— Camminiamo lesti — disse l'Amelia allo zoppino che le si era messo al fianco.
— Si va in piazza Castello?
— Sì.
Entrarono nel Corso Vittorio Emanuele, la strada principale della città. Qui la luce era un poco più viva in grazia dei negozi. Gruppi di studenti fermi sui marciapiedi chiacchierottavano, guardando le poche donnine passanti per caso. Altri scendevano il corso cantarellando, per recarsi al solito caffè o alla solita osteria, dove li aspettavano i soliti compagni e la inevitabile partita alle carte.
[112]
Fausto e Vittorio scambiarono alcuni saluti.
Le due coppie camminavano in una sola fila: le due ragazze in mezzo, i due giovani, uno per parte.
Andarono così, quasi senza parlare, fino in fondo al Corso.
Quando giunsero in piazza Castello, Amelia e Vittorio cominciarono a discutere sul monumento a Garibaldi che Amelia difendeva sempre contro gli scherzi satirici del futuro avvocato; non perchè a lei importasse qualche cosa del monumento, ma per il semplice gusto della contraddizione.
Disputando affrettarono il passo e si staccarono dai compagni.
Argìa e Fausto continuarono a camminare lentamente uno accanto all'altra. Tacevano.
— Vuoi il mio braccio?
Ella si appoggiò senza rispondere.
— Hai freddo?
— No...
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— Tremi...
— Anche tu...
Tacquero nuovamente.
Lenta, grigia, fumante, la nebbia saliva dalle acque, scendeva dalle nubi, impadronendosi dello spazio. Tutte le cose ne erano avviluppate.
I contorni svanivano. La piazza appariva più vasta; le case più lontane. Un rivenditore di castagne passava come un'ombra gridando la sua merce. Le fiammelle del gas prendevano toni rossastri, senza splendore.
Il vecchio castello, trasformato in caserma, pareva una enorme massa nera coperta di fumo denso; e in mezzo al fumo guizzavano di tratto in tratto languidi lumicini, come le prime scintille di un incendio che cova.
Una tromba squillò, rimbombando nello spazio.
Argìa e Fausto sedettero un momento su una panchina; ma presto si rimisero a camminare.
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La passeggiata dello stradone che essi ricordavano così animata, era deserta. I grandi candelabri centrali non si accendevano più; ogni cosa entrava nell'abbandono invernale, che rende così tristi i luoghi destinati alla ricreazione estiva.
Si sentiva da lontano un tram che arrivava e le campanelle attaccate al collo dei cavalli tintinnavano malinconicamente.
Davanti al ricovero «Pio Albergo Pertusati,» Vittorio si fermò per interrogare Fausto sullo stato di un certo giovane che aveva subita una terribile operazione sotto il professore Pisani.
— È in grave pericolo...
— Il babbo spera ancora!
A poco a poco Vittorio e Amelia, spinti dal freddo ripresero il passo affrettato e si allontanarono.
— Dunque, Fausto? Hai pensato alla mia partenza? — domandò Argìa.
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Egli ebbe un soprassalto e strinse violentemente il braccio che s'appoggiava al suo.
— Non posso pensarvi.
— E allora?...
— Non so!...
Ricaddero nel loro silenzio affannoso, oppressi da una invincibile agitazione.
Finalmente Argìa mormorò:
— Non mi resta dunque che il suicidio... O lasciarmi ammazzare dal babbo appena saprà... È orribile!
— Consolati... Moriremo insieme, io ti farò coraggio...
Sentendosi vacillare, Argìa si appoggiò con più forza. Fausto si fermò, le cinse la vita col braccio destro, poi con l'altro le accerchiò le spalle e se la strinse al petto in un impeto disperato.
— Ti amo! — singhiozzò — Ti amo tanto!...
— Io non voglio che tu muoia!
— Morire con te è ormai la sola felicità a cui aspiro!...
[116]
Rimasero un momento così, stretti, nella suprema dolcezza, come rapiti.
Lo stradone era completamente deserto. In alto, sul bastione, Amelia e Vittorio ridevano, e le loro voci giovani, cristalline, si allargavano nel silenzio della notte.
— Oh! Fausto! Fausto! tu non devi morire! Io sola, se mai, io sola!
Egli sospirò profondamente, mentre le sue labbra si piegavano a un amaro sorriso.
— Bambina!... Io solo, «se mai», come tu dici. Poichè tu troveresti ancora una ragione alla vita nell'amore della tua creatura... A me invece non resta più nulla, nulla! Dammi ancora un bacio!
Un rumore di passi li fece riscuotere.
