ancora bello.
— Ciò è possibile, disse Morcerf; in un angolo del gabinetto di mio padre vi è un albero genealogico che ci dirà questo, sul quale in altri tempi io aveva scritto dei commentari, che avrebbero edificato d’Hozier e Jaucourt. Ora non ci penso più, e ciò non ostante vi dirò, sig. conte, e questo rientra nelle mie attribuzioni [222] di cicerone, che già cominciano di nuovo ad occuparsi di queste cose, sotto il nostro governo popolare.
— Ebbene! allora il vostro governo dovrebbe scegliere nel suo passato qualche cosa di meglio che quelle due tavole che ho vedute sui vostri monumenti, e che non hanno alcun senso araldico. Quanto a voi, visconte, riprese Monte-Cristo ritornando a Morcerf; voi siete più fortunato del vostro governo, perchè le vostre armi sono veramente belle, e parlano all’immaginazione. Sì, voi siete ad un tempo della Provenza e della Spagna; e ciò mi spiega, (se il ritratto che mi avete mostrato è rassomigliante) il color bruno che tanto ammirai sul viso della nobile catalana. — Avrebbe bisognato essere Edipo, o lo stesso sfinge per indovinare l’ironia che mise il conte in queste parole, coperte in apparenza dalla maggior gentilezza: per cui Morcerf lo ringraziò con un sorriso, e, passando il primo, per insegnargli la strada, spinse la porta che, come si disse, metteva nel salotto di ricevimento. Nel luogo più esposto di questo salotto si vedeva egualmente un ritratto; era quello di un uomo dai 35, ai 40 anni, vestito coll’uniforme di ufficiale generale, portando la doppia spallina particolare ai gradi superiori; la decorazione della legion d’onore al collo, il che indicava esser egli commendatore, e sul petto a dritta la placca di grande ufficiale dell’ordine del Salvatore, a sinistra quella di gran-croce dell’ordine di Carlo III, ciò che indicava che la persona rappresentata da questo ritratto aveva fatto le guerre di Grecia e di Spagna, o ciò che torna perfettamente lo stesso in materia di decorazioni, avere adempita qualche missione diplomatica nei due paesi.
Monte-Cristo era occupato a guardare questo ritratto con non minore premura di quel che aveva fatto l’altro, allorchè la porta laterale si aprì, ed egli trovossi in faccia al conte di Morcerf in persona.
Era un uomo fra i 40 ai 45 anni, ma che ne dimostrava almeno 50, i cui baffi e sopraccigli nerissimi spiccavano stranamente coi capelli quasi bianchi tagliati corti a spazzola giusta l’uso militare. Era vestito da borghese, e portava all’occhiello un nastro le cui strisce a diversi colori indicavano i vari ordini di cui era decorato. Quest’uomo entrò con passo nobile, ma con una specie di fretta, Monte-Cristo l’osservò inoltrarsi senza muover passo; si sarebbe detto che i piedi erano inchiodati al pavimento, come gli occhi sul viso del conte.
— Padre mio, disse il giovine, ho l’onore di presentarvi il sig. conte di Monte-Cristo, quel generoso amico che ho avuto la fortuna d’incontrare nelle difficili congiunture che sapete.
— Signore, voi siete il ben venuto fra noi, disse il conte di Morcerf salutando Monte-Cristo con un sorriso, nel salvare alla mia famiglia l’unico suo erede, avete reso alla nostra casa un servigio che vi merita la nostra eterna riconoscenza. — Dicendo queste parole il conte di Morcerf indicava una seggiola a bracciuoli a Monte-Cristo, nel medesimo tempo ch’egli stesso si sedeva in faccia alla finestra.
Quanto a Monte-Cristo, prendendo la seggiola indicata dal conte di Morcerf, si situò in modo da rimanere nascosto nell’ombra delle grandi tende di velluto, ed a leggere di là sui tratti impressi dalle fatiche e dalle cure del conte, scritte in ciascuna ruga venuta innanzi tempo.
