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LI. — TOSSICOLOGIA.

时间:2021-06-29来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:Era realmente il conte di Monte-Cristo che entrava dalla sig. de Villefort, colla intenzione di restituirle la visita ch
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 Era realmente il conte di Monte-Cristo che entrava dalla sig.ª de Villefort, colla intenzione di restituirle la visita che il procuratore del re gli aveva fatta, ed a questo nome tutta la casa, come lo si può ben figurare, s’era messa in emozione. La sig.ª de Villefort, che non era sola nel salotto, quando fu annunziato il conte, fece subito chiamare suo figlio, perchè rinnovasse i ringraziamenti al conte, ed Edoardo, che da due giorni non aveva cessato di sentir parlare di questo gran personaggio, accorse in fretta, non per ubbidire a sua madre, non per ringraziare il conte, ma per fare qualche osservazione, e così pronunciare uno di quei lazzi che facevano dire a sua madre: oh! che cattivo fanciullo; ma bisogna pure che gli perdoni; ha tanto spirito!
 
Dopo i primi complimenti d’uso, il conte domandò del sig. de Villefort: — Mio marito è andato a pranzo dal sig. cancelliere, rispose la giovane sposa; è partito sono pochi momenti, e sarà bene dispiaciuto, ne son sicura, di essere stato privato della fortuna di vedervi. — Gli altri due visitatori che avevano preceduto il conte nel salotto, e che lo divoravano cogli occhi, si ritirarono dopo quel tempo conveniente che esige l’educazione e la curiosità. — A proposito, che fa dunque tua sorella Valentina? domandò la sig.ª de Villefort ad Edoardo; ch’ella sia prevenuta affinchè abbia l’onore di presentarla al sig. conte.
 
— Avete una figlia, signora? domandò il conte; ma ella deve essere una bambina.
 
— È la figlia del sig. de Villefort, replicò la giovane sposa; una figlia del primo matrimonio; una bella giovinetta.
 
— Ma malinconica, interruppe il giovine Edoardo, strappando per farsene un pennacchio al cappello una penna di una magnifica ara, che gridava pel dolore nella gabbia dorata. La signora de Villefort si limitò a dire. — Quieto, Edoardo!
 
Poi soggiunse. — Questo giovine stordito ha quasi ragione, e ripete ora ciò che ha sentito dire da me molte volte con dolore; perchè madamigella de Villefort, per quanto facciano per distrarla, è di un’indole trista, di un umore taciturno, che spesso nuoce all’effetto della sua bellezza. Ma ella non viene, Edoardo vedete dunque perchè.
 
— Perchè la cercano dove non è. — Dove la cercano?
 
— Dal nonno Noirtier. — E credete che non sia là?
 
— No, no, no, no, no, non v’è, rispose Edoardo.
 
— E dov’è, se lo sapete, ditelo.
 
— Ella è sotto il gran marronaio, continuò il cattivo ragazzo offrendo, non ostante le grida di sua madre, delle mosche ancora vive al pappagallo che sembrava molto ghiotto di un tal selvaggiume. — La sig.ª de Villefort stese la mano per suonare, e per indicare alla cameriera ove stava Valentina quando ella stessa entrò. Difatti sembrava trista, e guardandola attentamente si sarebbero potute [276] scorgere nei suoi occhi le tracce delle lagrime. Valentina, che per la rapidità del racconto, abbiamo presentato ai nostri lettori senza farla conoscere, era un’alta e snella figura, di 19 anni, coi capelli castagni chiari, la persona languida, e marcata di quella squisita distinzione che qualificava sua madre; le sue mani bianche ed affilate, il collo d’avorio, le guance ombrate di fuggevoli colori, le davano, a primo aspetto l’aria di quelle belle inglesi, che con molta poesia sono state paragonate nelle loro mosse a dei cigni che si specchino. Ella entrò dunque, e vedendo vicino a sua madre lo straniero di cui aveva tanto inteso parlare, salutò, senza alcuna smorfia di giovinetta, e senza abbassare gli occhi, con una grazia che raddoppiò l’attenzione del conte, il quale si alzò.
 
— Madamigella de Villefort, mia figliastra, disse la sig.ª de Villefort a Monte-Cristo inchinandosi sul sofà, e mostrando colla mano Valentina.
 
— Ed il sig. di Monte-Cristo, re della China, imperatore della Cochinchina, disse il ragazzo impertinente lanciando uno sguardo alla sorella.
 
