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当前位置: 首页 » 意大利语阅读 » Il romanzo della morte » 正文

Chapter VII.

时间:2020-09-30来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:Era nel principio di quella ultima estate. I giorni passavano, le settimane, i mesi, e Fausto non ritornava pi da Mantov
(单词翻译:双击或拖选)
 Era nel principio di quella ultima estate. I giorni passavano, le settimane, i mesi, e Fausto non ritornava più da Mantova, dalle vacanze di Pasqua in poi. Vittorio badava a dire che donna Evangelina, indisposta, voleva il figliuolo presso di sè.
 
Ma la voce pubblica diceva ch'egli interrompesse gli studi, perchè sua madre, sempre avversa alla medicina — scienza atea — non voleva avere un figliuolo medico; e perchè egli sposava la contessina d'Arco.
 
Per molto tempo, Argìa non aveva prestato fede a tale voce.
 
[142]
Prima di partire, stringendole le mani, Fausto le aveva detto: «A rivederci Argìa.» Nient'altro. Ma con tale accento, con tale sguardo da valere un giuramento.
 
Ah! perchè non l'avevano lasciata nella sua fede?
 
Perchè avevano voluto strapparle quel conforto?
 
Di tutto avevano fatto per convincerla dell'abbandono di Lamberti: come se tutto il male della vita consistesse nel nutrire una vana illusione; e non fosse peggio, mille volte peggio non averne più nessuna.
 
Suo padre che aveva fatto conto su quel matrimonio, era furente contro i Lamberti, e perfino contro don Paolo.
 
A volte pareva abbattuto, lui che nulla abbatteva. Era il primo schiaffo della sorte, e lo sentiva.
 
Un giorno, un amico venuto da Mantova disse che il matrimonio Lamberti-D'Arco era [143]fissato: si vedevano i due giovani andare fuori insieme: si aspettavano le pubblicazioni che dovevano essere prossime.
 
Allora, come un ragazzo che ha bisogno di sfogarsi, il professore aveva preso Argìa a parte, e fatto un appello al coraggio, alla saggezza, all'orgoglio di lei — il solito appello che si fa quando si sta per ferire a morte una povera creatura, con una notizia perversa — egli le narrava tutto quello che aveva sentito, aggravandolo col proprio furore, dando carattere di verità alla semplice diceria.
 
Assalita a quel modo, dopo tanto che soffriva nelle incertezze, la fanciulla si sentì mancare; cercò però di nascondere quello che provava.
 
Chiamò a soccorso tutto il suo coraggio, tutto il suo orgoglio, e — pallida come la morte, ma con apparente calma — rispose che per lei era lo stesso: Fausto non le aveva fatta alcuna promessa!
 
[144]
Il padre la baciò e la lodò molto di quella fermezza.
 
Ma non bastava che fosse calma e coraggiosa: egli la voleva allegra e felice.
 
E si mise a darle dei consigli pratici, intramezzati da ripigli di collera che lo spingevano a nuove sfuriate contro il Lamberti.
 
Doveva divertirsi. Egli avrebbe fatto di tutto per trovarle un altro partito egualmente vantaggioso. Doveva assecondarlo. Bisognava fargliela vedere a quei borghesacci quattrinai, pieni di boria, che non volevano la figliuola di un povero professore; bisognava fargliela vedere a quei tirchi!...
 
La fanciulla, che si sentiva morire, e non vedeva l'ora di essere sola nella sua cameretta, ascoltava in silenzio e rispondeva macchinalmente qualche monosillabo.
 
Ma il professore non voleva lasciarla sola: sapeva che avrebbe pianto, che si sarebbe intenerita; ed egli temeva quelle lagrime, quei ritorni dell'affetto che soffocano l'orgoglio.
 
[145]
Per distrarla la condusse a Milano; le fece conoscere molte persone. Ritornando a Pavia, continuò nel proposito di farla divertire a qualunque costo.
 