— La contessa, disse Morcerf, era alla toletta, allorchè il visconte l’ha fatta prevenire della visita che avrebbe avuto l’onore di ricevere; ella sta per discendere, e fra dieci minuti sarà in salotto.
— È molto onore per me, disse Monte-Cristo, di essere messo in rapporto, fin dal primo giorno in cui sono in Parigi, con un uomo il cui merito è eguale alla riputazione, e pel quale la fortuna giusta questa volta, non ha commesso errore: ma non ha essa ancora nelle pianure di Mitidia o nelle montagne dell’Atlante, un bastone da Maresciallo da offrirvi?
— Oh! replicò Morcerf arrossendo alcun poco, io ho lasciato il servizio, signore. Nominato pari sotto la restaurazione, era nella prima campagna, e serviva sotto gli ordini del maresciallo Bourmont; potea dunque pretendere un comando superiore, e chi sa ciò che sarebbe accaduto, se la dinastia primogenita rimaneva sul trono? Ma la rivoluzione di luglio, a quanto sembra, era abbastanza gloriosa per potersi permettere d’essere ingrata; ella lo fu per tutti i servigi che non portavano la data del periodo imperiale; chiesi dunque la dimissione, perchè, quando uno ha guadagnato come me, le spalline sul campo di battaglia, non sa egualmente manovrare sul terreno sdrucciolevole delle sale. Ho lasciata la spada, e mi sono ingolfato nella politica; mi dedico all’industria e studio le arti utili. Nei vent’anni che sono rimasto al servizio [223] ne aveva il desiderio, ma non ne aveva avuto il tempo.
— Sono queste idee che portano la superiorità della vostra nazione sugli altri paesi, signore, rispose Monte-Cristo. Gentiluomo uscito da una gran famiglia, possedendo una bella fortuna, avete sulle prime voluto acquistarvi i primi gradi come oscuro soldato, la qual cosa è molto rara; quindi divenuto generale, pari di Francia, commendatore della legion d’onore, acconsentite ad incominciare un secondo noviziato, senz’altra ricompensa che quella d’essere un giorno utile ai vostri simili... Ah! signore, ecco quello che può veramente dirsi bello; dirò anche più, sublime.
Alberto guardava ed ascoltava Monte-Cristo con meraviglia: egli non era avvezzo a vederlo alzarsi a simili idee d’entusiasmo. — Ahimè! continuò lo straniero, senza dubbio per far disparire l’impercettibile nube che era passata sulla fronte di Morcerf, noi non facciamo così in Italia, cresciamo secondo la nostra razza e la nostra specie, e conserviamo la stessa corteccia, la stessa dimensione, e dirò ancora la stessa inutilità per tutta la vita.
— Ma, signore, per un uomo del vostro merito, l’Italia non può essere sua patria, e la Francia vi apre le braccia: corrispondete alla sua chiamata, la Francia forse non sarà ingrata con tutti; essa è accostumata ad accogliere generosamente gli stranieri.
— Eh! padre mio, si vede bene che non conoscete il conte di Monte-Cristo. Le sue soddisfazioni sono al di fuori di questo mondo; egli non aspira agli onori, e ne prende soltanto quanti ne possono stare sul suo passaporto.
— Ecco l’espressione più giusta che abbia mai inteso sul conto mio; rispose lo straniero.
— Il signore è stato padrone del suo avvenire: ecco perchè ha scelto un sentiero di fiori, disse sospirando de Morcerf.
— Precisamente, signore, replicò Monte-Cristo con uno di quei sorrisi che un pittore non potrà mai riprodurre, e che un fisiologo sarebbe disperato ad analizzare.
— Se non avessi avuto timore di stancare il sig. conte, disse il generale evidentemente lusingato dalle parole di Monte-Cristo, lo avrei condotto alla Camera; oggi vi è una seduta curiosa per chi non conosce i nostri moderni senatori.