Questa volta la sig.ª de Villefort impallidì, e quasi si adirò contro questo flagello domestico che rispondeva al nome di Edoardo: ma il conte al contrario sorrise e parve guardasse il fanciullo con compiacenza, il che portò al colmo la gioia e l’entusiasmo della madre. — Ma signora, riprese il conte riannodando la conversazione, e guardando ora la sig.ª de Villefort, ed ora Valentina, è egli possibile che io abbia avuto l’onore di veder voi e madamigella in qualche altro luogo? Or ora di già vi pensava, e quando entrò madamigella, la sua vista è stata un chiarore di più gettato sur una confusa rimembranza; perdonatemi questa parola.
 
— Non è probabile signore; madamigella de Villefort ama poco la società, e noi usciamo raramente.
 
— Ma non è in società che ho veduto tanto madamigella che voi, come pure questo grazioso folletto. La società parigina d’altra parte mi è affatto sconosciuta, perchè, credo di avere avuto l’onore di dirvelo, sono a Parigi da pochi giorni. No, se permettete che mi ricordi... aspettate... — Il conte appoggiò la mano alla fronte come per concentrare le idee. — No, all’estero... è... non so bene. Ma mi sembra che questo ricordo sia collegato con un bel sole, e con una specie di festa religiosa... Madamigella teneva dei fiori in mano, il fanciullo correva dietro un bel pavone in un giardino, e voi signora eravate sotto un pergolato di foglie... aiutatemi dunque, signora; forse quanto vi dico non vi fa risovvenire di qualche cosa?
 
— No in verità, rispose la sig.ª de Villefort; eppure mi sembra che se vi avessi incontrato in qualche luogo, il ricordo di voi mi sarebbe rimasto in memoria. — Il sig. conte ci avrà forse vedute in Italia, disse timidamente Valentina.
 
— Di fatto in Italia... siete stata in Italia, madamigella?
 
— La signora ed io ci fummo saranno circa due anni; i medici temevano pel mio petto, e mi avevano raccomandata l’aria di Napoli. Passammo per Bologna, Perugia, e Roma.
 
— Ah! è vero madamigella, gridò Monte-Cristo, come se questa piccola indicazione gli fosse bastata per fissare tutte le sue rimembranze. Fu a Perugia, il giorno di una festa, nell’osteria della locanda della Posta, ove la combinazione ci riunì, voi, madamigella, vostro figlio ed io.
 
— Mi ricordo perfettamente di Perugia, della locanda della Posta, della festa di cui mi parlate, disse la sig.ª de Villefort, ma ho un bell’interrogare i miei ricordi, ed ho onta della mia poca memoria; io non mi sovvengo di avere avuto l’onore di vedervi.
 
— È singolare, neppure io, disse Valentina alzando i suoi begli occhi sul conte di Monte-Cristo.
 
— Ah! me ne ricordo, disse Edoardo.
 
— Vi aiuterò, signora, riprese il conte. La giornata era calda, aspettavate dei cavalli che non venivano a cagione della solennità. Madamigella si allontanò nel fondo del giardino, vostro figlio disparve correndo dietro al pavone.
 
— E lo raggiunsi, mamma, tu sai, disse Edoardo, che anzi gli strappai tre penne dalla coda.
 
— Voi signora, vi fermaste sotto il pergolato di viti; non vi ricordate più che mentre eravate assisa sur un banco di pietra, e mentre, come vi diceva, madamigella de Villefort e vostro figlio erano assenti, di aver parlato lungamente con qualcuno?
 
— Sì, da vero sì, disse la giovane sposa arrossendo; me ne sovvengo; con un uomo avviluppato in un lungo mantello di lana... con un medico, credo.
 
— Precisamente signora; quest’uomo era io; abitava da 15 giorni in quell’albergo ove aveva guarito il mio cameriere [277] dalla febbre, ed il mio locandiere dalla itterizia; di modo che era creduto un gran dottore. Noi parlammo lungamente, signora, di cose indifferenti, del Perugino, di Raffaello, delle abitudini, dei costumi, e di quella famosa acqua-tofana di cui alcuni, vi era stato detto, conservavano ancora il segreto a Perugia?
 
— Ah! è vero, disse vivamente la sig.ª de Villefort, con una certa inquietudine, me ne ricordo.
 
— Non so più che mi diceste in particolare, signora, riprese il conte con una perfetta tranquillità, ma mi sovvengo benissimo, che dividendo voi pure l’errore generale, che si era sparso sul conto mio, mi consultaste sulla salute di madamigella de Villefort.
 