Lei restava malinconica, fredda, indifferente a tutto. Non basta: stava anche male. Allora il professore pensò di mandarla in campagna. L'aria dei campi l'avrebbe rinvigorita. Fu dunque deciso che Argìa avrebbe passato qualche mese in villa con la cugina Carmela e Bice Chiari. Altre amiche erano invitate a passare alcuni giorni.
 
Il professore si recava a trovarla due volte la settimana, conducendo seco l'Amelia, i suoi studenti prediletti e altri amici. In tali occasioni si ballava, si faceva musica.
 
Argìa aveva sempre amato il ballo e la musica con passione. Anche triste, anche affranta, quando la musica penetrava nei suoi nervi, ella si lasciava trascinare nel vortice di un valzer e volontariamente si stordiva. Non per [146]questo dimenticava i suoi tormenti, nè cessava di soffrire; ma era una sofferenza diversa, più acuta e nel medesimo tempo quasi dolce, con una sensazione di ebbrezza nella disperazione.
 
Non durava però quello stato. Poco dopo, cessata la musica, ella ricadeva in un abbattimento più profondo e più cupo. Allora il professore s'inquietava. Venivano le ammonizioni.
 
Se faceva così era inutile! Aveva perduto già due partiti: due uomini molto agiati, non tanto giovani, però tanto più sicuri. Si erano innamorati vedendola ballare, ma poi avevano mutata opinione trovandola così malinconica e fredda. Non capiva che era una bambina? Non così andava presa la vita. La vita era una palestra, bisognava lottare e vincere i primi premi. L'arma della donna era la bellezza e l'amore. Il premio, un ricco matrimonio, e il piacere di essere adorata.
 
[147]
Da parte di una fanciulla, l'amore andava inteso quale un mezzo per accasarsi bene, e un passatempo piacevole: un affare e una farsa; guai a chi ne faceva la tragedia della vita!
 
Gli uomini non meritavano l'amore delicato, esclusivo, spesso sublime di certe donne. Quelle illusioni, quelle tenerezze erano margherite gettate ai porci.
 
Era un pezzo ch'egli le pensava quelle cose. Finchè si trattava delle altre lasciava correre: che gl'importava? Peggio per loro se l'esperienza e l'esempio non le illuminava; peggio per i loro genitori che le allevavano così stupidamente.
 
Ora però, ora che si trattava della sua Argìa, della sua creatura prediletta, tirata su con tanto amore, con tanta cura; ora non poteva tacere, lasciar correre. Argìa non doveva soffrire per un uomo: avrebbe parlato tanto finchè l'avrebbe convinta che nessuno, proprio nessuno meritava le lagrime, il dolore di lei. Fausto meno di chiunque.
 
[148]
Nella passione di convincerla giungeva ad accusare sè stesso.
 
Già, neppure lui, il buon padre ch'ella conosceva, neppure lui aveva meritato completamente l'amore di quell'angelo di sua moglie!
 
Non l'aveva compresa, poverina, non aveva saputo essere abbastanza dolce, abbastanza poetico... sebbene l'amasse realmente, come pochi mariti amavano.
 
Dunque, se lui, il suo buon babbo, non era stato capace di dare alla donna amata quella felicità di amore che le donne sognavano, che cosa poteva sperare Argìa ragionevolmente da un altro uomo? In nome di Dio, come poteva illudersi ancora?
 
Pochi giorni dopo aveva un altro partito, un eccellente matrimonio pronto per lei.
 
Era un collega dell'Università.
 
Quarantacinque anni, ma un uomo sano, benissimo conservato. Di quelli che tengono la giovinezza nel salvadanaio per ispenderla [149]tutta in una volta al momento buono. Diecimila lire di rendita e cinquemila di stipendio! Un partito magnifico insomma!
 
Argìa rifiutò. Non voleva maritarsi dacchè gli uomini erano così indegni di amore; non voleva saperne di nessuno. Vi fu un alterco tra padre e figlia, e il padre fu violento, poi debole.
 
Dopo tutto, se non voleva maritarsi, peggio per lei: lui era contento di tenersela in casa, purchè fosse allegra e si divertisse.
 
E continuava l'andazzo solito.
 