— Vi sarò molto riconoscente se vorrete rinnovarmi questa offerta un’altra volta; ma oggi sono stato lusingato dalla speranza di essere presentato alla sig.ª contessa, ed aspetterò.
— Ah! ecco appunto mia madre, gridò Alberto.
Di fatto Monte-Cristo rivolgendosi velocemente vide la sig.ª de Morcerf sul limitare della porta opposta a quella per cui era entrato il marito; immobile e pallida; ella, tosto che Monte-Cristo si volse dalla sua parte, lasciò cadere il braccio che, non si sa perchè, s’era appoggiato sulla maniglia dorata; stava là, da qualche secondo, ed aveva inteso le ultime parole pronunciate dal viaggiatore oltramontano. Questi si alzò e salutò profondamente la contessa, che s’inchinò anch’essa, muta e cerimoniosa.
— Eh! mio Dio! signora che avete? domandò il conte, sarebbe forse il calore di questo salotto che vi fa male?
— State poco bene, madre mia? gridò il visconte lanciandosi incontro a Mercedès. — Essa li ringraziò entrambi con un sorriso. — No, diss’ella, ma io ho provata una certa emozione nel vedere per la prima volta colui, senza l’aiuto del quale ora saremmo immersi nelle lagrime, e nel lutto. Signore, continuò la contessa avanzandosi colla maestà di una regina, vi debbo la vita di mio figlio, e per questo benefizio vi benedico. Ora vi sono grata del piacere che mi procurate offrendomi l’occasione di ringraziarvi come vi ho benedetto, cioè con tutto il cuore.
Il conte s’inchinò, ma più profondamente della prima volta; egli era ancora più pallido di Mercedès.
— Signora, diss’egli, il sig. conte e voi mi ringraziate troppo esuberantemente di un’azione semplicissima. Salvare un uomo, risparmiare un tormento al padre, economizzare la sensibilità di una donna, ciò non chiamasi fare un’opera buona, ma fare un atto di umanità.
A queste parole pronunciate con dolcezza, e con isquisita gentilezza, la sig.ª de Morcerf rispose con accento profondo:
— È una fortuna per mio figlio, l’avervi per amico, e ringrazio Dio che ha in tal modo disposte le cose. — E Mercedès alzò gli occhi al cielo con una gratitudine così infinita, che il conte credè vedervi tremolare due lagrime.
Il sig. de Morcerf si avvicinò a lei:
— Signora, ho già fatto le mie scuse al sig. conte per essere obbligato a lasciarlo: vi prego di rinnovarle. La seduta si è aperta alle due, ora sono le tre, ed io sono obbligato a parlare.
[224]
— Andate, signore, cercherò di fare dimenticare la vostra assenza al nostro ospite, disse la contessa collo stesso accento di sensibilità; il sig. conte, proseguì la contessa volgendosi a Monte-Cristo, vorrà egli farci la grazia di passare il resto del giorno con noi?
— Grazie, signora, sono, credetelo, riconoscente nel modo più grande alla vostra offerta; ma questa mattina sono disceso dalla carrozza da viaggio alla vostra porta. Non so come sia installato a Parigi, dove, appena mi è noto. È una inquietezza leggera, lo so, non per tanto è da considerarsi.
— Avremo questo piacere un’altra volta almeno, ce lo promettete? domandò la contessa.
Monte-Cristo s’inchinò senza rispondere, ma il gesto poteva passare per un consenso. — Allora io non vi trattengo, signore, disse la contessa, poichè non voglio che la mia riconoscenza divenga o una importunità, o una indiscretezza.
— Mio caro conte, disse Alberto, se lo volete, cercherò di corrispondere alla vostra graziosa cortesia di Roma col mettere là una carrozza a vostra disposizione, fino a che abbiate avuto il tempo di provvedervi del vostro equipaggio.