— Ma però, signore, voi eravate realmente medico poichè guariste degl’infermi.
 
— Molière o Beaumarchais vi risponderebbero, signora, che appunto perchè non era medico, non ho potuto guarire i miei malati; ma essi si sono guariti da sè. Mi limiterò a dirvi, che ho studiato molto profondamente la chimica, le scienze naturali, ma soltanto come dilettante.... capite.
 
In questo momento suonarono le sei. — Sono le sei, disse la sig.ª de Villefort visibilmente agitata; Valentina non andate a vedere se vostro nonno è all’ordine per pranzare? — Valentina si alzò, e salutando il conte, uscì dalla camera senza pronunciare una parola. — Oh! mio Dio! signora, sarebbe mai per colpa mia che licenziate madamigella? disse il conte quando fu partita Valentina.
 
— No, da vero, rispose vivacemente la giovane sposa; ma questa è l’ora nella quale facciamo fare al sig. Noirtier il suo tristo pasto, che sostiene la sua anche più trista esistenza. Sapete signore, in quale deplorabile stato è il padre di mio marito?
 
— Sì, signora, il sig. de Villefort me ne ha parlato; credo una paralisi?
 
— Pur troppo! sì, nel povero vecchio vi è completa assenza di movimenti, l’anima sola veglia in quella macchina umana, ed anche pallida e tremante come una lampada vicina ad estinguersi... Ma perdono, signore, di trattenervi sui nostri domestici infortuni, io vi ho interrotto al momento che dicevate di essere un abile chimico.
 
— Oh! io non diceva questo, signora, rispose il conte con un sorriso, bene diversamente ho studiato la chimica, perchè risoluto a vivere particolarmente in Oriente ho voluto seguire l’esempio del re Mitridate.
 
— Mitridates rex Ponticus, disse lo stordito ragazzo stracciando dei profili in un magnifico album; quello che faceva colazione tutte le mattine con una tazza di veleno col fior di latte.
 
— Edoardo! cattivo ragazzo! gridò la sig.ª de Villefort strappando il libro mutilato dalle mani del figlio, siete insopportabile, andate a raggiungere vostra sorella Valentina presso il nonno.
 
— L’album, disse Edoardo. — Come, l’album?
 
— Sì, lo voglio... — Perchè avete stracciato i disegni?
 
— Perchè ciò mi diverte. — Andatevene; andate!
 
— Non me ne andrò, se prima non mi si dà l’album, disse il fanciullo ponendosi in una gran seggiola.
 
— Prendete e lasciateci tranquilli, disse la sig.ª de Villefort. — E dette l’album ad Edoardo che partì accompagnato da sua madre. — Il conte seguì cogli occhi la sig.ª de Villefort. — Vediamo s’ella chiude la porta dietro a lui mormorò egli. — La sig.ª de Villefort chiuse la porta con la più gran cura dietro al fanciullo, il conte fece mostra di non accorgersene. Indi gettando un ultimo sguardo intorno e sè la giovane sposa si mise a sedere sulla poltrona.
 
— Permettetemi di farvi osservare, signora, disse il conte con quella bonarietà che gli conosciamo, esser voi un poco severa con questo grazioso folletto.
 
— È ben necessario, signore, replicò la signora de Villefort con un vero tuono di madre.
 
— Egli recitava il suo Cornelius Nepos, parlando del re Mitridate, disse il conte, e voi lo avete interrotto in una citazione, che prova, che il suo precettore non ha perduto il tempo con lui, e che vostro figlio è molto avanti per la sua età.
 
— Il fatto è, sig. conte, riprese la madre dolcemente lusingata, ch’egli ha una grande facilità, e che impara tutto ciò che vuole; non ha che un difetto, ed è di avere troppa forza di volontà, ma a proposito di ciò ch’egli diceva, credete forse che Mitridate usasse queste cautele e che esse fossero efficaci?
 
— Lo credo tanto bene, signora, che io che vi parlo ne ho usato per non essere avvelenato a Napoli, a Palermo, a Livorno, vale a dire in tre occasioni nelle quali senza queste cautele vi avrei potuto lasciare la vita.
 
[278]
— Ed il mezzo è riuscito? — Perfettamente.
 
— Sì, è vero, mi ricordo che voi mi avete già detto qualche cosa di somigliante a Perugia.
 
— Veramente! fece il conte con una sorpresa mirabilmente simulata, io non me ne rammento.
 