Intanto una immensa amarezza era entrata nell'animo dell'infelice sua figlia.
 
Le teorie paterne la rendevano pessimista, senza ch'ella potesse trarre da quel pessimismo il supposto profitto.
 
L'amore per Fausto rimaneva incolume: ma si vergognava di amarlo ancora, come ci si vergogna di una debolezza. Lo avrebbe dimenticato se avesse potuto. E adagio adagio ella [150]faceva ogni giorno più largo posto al bisogno di stordirsi.
 
Sentiva oscuramente il desiderio fatale della vendetta. Solamente, poichè non avrebbe mai avuto il cuore di far del male a Fausto, si sarebbe vendicata sugli uomini in generale.
 
Nessuno dei giovani che suo padre conduceva in villa era capace d'interessarla. Nemmeno il professore suo pretendente che continuava a farle la corte.
 
Li trovava mediocri, noiosi: troppo dissimili da Fausto la cui immagine l'assediava. Ma il ballo poteva ancora distrarla. La musica penetrava l'animo suo e s'impadroniva di tutte le sue facoltà.
 
Quegli stessi uomini che discorrendo le parevano insulsi e noiosi, si trasformavano per lei nel ballare; o meglio non li vedeva, nè sentiva i loro discorsi. Non sentiva che la musica; non vedeva che il turbinio confuso, inebbriante del ballo.
 
[151]
E certi motivi di valtzer le davano la sensazione di smarrirsi in un vortice misterioso. Allora il braccio di un indifferente le pareva il braccio di Fausto: e di Fausto era l'alito caldo che le sfiorava il viso. Era lui che la portava via nell'ebbrezza.
 
Negli intervalli rimaneva spossata, senza idee, quasi senza coscienza.
 
La notte non poteva dormire, stava lungamente alla finestra, trasognata, triste; la testa in fiamme, il cervello pieno di visioni. Soltanto verso l'alba, quando la frescura penetrava il suo corpo, sentiva il bisogno di coricarsi e dormiva un poco.
 
Qualche volta ella passava quelle ore di veglia, nella disperazione e nel pianto. E il nome di Fausto ritornava continuamente sulle sue labbra arse.
 
Una sera il Pisani arrivò alla villa in compagnia di alcuni musicisti, tra i quali un violinista celebre; Adolfo Ruggeri, venuto da [152]Milano per salutare gli amici prima di partire per la capitale della Russia, dove andava a stabilirsi con lauto stipendio.
 
Argìa non l'aveva mai visto.
 
Come sempre quando conduceva degli ospiti, il Pisani si era fatto precedere dal cuoco. Le ragazze dunque sapevano che sarebbero arrivati alcuni signori, ma ne ignoravano i nomi.
 
Verso le cinque, Bice Chiari aspettava con molta curiosità, a una finestra del secondo piano. Argìa e Carmela erano occupate nella sala da pranzo.
 
Improvvisamente la Bice entrò gridando:
 
— Arrivano! Hanno lasciato le carrozze in fondo al viale. Sono tre gli ospiti!... Amelia ha un vestito nuovo tutto rosso...
 
Poi, dopo un momento di esitazione:
 
— C'è Fausto Lamberti!
 
Argìa diventò pallida, ma non disse nulla. Salì le scale in un baleno e si affacciò alla finestra da cui si scopriva tutto il viale. Il [153]cuore le balzò. Era tra quei signori, un giovane di statura media, di proporzioni eleganti, un po' esile; la sua testa finamente disegnata, aveva un'aria pensosa. A quella distanza, sotto a quella luce, pareva tutto Fausto. Una gioia ineffabile s'impadronì della povera Argìa.
 
— Pare proprio lui! — mormorò rivolgendosi alle amiche che l'avevano seguita.
 
La comitiva avanzava discorrendo allegramente. Si sentivano le voci.
 
L'abito rosso di Amelia sfolgorava.
 
— Ah! — gridò Argìa, gettandosi tra le braccia della Carmela — non è lui!
 