— Mille grazie alla vostra cortese offerta, visconte, disse Monte-Cristo, ma presumo che Bertuccio avrà convenientemente impiegate le quattr’ore che gli ho concesse, e che troverò alla porta una carrozza qualunque già attaccata.
Alberto era abituato a queste maniere del conte; sapeva che come Nerone, egli era alla ricerca dell’impossibile, di nulla più si meravigliava; soltanto volle giudicare da sè stesso in qual modo erano stati eseguiti gli ordini di lui e lo accompagnò fino alla porta di strada. Monte-Cristo non s’era sbagliato; appena comparve nell’anticamera del conte de Morcerf, uno staffiere, lo stesso che a Roma era venuto a portare il biglietto del conte ai due giovani, e ad annunziar loro la sua visita, si era slanciato fuori dal peristilio, di modo che giungendo al portone, l’illustre viaggiatore trovò la carrozza che lo aspettava. Era un coupé della fabbrica di Keller, e due cavalli, pei quali Drake aveva, secondo che sapevano tutti i Lions di Parigi, rifiutato il giorno innanzi 18 mila fr. — Signore, disse il conte ad Alberto, non vi propongo di accompagnarmi fino da me, non potrei mostrarvi che una casa improvvisata, e sul rapporto degl’improvvisi ho una riputazione da riservare. Accordatemi un giorno, ed allora permettetemi d’invitarvi: sarò più sicuro di non mancare alle leggi dell’ospitalità.
— Se mi chiedete un giorno, sig. conte, sono tranquillo: non sarà più una casa che mi mostrerete, ma un palazzo. Voi dovete avere in vero qualche genio a vostra disposizione.
— In fede mia continuate a crederlo, disse Monte-Cristo, mettendo il piede sul montatoio guarnito in velluto del suo splendido equipaggio: ciò potrà essermi utile, signore.
E si lanciò nella carrozza, che si chiuse dietro a lui e partì al galoppo, ma non tanto rapidamente che il conte non potesse accorgersi del movimento impercettibile che smosse la tenda del salotto ove aveva lasciato la sig.ª de Morcerf. Quando Alberto ritornò da sua madre, ritrovò la contessa nel gabinetto, gettata sopra un seggiolone di velluto; tutta la camera essendo nell’ombra, non lasciava scorgere che la foglietta d’oro sfavillante attaccata qua e là o sul corpo di qualche vaso, o agli angoli di qualche quadro.
Alberto non potè vedere il volto della contessa nascosto sotto la nube del velo che le circondava la testa come un’aureola di vapore, ma gli sembrò che la voce fosse alterata; distinse ancora fra gli odori di rose e vainiglie della giardiniera, la traccia aspra e mordente del sale d’aceto, sopra una delle tazze cisellate del caminetto; di fatto la boccettina della contessa, tolta dal suo astuccio di velluto, attirò l’inquieta attenzione del giovine.
— Soffrite, madre mia? gridò egli entrando; o vi sareste sentita male mentre io non c’ero?
— Io? no, Alberto, ma capirete, queste rose, queste tuberose, questi fiori di arancio incomodano nei primi calori quando non si è ancora abituati, sì violenti profumi...
— Allora; madre mia, disse Alberto portando la mano al campanello, bisogna farli portare nella vostra anticamera: siete veramente indisposta; anche poco fa, quando entraste, eravate molto pallida. — Ero pallida, dite voi, Alberto? — Di un pallore che vi sta a meraviglia, madre mia, ma che però non ha spaventato meno mio padre e me.
— Vostro padre ve ne ha parlato? domandò vivacemente Mercedès. — No, signora, ma fu a voi stessa che diresse questa osservazione. — Non me ne ricordo, disse la contessa.