— Io vi domandai se i veleni operavano egualmente colla stessa energia sugli uomini del Nord, che su quelli del mezzogiorno, e voi mi rispondeste, anzi che i temperamenti freddi e linfatici dei settentrionali non presentano la stessa attitudine che la ricca ed energica natura delle persone del mezzogiorno.
 
— È vero, disse Monte-Cristo, ho veduto dei Russi divorare senza essere incomodati sostanze vegetabili che avrebbero ucciso infallibilmente un Napoletano ed un Arabo.
 
— Per tal modo credete voi che il risultato sarebbe più sicuro fra noi che in Oriente, e in mezzo alle nostre nebbie ed alle nostre piogge un uomo si potrebbe più facilmente che in regioni calde, abituare a questo lento e progressivo assorbimento del veleno?
 
— Certamente, ben inteso però che non si fosse premunito di antidoto che contro il veleno a cui si fosse assuefatto.
 
— Oh! capisco; ed in qual modo ve ne abituereste voi, per esempio; ovvero in qual modo ve ne siete già abituato?
 
— Supponete che sappiate già prima di qual veleno si voglia usare contro di voi; supponete che sia della brucnina....
 
— La brucnina si cava dalla falsa angustura, io credo, disse la sig.ª de Villefort.
 
— Precisamente signora, disse Monte-Cristo; ma veggo bene che mi resta poco ad insegnarvi, abbiatene le mie congratulazioni; simili erudizioni sono rare nelle donne.
 
— Oh! ve lo confesso signore, io ho il più vivo trasporto per le scienze occulte, che parlano all’immaginazione a guisa di una poesia, e si risolvono in cifre come una equazione algebrica; ma continuate, vi prego; ciò che mi dite m’importa al più alto punto.
 
— Ebbene, riprese Monte-Cristo, supponete che questo veleno sia la brucnina, per esempio, e che ne prendiate un millesimo di grammo il primo giorno, due il secondo ecc. Ebbene! in capo a 10 giorni ne prenderete un centigrammo, in capo a venti giorni aumentando di un altro milligrammo, ne prenderete tre centigrammi, vale a dire una dose che supporterete senz’alcuno inconveniente, e che sarebbe pericolosissima per un’altra persona che non avesse prese le stesse cautele di voi; finalmente in capo ad un mese, bevendo dell’acqua nello stesso bicchiere, voi ammazzerete una persona che beve di quest’acqua, nello stesso tempo che voi senz’accorgervi che da un piccolo mal essere, che v’era una sostanza velenosa mescolata a quell’acqua.
 
— Voi non conoscete altri contravveleni?
 
— Non ne conosco altri.
 
— Aveva spesso letta e riletta questa storia di Mitridate, disse la sig.ª de Villefort, e l’aveva creduta una favola.
 
— No signora, contro il solito delle storie, questa è una verità; ma ciò che mi dite signora, ciò che mi domandate non è il risultato di una domanda capricciosa, da poichè sono già due anni che mi avete fatte le stesse interrogazioni, ed ora mi dite che la storia di Mitridate vi preoccupa da molto tempo.
 
— È vero, signore, i due studi favoriti della mia gioventù, sono stati la botanica e la mineralogia, e quando poi ho saputo che l’uso di questi semplici spiegava spesso tutta la storia dei popoli, e tutta la vita degl’individui d’Oriente, nello stesso modo con cui i fiori spiegano tutt’i loro pensieri amorosi; mi è dispiaciuto di non essere un uomo per non poter diventare un Flamel, un Fontana od un Cabanis.
 
— Tanto più signora, riprese Monte-Cristo, che gli orientali non si limitano, come Mitridate, a servirsi dei veleni, come una corazza, ma se ne servono eziandio come pugnali; la scienza nelle loro mani diventa non solo un’arme difensiva, ma anche offensiva, l’una serve loro contro le sofferenze fisiche, l’altra contro i loro nemici; coll’oppio, colla bella donna, coll’hatchis si procurano sogni di felicità che il cielo ha realmente negati; con la falsa angustura, col legno di brionia, col lauro ceraso addormentano quelli che vorrebbero svegliarli. Non vi è una fra le donne egiziane, turche, o greche, che qui chiamate buone donne, e che non sappia in fatto di chimica di che farvi stupire un medico.
 
— Davvero! disse la sig.ª de Villefort, di cui gli occhi brillavano di uno strano fuoco a questa conversazione.
 