Più tardi, passata la crisi, cancellati i segni delle lagrime, Argìa sedeva a tavola vicino al maestro Ruggeri, che suo padre le aveva presentato. Era il primo uomo che le paresse degno di attenzione dopo Fausto Lamberti.
 
Esisteva realmente tra il Ruggeri e il Lamberti, una di quelle affinità per cui, in dati momenti, certe persone si rassomigliano, mentre [154]l'istante appresso; mutando espressione non si rassomigliano più. Ruggeri aveva di Fausto la figura, la forma generale del viso con piccoli baffi senza barba; e, in certi momenti l'espressione appassionata dello sguardo. Senonchè gli occhi di Fausto erano scuri, dolci, benevoli. Il musicista invece aveva le pupille chiare, cangianti di tono e di uno splendore che abbagliava.
 
A suo malgrado Argìa era trascinata a guardarlo. E quando egli fissava in lei lo sguardo fiammeggiante, ella provava un malessere indefinito che la faceva tremare e impallidire.
 
Il musicista si accorse presto di quella attenzione timorosa e se ne compiacque; fatuo, pensò di avere fatta una conquista. Forse credè che Argìa fosse una di quelle donne, non rare nella società, che volentieri accettano l'amore degli uomini in procinto di partire con la probabilità di non ritornare per lungo tempo, o mai più.
 
[155]
Cominciò a guardarla con insistenza. Era una bella figliuola, per Dio! E se fosse stata un poco compiacente...
 
Il fatuo non dubita di nulla; non ha scrupoli, va diritto per la sua strada, convinto che tutto è dovuto al suo merito; indifferente alle sofferenze altrui. Adolfo Ruggeri macchiava di questa volgare perversità la sua anima di artista. Qualcuno gli aveva detto che Argìa amava uno studente di Mantova poco curante di lei, e che tale amore infelice la rendeva indifferente a tutti gli omaggi. Subito, prima di vederla, il violinista aveva pensato: se avessi tempo proverei io a farle la corte. Ed ora, mentalmente, egli si diceva: «Forse riesco in una sola sera: i miei occhi fecero altre volte cotali miracoli.»
 
Le sue grandi pupille grigie, abbaglianti, avevano ricevuto realmente dalla cieca natura, una strana potenza di fascinazione. Ed egli, come se ne valeva!
 
[156]
La povera Argìa era assediata, mitragliata da quegli occhi, capaci di esprimere tutti i sentimenti, senza che l'anima vi prendesse parte.
 
Già non era padrona di non guardarlo.
 
Di tratto in tratto, aveva come un barlume del pericolo: la sua volontà si risvegliava improvvisamente, e con grande fatica ella riesciva a tenere gli occhi bassi.
 
Ma non ci reggeva a lungo.
 
Egli le imponeva di guardarlo; ed ella doveva obbedire al fascinatore, dopo un istante di lotta intima. Cedeva senza accorgersene, e trovava una sorta di benessere, un dolce riposo in quell'abbandono della volontà.
 
Allora le accadeva una cosa strana: non vedeva più nulla del viso di quell'uomo; non vedeva che gli occhi. E quegli occhi scintillanti, magnetici, imperiosi, erano di Fausto! Era Fausto che la guardava così.
 
L'allucinazione non durava che brevi istanti, ma era terribile.
 
[157]
Per fare festa al suo ospite, il Pisani aveva fatto avvertire alcune famiglie di villeggianti vicini, che in casa sua era Adolfo Ruggeri e che nella serata avrebbe suonato.
 
In campagna simili inviti non si lasciano cadere: a poco a poco la società diventò numerosa.
 
Ruggeri prese il violino; uno dei suoi amici, arrivato alla villa con lui, un eccellente pianista, si apprestò ad accompagnarlo. Col violino in mano, Ruggeri cessava di essere fatuo: non pensava che all'arte e si elevava con essa.
 
Argìa si era seduta nel posto più lontano, presso al balcone, nell'ombra della tenda drappeggiata. Raramente nella sua vita ella aveva avuto occasione di sentire della musica così buona. E siccome aveva nell'anima la facoltà di comprenderla, l'impressione fu potente... Quei suoni s'impadronirono dei suoi sensi.
 