Entrò un cameriere, chiamato dal suono [225] del campanello tirato da Alberto. — Portate questi fiori in anticamera, o nel gabinetto della toletta, disse il visconte, essi fanno male alla sig.ª contessa. — Il cameriere obbedì.
Vi fu un abbastanza lungo silenzio che durò tutto il tempo dello sgombero.
— Che è dunque questo nome di Monte-Cristo? chiese la contessa quando il domestico uscì portando via l’ultimo vaso di fiori. È un nome di famiglia, un nome di una terra, o un semplice titolo?
— Questo è, io credo, un titolo, madre, e nient’altro. Il conte ha comprata un’isola nell’arcipelago toscano, ed ha, per quanto ha detto egli stesso questa mattina, fondata una commenda. Voi sapete che ciò si usa per santo Stefano di Firenze, per san Gregorio Costantiniano di Parma, ed anche per l’ordine di Malta. Del rimanente non ha alcuna pretensione di nobiltà, e si chiama un conte per caso, quantunque l’opinione generale di Roma fosse che il conte sia un gran signore.
— I suoi modi sono eccellenti, per quanto ho potuto giudicarne nei pochi momenti che si è trattenuto.
— Oh! perfetti, madre mia, anzi tanto perfetti, che sorpassano molto tutto ciò che ho conosciuto di più aristocratico nelle tre nobiltà più orgogliose d’Europa, cioè nella nobiltà Inglese, Spagnuola, e Germanica. — La contessa riflettè un momento, poi dopo una breve esitazione riprese:
— Avete veduto, mio caro Alberto... questa è una domanda da madre che vi faccio, lo capirete, avete veduto il signor di Monte-Cristo nel suo interno? voi avete della perspicacia, voi avete uso di mondo, e un tatto maggiore di quello che d’ordinario si ha alla vostra età; credete che il conte sia quello che comparisce realmente d’essere?
— E che comparisce egli? — Voi stesso lo avete detto non ha guari, un gran signore. — Vi ho detto, madre mia, ch’egli era ritenuto per tale. — Ma che ne pensate voi?
— Io non ho, ve lo confesso, un’opinione ben fissa su di lui, lo credo Maltese. — Io non v’interrogo sulla sua origine, ma v’interrogo sulla sua persona. — Ah! sulla sua persona è tutt’altro; ed ho vedute tante cose strane di lui, che se voleste che vi dicessi ciò che ne penso, vi risponderei che lo riguardo volentieri come uno degli uomini di Byron, che la disgrazia ha marcati con un sugello fatale; qualche Manfredo, qualche Lara, qualche Werner, come uno di quegli avanzi infine di vecchia famiglia che, diseredati della fortuna paterna, ne hanno ritrovata una colla forza del loro genio avventuriero che li ha posti al di sopra delle leggi della società... Dico che Monte-Cristo è un’isola in mezzo al Mediterraneo, senza abitanti, senza guarnigione, asilo di contrabbandieri di tutte le nazioni, di pirati di tutti i paesi. Chi sa che questi degni industriosi non paghino al loro signore il diritto d’asilo?
— È possibile, disse la contessa con astrazione.
— Ma non importa, riprese il giovine, contrabbandiere o no, converrete, madre mia (perchè l’avete veduto) il sig. conte di Monte-Cristo è un uomo notevole, ed avrà i più grandi successi nelle sale di Parigi. E questa mattina da me ha incominciato il suo ingresso nel mondo destando in tutti ammirazione, perfino in Château-Renaud.
— E che età potrà avere il conte? chiese Mercedès attaccando visibilmente grande importanza a questa interrogazione.
— Avrà 35, o 36 anni, madre mia.
— Così giovine! è impossibile, disse Mercedès, rispondendo contemporaneamente a ciò che le diceva Alberto, e a ciò che le diceva il proprio pensiero.