— Eh! mio Dio sì, signora. I drammi segreti d’Oriente si annodano e si sciolgono così, dalla pianta che fa amare fino a quella che fa morire; dalla bevanda che vi rapisce in estasi, fino a quella che può far discendere un uomo nella sepoltura. Vi sono tante gradazioni di ogni genere, [279] quanti sono i capricci e le bizzarrie dell’umana natura, fisica, e morale, e dirò di più, l’arte di queste chimiche sa adattare ammirabilmente il rimedio ed i mali ai propri bisogni d’amore, e ai propri desideri di vendetta.
 
— Ma, signore, riprese la giovane sposa, queste società orientali in mezzo alle quali avete passato gran parte della vostra esistenza sono dunque fantastiche come i racconti che ci vengono da questi bei paesi? Un uomo dunque può esservi ucciso impunemente? È dunque una realtà la Bagdad o la Bassora del sig. Galand? I sultani e i visir che reggono queste società, e che costituiscono ciò che si chiamerebbe in Francia il governo sono dunque nel serio tanti Harun-al-Rascid e tanti Giaffar, che non solo perdonano ad un avvelenatore, ma lo fanno ancora primo ministro, se questo delitto è stato ingegnoso; e che in questo caso ne fanno stampare la storia in lettere d’oro per divertirsene nelle loro ore di noia?
 
— No, signora, il fantastico non v’è più, neppure in Oriente; vi sono laggiù pure mascherati con altri nomi e nascosti sotto altri costumi, dei commissari di polizia, dei giudici d’istruzione, dei procuratori del re, e degli esperti. Vi s’impicca, vi si taglia la testa, vi s’impala molto aggradevolmente; ma i delinquenti, da esperti frodatori, hanno saputo illudere la giustizia umana ed assicurare il successo delle loro imprese con abili combinazioni. Presso noi un imbecille ossesso dal demonio dell’odio e della cupidigia che ha un nemico da distruggere o un gran parente da annichilire, va da uno speziale, gli dà un nome falso, che tanto più facilmente fa scoprire il suo vero, e compra cinque o sei grammi d’arsenico; s’egli è molto furbo, va da cinque o sei speziali, e non è che cinque o sei volte conosciuto meglio; poi quando possiede il suo specifico, amministra al nemico, o al gran parente, una dose d’arsenico che farebbe crepare un elefante od un rinoceronte, e che senza rima, nè ragione fa mandare alla sua vittima urli tali da mettere tutto il quartiere sossopra. Allora giunge un nuvolo di messi di polizia e di gendarmi; si manda a cercare un medico, che apre il morto, e ne raccoglie nello stomaco e negl’intestini l’arsenico a cucchiaiate; il giorno dopo cento giornali raccontano il fatto col nome della vittima e dell’uccisore. Fin dalla stessa sera lo speziale, o gli speziali, viene o vengono a dire «sono io che ho venduto l’arsenico al signore» e piuttosto che non riconoscere il compratore ne riconoscerebbero venti; allora il goffo reo è preso, imprigionato, interrogato, confrontato, confuso, condannato e ghigliottinato; o se è una donna di qualche entità, viene imprigionata a vita. Ecco, signora, il modo con cui i nostri settentrionali intendono la chimica. Desrues però la intendeva meglio, debbo confessarlo.
 
— Che volete, signore, non tutti hanno i segreti dei Medici! o dei Borgia! disse la giovane sposa ridendo.
 
— Ora, disse il conte stringendosi nelle spalle, volete che vi dica qual è la causa di tutte queste inezie? si è che sui vostri teatri, a quanto ho potuto giudicarne io stesso dalla lettura delle opere che vi si rappresentano, si vede sempre qualcuno inghiottire il contenuto di un’ampolla, mordere la legatura di un anello, e cadere intirizzito cadavere, 5 minuti dopo cala il sipario, gli spettatori si disperdono, s’ignorano le conseguenze dell’omicidio, non si vede mai nè il commissario di polizia colla sciarpa, nè il caporale coi suoi quattr’uomini, e ciò autorizza i cervelli meschini a credere che le cose finiscano così. Ma uscite un po’ dalla Francia, andate ad Aleppo o al Cairo, e vedrete passeggiare per le strade persone tutte fresche e color di rosa, delle quali il diavolo zoppo, se vi toccasse col suo mantello, potrebbe dirvi, «Questo signore è avvelenato da tre settimane e sarà morto fra un mese».
 
— Ma allora, disse la signora de Villefort, hanno dunque ritrovato il segreto di questa famosa acqua-tofana, che in Perugia mi si diceva perduto.
 