— Andiamo più in su; saremo più tranquilli.
Cominciarono lentamente la salita del bastione, lei ansando un poco nel busto troppo serrato, provando un senso penoso di vergogna [117]tutte le volte che il suo compagno era costretto a fermarsi un istante per lasciarla rifiatare.
— Dove sono loro?
— Camminano in là, sull'erba del contrafforte; li ritroveremo poi. Ci aspetteranno come le altre volte, sull'ultimo spalto. Siediti qui un momento, sei troppo stanca.
Sedettero sul parapetto.
Il bastione andava giù a picco, in un praticello acquitrinoso, solcato da un rigagnolo e contornato da una roggia, che formava una cascatella il cui rumore saliva dolcemente. Di tratto in tratto una locomotiva lanciava un sibilo dalla vicina stazione sepolta nella nebbia.
Si provavano le macchine. Un treno partiva o arrivava.
— Partire! — mormorò Argìa sospirando. — Andare lontano lontano. Vivere ignoti...
Fausto si scosse e crollò il capo.
— Si sarebbe sempre noi due!
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— Vuoi dire che non si dimenticherebbe mai! — esclamò la fanciulla dopo un istante di riflessione. — Questo lo so anch'io; te l'ho già scritto.
— Un amore come il mio non dimentica nulla. Tu mi hai ben compreso.
— Quello che io non comprendo — riprese Argìa con la voce velata dalla commozione — quello che non so spiegarmi è che tu voglia protrarre questo stato d'incertezza, questa commedia inutile. Perchè non ti stacchi da me? Perchè non mi abbandoni al destino mio?
— Perchè non posso. Non capisci? Non posso. Ti amo più che mai; e tu sei persa per me! persa irreparabilmente. Non posso rassegnarmi a questa perdita. Come vedi è una cosa semplicissima. Non posso amare la vita senza di te, e nemmeno sopportarla. Per questo ho risoluto di morire. Non è un sacrificio che ti faccio: è piuttosto una grazia che ti domando: lasciami morire con te.
[119]
— Oh! Fausto! tu vuoi morire!
— Sì. Senti: se potessi vivere senza di te, se potessi dimenticarti, ti abbandonerei, come dici tu, al tuo destino; poichè, in fondo, ti odio! Ma l'amore unito all'odio diventa più forte, più tenace.
«Non sapevi questo eh,?... Neppure io! Adesso lo so. Ti odio perchè sei stata di un altro e perchè non sei quella che io credevo: non sei la mia fanciulla. Dopo l'ultima lettera che mi hai scritto ho capito anche meglio quanto ti amo e quanto ti odio. Io, con te, sarei sempre infelice; anche se per una grazia impossibile della sorte potessi dimenticare il maledetto fatto. Anche se potessi cancellarlo: fare che non sia successo. Sarei infelice perchè tu hai pensieri, sentimenti, istinti, che mi ripugnano in una donna; che stimo contrari alla felicità famigliare, quale io l'ho sognata. Sei giovine e non ti conosci abbastanza. Ma io ti ho compresa meglio, io so come [120]saresti e cosa penseresti da qui a dieci anni. Tutta contraria a me saresti: mi giudicheresti con la tua intelligenza e mi troveresti illogico, poco generoso. Cesseresti di amarmi, ne sono certo. Per questo voglio che tu muoia con me, adesso che mi ami.»
— Ah! dunque non sei più tu che vuoi morire con me; bensì io che devo morire con te? È strano!
— È strano apparentemente soltanto. È logico se pensi che io morirei in tutte le maniere. È una cosa così: una cosa irrimediabile. Dacchè ti ho penetrata, dacchè ti condanno, tu mi affascini, come non mi avevi mai affascinato; e sento di amarti come non t'avevo amata mai, neppure in sogno.
Egli parlava a voce bassa, con una intonazione dolce e molle come se avesse dette le cose più semplici e naturali. Una blanda esaltazione s'era impadronita del suo pensiero. E Argìa si lasciava penetrare a poco a poco, e [121]si lasciava vincere da quella sottile ebbrezza. La testa appoggiata sulla spalla di lui, le palme abbandonate, essa lo ascoltava chetamente. Quella voce soave la cullava; quelle parole appassionate la trasportavano fuori del mondo.