Il violino di Ruggeri era affascinante come [158]gli occhi di lui. Non uno strumento pareva ad Argìa quel violino, bensì una voce sovrumana, una voce misteriosa che parlava all'anima sua un linguaggio nuovo, consolante, divino.
 
Dopo il primo pezzo che era di Sgambati — un po' troppo serio per la media del pubblico ascoltante — Ruggeri volle dare un saggio anche del suo non comune ingegno di compositore.
 
La notizia che il pezzo: «Canti dell'anima» deposto sul leggìo, era lavoro dello stesso esecutore, circolò subito per la sala, e signore e signorine si entusiasmarono anticipatamente, fantasticando su la poesia di quel titolo.
 
Il pezzo era lungo, ma assai svariato. Con le armonie potenti, le dolci e vibranti melodie, le sapienti dissonanze, gli inaspettati passaggi, l'artista aveva voluto esprimere le diverse passioni che agitano l'anima umana.
 
La bontà del pezzo, non piccola, era portata [159]al massimo effetto dalla meravigliosa esecuzione.
 
Argìa ascoltava rapita un motivo pieno di dolcezza, un lamento di cuore infranto.
 
Esso le narrava l'eterna e crudele storia dell'amore tradito. Era il canto dell'anima nel dolore.
 
A un certo punto ella dovette uscire sul terrazzino per non darsi in ispettacolo e piangere liberamente.
 
Era una notte stellata meravigliosa. La campagna sembrava incantata. Argìa sentiva nell'aria qualche cosa di solenne, d'inesplicabile. E la voce del violino giungeva al suo cuore, più dolce, più appassionata.
 
Improvvisamente il canto patetico cessò, rotto da uno scoppio di note selvagge come una risata infernale; e da quello scoppio, che aveva agghiacciato l'anima della fanciulla, scaturì un motivo cristallino, saltellante, pieno di foga e di spensierata, superba gaiezza.
 
[160]
Era la canzone del capriccio, giocondo, spietato, irresistibile. A poco a poco questo si trasformava in un inno di guerra, cui faceva seguito un canto irrefrenato, di trionfo, di tripudio. Ritornava il motivo flebile del principio, più straziante, angoscioso. Ma la canzone della gioia lo interrompeva perentoriamente, lo derideva, lo forzava al silenzio, e finalmente lo trascinava con sè nella ridda vertiginosa delle note ebbre. Argìa seguiva con ansia il tramutarsi della tenue melodia sentimentale. Le pareva una voce di anima in pena, balbettante i ritornelli del piacere, con delizioso terrore. Ma presto non la distingueva più, soffocata, agonizzante, in quel tripudio di note, in quel delirio di fantasie di affetti opposti, di ebbrezze, che pure si fondevano in un insieme armonioso, potente, straordinario.
 
Così agonizzava anche l'anima di lei, in un vortice d'abbaglianti immagini, straziata da [161]un dolore acuto, sopraffatta da una potenza ignota, irresistibile.
 
Il pezzo finiva stupendamente con un canto largo, pieno di voluttà e di sospiri, che andava perdendosi lontano.
 
Uno scoppio di applausi salutò il maestro. E siccome l'entusiasmo delle signore si prolungava un po' troppo, Ruggeri ebbe lo spirito d'interromperlo intonando un valtzer.
 
I giovani si misero a ballare in mezzo alle acclamazioni e agli evviva.
 
Argìa rientrò; voleva ballare anche lei. Era mezza sbalordita, con le ossa rotte, le membra pesanti; ma voleva ballare. Ballare fino alla vertigine, fino all'annientamento delle forze.
 
E in fondo all'anima aveva un sentimento oscuro di dover fare così; era un obbligo, una promessa. A chi aveva promesso? A suo padre? Oh! no!... Uno più potente di lui le aveva imposto di tutto obliare.
 
[162]
Ballava. E nei momenti in cui si sentiva stanca e debole, era come se un nuovo impulso l'avesse sostenuta, rialzata.
 