— Eh! signora, e che forse fra gli uomini si perde qualche cosa? Le arti si spostano e fanno il giro del mondo, le cose cambiano di nome, ecco tutto, l’uomo volgare s’inganna, ma è sempre lo stesso resultato, il veleno. Ciascun veleno opera particolarmente sur un tale o tal’altro organo, l’uno sullo stomaco, l’altro sul cervello, l’altro infine sugl’intestini. Ebbene, il veleno determina una tosse, questa un’infiammazione di petto o qualunque altra malattia iscritta nel libro della scienza, cosa però che non le impedisce di essere del tutto mortale, e che quand’anche non lo fosse lo diverrebbe mercè i rimedi che gli sarebbero somministrati da ingenui medici, che in generale sono cattivi chimici, e che volteranno in favore o contro la malattia come vi piacerà; ed ecco un uomo ucciso con arte, e con tutte le regole, [280] nel quale la giustizia non ha che ridire, come diceva un orribile chimico, mio amico, l’eccellente Adelmonte di Taormina in Sicilia che aveva molto studiato i fenomeni nazionali.
 
— È spaventoso, ma ammirabile, disse la giovane sposa immobile per l’attenzione; lo confesso, credeva che tutte queste storie fossero invenzioni del medio evo.
 
— Sì, senza dubbio, ma che si sono anche meglio perfezionate a’ giorni nostri. A che volete dunque che servano i tempi, gl’incoraggiamenti, le medaglie, le croci, i premi Monthyon, se non per condurre la società alla sua più grande perfezione? Ora l’uomo non sarà perfetto, che quando saprà cercare e distruggere, dunque la metà del cammino è fatta.
 
— Di modo che, riprese la sig.ª de Villefort, ritornando invariabilmente al suo scopo, i veleni dei Medici, dei Borgia, dei Renati, dei Ruggieri, e più tardi probabilmente del barone di Trenk, di cui ha tanto abusato l’odierno dramma ed il romanzo...
 
— Erano oggetti d’arte, signora, non altro, riprese il conte, credete che il vero sapiente s’indirizzi bonariamente allo stesso individuo? No, davvero. La scienza ama il recondito, i giri di forza, l’ideale, se ciò si può dire. Così a mo’ d’esempio, questo eccellente Adelmonte di cui vi parlava or ora ha fatto su questo rapporto delle eccellenti esperienze: ve ne citerò una sola. Aveva un bellissimo giardino pieno di legumi, di fiori, e di frutti. Egli sceglieva il più umile di tutti questi legumi, per esempio, un cavolo. Per tre giorni lo innaffiava con una soluzione di arsenico; il terzo giorno il cavolo cadeva malato ed appassiva; era il momento di tagliarlo; per tutti sembrava maturo e conservava la normale apparenza; per Adelmonte solo era avvelenato. Allora egli portava il cavolo a casa, e prendeva un coniglio (Adelmonte aveva una collezione di conigli, di gatti, di porcellini d’India, che in nulla cedeva alla collezione di legumi, di fiori e di frutti), prendeva dunque un coniglio e gli faceva mangiare una foglia di cavolo; il coniglio moriva. Quale sarebbe il giudice d’istruzione che potrebbe trovare a ridire su ciò? e qual procuratore del re ha mai sognato di stabilire una requisitoria contro Magendie o Flourens sul conto dei conigli, dei porcellini d’India e dei gatti che hanno ucciso? Nessuno, ecco dunque un coniglio morto senza che la giustizia se ne inquieti. Morto il coniglio Adelmonte lo faceva sventrare dalla sua cuoca e gettar gl’intestini sopra un letamaio. Su questo un pollo va a beccare gl’intestini, cade malato a sua volta e muore la dimane. Mentre che si dibatte nelle convulsioni dell’agonia passa un avvoltoio (vi sono molti avvoltoi nel paese di Adelmonte), piomba sul cadavere, lo porta sur una roccia e pranza. Tre giorni dopo il povero avvoltoio, che dopo questo pasto si è trovato costantemente indisposto, si sente preso da un capogiro nel più alto del suo volo, rotola per l’aria e viene a cadere di piombo in un vostro vivaio di pesci; voi sapete che il luccio, l’anguilla, la morena mangiano golosamente, essi mordono l’avvoltoio. Ebbene supponete che la dimane venga servito alla vostra tavola, uno di questi lucci, una di queste anguille, una di queste morene, avvelenata alla quarta generazione, il vostro convitato che lo sarà alla quinta, morrà in capo ad otto o dieci giorni di dolori d’intestini, di male al cuore, di ascesso al piloro. Verrà fatta l’autopsia, e i medici diranno: l’individuo è morto di un tumore al fegato o di una febbre tifoida.
 