— Eppure questa è la verità; tre o quattro volte mi ha detto, e certamente senza premeditazione: «Alla tal epoca aveva 5 anni, alla tal altra 10, alla tal altra 12.» Io che ero ritenuto all’erta dalla curiosità su questi particolari, ho riavvicinate le date, e non l’ho mai ritrovato in fallo. L’età di quest’uomo singolare, che non ha età, è dunque, ne sono sicuro, di 35 anni. Per sopra più, ricordatevi, madre mia, quanto è vivace il suo sguardo, come sono neri i capelli, e come la fronte, sebbene pallida, è esente da rughe; questa è una natura non solo vigorosa, ma ancor giovane.
La contessa abbassò il capo come sotto un’onda troppo pesante d’amari pensieri.
— E quest’uomo ha stretta amicizia con voi? domandò ella con un fremito nervoso.
— Lo credo, madre mia.
— E voi... lo amate egualmente?
— Egli mi piace, che che ne dica Franz d’Épinay che lo voleva far comparire ai miei occhi come un uomo uscito dall’altro mondo. — La contessa fece un movimento di terrore: — Alberto, diss’ella con voce alterata; io vi ho sempre messo in guardia contro le nuove conoscenze. [226] Ora siete un uomo, e potreste dar consigli a me stessa; ciò non pertanto vi ripeterò. Siate prudente, Alberto.
— Mia cara madre, perchè il consiglio fosse approfittevole, bisognerebbe che io sapessi di che cosa debbo non fidarmi. Il conte non giuoca mai, il conte non beve che dell’acqua dorata con qualche goccia di vino di Spagna, il conte si è annunziato tanto ricco, che non potrebbe chiedermi in prestito del danaro senza esporsi a farsi ridere sul naso; che volete dunque che io tema per parte del conte?
— Voi avete ragione, disse la contessa, ed i miei terrori sono folli, particolarmente avendo per oggetto un uomo che vi ha salvata la vita. A proposito, Alberto, vostro padre lo ha ricevuto bene? è necessario che noi siamo più che convenienti col conte. Il sig. de Morcerf qualche volta è preoccupato, i suoi affari lo rendono astratto, e potrebbe darsi, senza volerlo...
— Mio padre si è condotto perfettamente, interruppe Alberto; dirò di più, egli è sembrato grandemente lusingato dei due o tre complimenti più accorti, che il conte gli ha strisciati tanto fortunatamente quanto a proposito, come se lo avesse conosciuto da 30 anni. Ciascuna di queste piccole frecce di lode ha dovuto solleticare mio padre, soggiunse Alberto ridendo, poichè si sono lasciati come i due più grandi amici del mondo, ed il sig. de Morcerf lo voleva perfino condurre alla Camera per fargli sentire il suo discorso.
La contessa non rispose; essa era assorta in un’astrazione così profonda che i suoi occhi eransi chiusi poco a poco. Il giovine in piedi a lei dinanzi la guardava con quell’amor filiale che è ancor più tenero e più affettuoso nei figli, le madri dei quali sono ancor giovani e belle; poi, dopo aver veduto gli occhi di lei chiudersi, l’ascoltò respirare un momento nella sua dolce immobilità, e, credendola assopita, si allontanò sulla punta dei piedi, chiudendo con cautela la porta della camera ove lasciava sua madre.
— Che diavolo d’uomo! mormorò egli scuotendo la testa, gli aveva ben predetto laggiù che avrebbe fatta gran sensazione al nostro mondo; io ne calcolo l’effetto sur un termometro infallibile. Mia madre lo ha osservato, dunque bisogna dire ch’egli sia molto notevole. — Indi discese nelle scuderie, non senza un segreto dispetto, perchè il caso aveva portato che il conte di Monte-Cristo si fosse provveduto d’una pariglia, che mandava i suoi bai al numero secondo nell’animo dei veri intelligenti.
— Davvero, diss’egli, gli uomini non sono tutti eguali, bisognerà che preghi mio padre di sviluppare questo teorema alla Camera alta.