Dopo un silenzio che durò alcuni istanti, Fausto riprese:
— Questo stato dell'anima mia è incomprensibile a me stesso. Non saprei scrutarne la natura. Le cause mi sfuggono. Davanti a certi misteri dell'anima e del sentimento siamo tutti ignoranti. La scienza dà una formula, come la fede un dogma. Il fenomeno resta inesplicato e il mistero ci deride. La sola cosa che io so è che l'amor mio, quest'amore nuovo che mi lega a te, è di sua natura indistruttibile; ma so pure che mi deve distruggere. E il perchè di tale distruzione lo intravedo. Ci dev'essere troppo distacco, troppa disarmonia fra quest'amore e la mia indole, fra le [122]idee a cui quest'amore si collega e le idee e gl'istinti che la tradizione e l'eredità mi hanno dato. Le idee vecchie e i sentimenti ereditati vivono in me di una vita troppo tenace. Una volta credei di averli domati con la scienza. Ma la scienza non è che un'astrazione superbasenza l'esperienza della vita. Davanti alla scienza, gli astuti finsero di cedere, e si accovacciarono nella parte più intima del mio essere. Adesso che si tratta di una vera battaglia sanguinosa, li ritrovo più forti, più implacabili e baldanzosi. Perchè io potessi vivere, bisognerebbe sradicare le vecchie idee dal mio cervello e strappare dal mio cuore i vecchi sentimenti: oppure, strappare questo amore, come si strappa una escrescenza pericolosa e deforme. Una operazione chirurgica come tante altre! Ma vi sono operazioni apparentemente facili, alle quali certi individui apparentemente robusti non possono resistere. Un'altra cosa questa, che la scienza non mi spiega!
Egli ebbe un riso strano e tacque un istante, come sorpreso dalle immagini indeterminate, tumultuose che si affollavano nel suo cervello.
A poco a poco la sua fronte eretta incontro alla brezza fredda, si chinò; e le sue labbra cercarono le labbra della fanciulla.
— Oh! i tuoi baci!... i tuoi baci!... Se si potesse baciarsi sempre e non pensare mai!...
«Del resto tu hai intuito il mio stato scrivendomi che una felicità inferiore a quella che avremmo avuta — o immaginata — senza la tua disgrazia... ti sarebbe intollerabile. Soltanto, la parola «inferiore» non dipinge la situazione: non dice quello che io sento. La gioia che provo quando ti stringo fra le mie braccia è suprema gioia, insuperabile ebbrezza. Non vi può essere felicità maggiore. Ma questa felicità è avvelenata da un dolore senza nome e senza misura. È uno stato difficile a intendersi, più difficile a spiegarsi, lo stato dell'anima mia ammalata. Sento nel medesimo [124]tempo tutta la soavità di un amore immenso e tutta l'amarezza dell'odio divoratore. Una vita così — tu l'hai compreso — non è possibile sopportarla: nessuno la potrebbe vivere. Ma per morire insieme non si potrebbe immaginare nulla di più inebbriante. La nostra morte sarà deliziosa!
— Oh! sì! — mormorò Argìa, stringendosi sempre più fortemente al petto di lui.
— Sì, t'intendo!
E dopo un istante di silenzio, con nuovo impeto mormorò:
— T'intendo, sì!.. Guarda l'acqua laggiù come c'invita!... Senti come ci chiama teneramente! Lasciamoci cadere laggiù, da questa altezza. Moriremo subito. E non si potrà mai sapere se siamo caduti per imprudenza, o se abbiamo voluto morire. Il primo caso sembrerà più probabile. Stretti in un amplesso, i nostri cuori cesseranno di palpitare nel medesimo istante e le nostre anime si involeranno insieme...
Fausto la interruppe, crollò il capo e si alzò.
— No, Argìa, no!... Alzati! andiamo! Non voglio cedere alla tua vertigine. Non così, non così... Tu non hai capito. La nostra morte deve essere una festa, un tripudio. E poi, i nostri corpi devono rimanere nascosti, il più che si può... M'intendi? La mia gelosia sorpassa la morte.
Tornò a stringerla ed a baciarla quasi in delirio.
— Io vorrei morire subito — mormorò la fanciulla. — La morte è incerta come la vita!... Forse un istante simile non ritornerà mai più. Moriamo subito, Fausto!
Curva sull'abisso nero, ella fissava il vuoto con gli occhi intenti, ascoltando la cascatella che ridacchiava in fondo al muraglione.
Si sentiva attirata da un fascino misterioso.
Ma Fausto la strappò via.
— Vieni, Argìa, vieni! Più bella deve essere la nostra fine, più poetica. Vieni!
Le circondò la vita col braccio robusto e trascinandola, quasi portandola, s'allontanò rapidamente per fuggire quella tentazione, il cuore palpitante di un gaudio nuovo, la fantasia abbagliata da una visione luminosa di amore eterno, infinito.