— Ma, disse la signora de Villefort, tutte queste particolarità che voi collegate le une alle altre possono essere rotte dal più piccolo accidente; l’avvoltoio può non passare in tempo, o cadere a cento passi dal vivaio.
 
— Ma ecco dove sta precisamente l’arte. Per essere un gran chimico in Oriente, bisogna saper prendere l’occasione; e vi si giunge.
 
La signora de Villefort era astratta:
 
— Ma, diss’ella, l’arsenico è indelebile; in qualunque modo venga assorbito si trova sempre nel corpo umano, dal momento che vi sia stato introdotto in quantità sufficiente per dare la morte.
 
— Bene, gridò Monte-Cristo, bene! ecco precisamente ciò che dissi al buono Adelmonte. Egli ristette, sorrise e mi rispose con un proverbio siciliano, che credo pure sia egualmente un proverbio francese, «figlio mio il mondo non fu fatto in un giorno, ma in sette, ritornate domenica». La domenica successiva vi andai, invece di avere innaffiato il suo cavolo colla dissoluzione di arsenicale, lo aveva innaffiato con una dissoluzione di sali a base di stricnina strichnon colubrina come dicono gli scienziati. Questa volta il cavolo non aveva l’aspetto malato, per cui il coniglio non ne diffidava, e cinque minuti dopo era morto. Il pollo lo mangiò, ed il giorno dopo esso era morto. Allora noi facemmo da avvoltoi, [281] prendemmo il pollo che venne aperto. Questa volta tutti i sintomi particolari erano spariti, e non restavano che i sintomi generali. Nessuna indicazione sugli organi, esasperazione soltanto del sistema nervoso, e traccia di congestione cerebrale, nient’altro, il pollo non era stato avvelenato, era morto d’apoplessia. È un caso raro nei polli, lo so, ma comunissimo nell’uomo.
 
La signora de Villefort sembrava sempre più astratta:
 
— È una fortuna, diss’ella, che tali sostanze non possono essere preparate che dai chimici, perchè in verità una metà del mondo avvelenerebbe l’altra.
 
— Da chimici, e da quelli che si occupano di chimica, rispose negligentemente Monte-Cristo.
 
— E poi, disse la sig.ª de Villefort strappandosi da sè stessa e con forza dai suoi pensieri, per quanto più sapientemente preparato, il delitto è sempre un delitto; e se sfugge alle umane investigazioni non isfugge però allo sguardo di Dio. Gli orientali sono più coraggiosi di noi nei casi di coscienza, perchè hanno soppresso l’inferno; ecco tutto.
 
— Eh! signora, questo è un pensiero che deve naturalmente nascere in un’anima onesta come la vostra, ma che i sofismi sradicano ben presto nei perversi. La vita dell’uomo scorre facendo tali cose, e la sua intelligenza si stanca a segnarle. Voi troverete ben poche persone che vadano bestialmente a piantare un coltello nel cuore del loro simile, o a ministrar loro una dose d’arsenico, come quella di cui vi parlava or ora. Questa è veramente una eccentricità ed una bestialità. Per giungere a ciò bisogna che il sangue si riscaldi a 36 gradi, che il polso batta a 86 pulsazioni, e che l’anima esca dai limiti ordinari. Ma se come si usa in filologia, si passa dalla parola al sinonimo mitigato, voi fate una semplice eliminazione, invece di commettere un’ignobile assassinio, se allontanate puramente e semplicemente dal vostro sentiero colui che vi dà incomodo, e ciò senza scossa, senza violenza, senza l’apparecchio di quelle sofferenze che, diventando un supplizio, fanno della vostra vittima un martire, e di chi opera un carnefice in tutta l’estensione del termine; se non vi è nè sangue, nè urli, nè contorsioni, nè soprattutto la pericolosa momentaneità del compimento, allora voi sfuggite ai colpi della legge umana che vi dice «Non disturbate la società» Ecco come procedono e riescono le genti d’Oriente, persone gravi e flemmatiche, che s’inquietano poco sulla questione del tempo nelle combinazioni di una certa importanza.
 
— Resta la coscienza, disse la sig.ª de Villefort con voce commossa soffocando un sospiro. — Monte-Cristo voleva continuare, ma essa lo interruppe come per cambiar discorso: — Tutto mi conduce a stimarvi, diss’ella, per un gran chimico; e quell’elixir che avete fatto prendere a mio figlio, e che lo ha richiamato sì tosto alla vita...
 
— Oh! non ve ne fidate, la interruppe Monte-Cristo. Una goccia di quell’elixir bastò per richiamare vostro figlio alla vita mentre stava per morire, ma tre gocce gli avrebbero spinto il sangue ai polmoni, in modo da procurargli forti palpitazioni di cuore, sei gocce gli avrebbero sospesa la respirazione, e lo avrebbero posto in una sincope molto più grave di quella in cui si ritrovava, dieci lo avrebbero fulminato. Sapete, signora, in qual modo lo allontanai prestamente da quelle ampolle che egli aveva l’imprudenza di toccare?
 
— È dunque un veleno terribile?
 
— Oh! mio Dio! no, bisogna da prima ammettere questo, che la parola veleno non v’è, quindi in medicina si servono dei veleni più violenti, che divengono, pel modo con cui sono ministrati, i rimedi più salutari.
 
— Che cosa è dunque allora?
 
— È una sapiente preparazione del mio amico, l’eccellente Adelmonte, e di cui mi ha insegnato a servirmi.
 
— Oh! disse la sig.ª de Villefort, questo dev’essere un eccellente antispasmodico.
 
— Sovrano rimedio, signora, lo avete veduto, rispose il conte, ed io ne faccio uso frequentemente, con tutta la prudenza possibile ben inteso, soggiunse egli ridendo.
 
— Lo credo, in quanto a me, sì nervosa e sì facile a svenirmi avrei bisogno di un dottore Adelmonte per inventarmi dei mezzi di farmi respirare liberamente, e per tranquillarmi sul timore che provo di morire un bel giorno soffocata. Frattanto, siccome è difficile di ritrovar ciò in Francia, e che il vostro amico non sarà disposto a fare per me un viaggio a Parigi, io faccio uso degli antispasmodici del sig. Planch, e la sua menta e le gocce di Hoffman occupano un gran posto in casa mia. Osservate, ecco le pastiglie che mi faccio fare espressamente; sono a dose doppia.
 
[282]
Monte-Cristo aprì la scatola di madreperla che gli presentava la giovane sposa, ed odorò le pastiglie come un’intelligente, capace di apprezzare questa preparazione.
 
— Esse sono squisite, diss’egli, ma sottomesse alla necessità della deglutizione che spesse volte è una funzione impossibile a farsi da una persona svenuta. Amo meglio il mio specifico.
 
— Ma certamente io pure lo preferirei, particolarmente dopo gli effetti che ne ho veduti: senza dubbio sarà un segreto, nè son tanto indiscreta da domandarvelo.
 
— Ma io sono abbastanza galante per offrirvelo.
 
— Oh! signore.
 
— Soltanto ricordatevi d’una cosa, ed è che a piccola dose è un rimedio, ad alta dose è un veleno. Una goccia rende la vita, come lo avete veduto, cinque o sei ammazzerebbero infallibilmente ed in un modo tanto più terribile, che disciolte in un bicchier di vino non ne altererebbero momentaneamente il gusto... mi cheto perchè sembrerebbe che avessi l’aria di consigliarvi. — Le sei e mezzo erano suonate, fu annunziato un amico della sig.ª de Villefort che veniva a pranzo da lei. — Se io avessi l’onore di avervi già veduto per la terza o quarta volta, invece d’essere la seconda, avrei pure l’onore d’essere vostr’amica, invece di avere soltanto la fortuna d’esservi obbligata; insisterei perchè rimaneste a pranzo, e non mi lascerei abbattere da un primo rifiuto.
 
— Mille grazie, signora, rispose Monte-Cristo, io ho un impegno al quale non posso mancare. Ho promesso di condurre a teatro una principessa greca mia amica, che non è ancora stata all’Opera, e conta su di me per andarvi.
 
— Andate dunque, ma non dimenticate la mia ricetta.
 
— E come mai, signora, per far ciò bisognerebbe dimenticare l’ora di conversazione che ho passato con voi, il che è affatto impossibile. — Monte-Cristo salutò e partì.
 
La signora de Villefort rimase astratta.
 
— Ecco un uomo strano, diss’ella, e che mi ha l’aspetto di chiamarsi Adelmonte per nome di battesimo.
 
In quanto a Monte-Cristo il risultato aveva sorpassato la sua aspettativa. — Andiamo, diss’egli partendo, ecco una buona terra; sono convinto che il seme che vi si lascia cadere non abortisce.
 
Il giorno dopo fedele alla sua promessa inviò la ricetta.
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