E ballava ancora, e rideva e chiacchierottava con tutti, come non mai aveva fatto.
 
Due o tre volte il Pisani le si accostò, incoraggiandola col suo sorriso. Gli pareva guarita e si congratulava con sè stesso di quella cura tanto difficile. Ella non pensava: non faceva alcuna riflessione; era come una ruota che ha ricevuto un impulso e va fino in fondo all'abisso.
 
Ruggeri aveva deposto il violino: voleva ballare.
 
Tutto a un tratto, Argìa si sentì presa, portata via. Non ballava: aveva la sensazione di volare. Chi era quell'uomo?... Fausto?... No. Era quell'altro!
 
Provò un senso di raccapriccio: una vertigine. Si arrestò: volle fuggire.
 
Ma il braccio potente di Ruggeri la sollevò e la trascinò seco.
 
[163]
Inutile lottare contro quell'uomo.
 
Egli la guardava sempre, e quegli occhi fissi in lei, così da vicino, la turbavano profondamente.
 
Le pareva ch'ei le dicesse con voce ineffabile:
 
— Guardami!... Guardami!...
 
E se si arrischiava a levare gli occhi su lui sentiva una fiamma salirle al viso e tremava tutta. Ma a poco a poco, ella si abituava a quella sensazione: non poteva più farne a meno. Ballava guardandolo fisso, e tutto spariva d'intorno a lei. Non vedeva che quello sfolgorio. Non sentiva che quella fiamma. E intanto le sue forze s'illanguidivano; ella diventava sempre più debole, sempre più debole. Il sonno magnetico la opprimeva.
 
Prima di lasciarla, mentre la società si scioglieva, Ruggeri le mormorò alcune parole, che lei intese benissimo, ma di cui non le fu mai possibile risovvenirsi, poi, nelle posteriori rievocazioni.
 
[164]
Essendo troppo tardi per ritornare in città,. Ruggeri e i suoi due compagni restavano ospiti del Pisani anche per la notte.
 
Ruggeri aveva la camera di Filippo che guardava verso mezzogiorno, con un balcone. Gli altri due erano insieme in una camera grande verso tramontana.
 
Sola nella sua camera, Argìa spalancò la finestra per guardare la notte, come faceva sempre.
 
In cielo era sorta la luna, bianca, falcata; e la sua presenza rendeva la notte ancor più bella e fantastica.
 
Argìa aveva il sentimento di non aver visto mai una notte così; ed era nella vaga incosciente aspettazione di un avvenimento straordinario. Le pareva che tutta la campagna guardasse a lei e che i due alberi della corte, quei due custodi giganteschi, bisbigliassero sommessamente parole misteriose.
 
Improvvisamente ella balzò in piedi. Doveva [165]scendere nella corte! Non poteva resistere alla voce imperiosa che la chiamava. Eppure, una parte della sua volontà rimaneva libera e tentava di resistere.
 
Tornò a sedere. No, no! non sarebbe discesa. Ma un'altra chiamata imperiosa risuonò dentro di lei e la scotè tutta.
 
Doveva obbedire. Lentamente però obbediva.
 
Il suo petto era oppresso; la sua testa, in fiamme; respirava faticosamente.
 
Discese al buio: attraversò i corridoi e alcune stanze, senza far rumore, senza inciampare. Andò diritta al verone della sala; aprì la portiera, poi le persiane, adagio adagio, con precauzione, e scese nella corte.
 
I cancelli erano chiusi; ma lei non voleva uscire.
 
Il vecchio Fido le si accostò dimenando la coda. Ella gl'intimò di ritirarsi nella sua cuccia.
 
Camminava lentamente sull'erba umida di [166]rugiada e quel contatto faceva bene ai suoi piedi stanchi e indolenziti. Provava un sollievo in tutto il corpo.
 
Non più oppressione, nè affanno.
 
Ma la sua anima cosa diceva?
 
Non le era mai riuscito di rammentarsene.
 
Quando rievocava quei momenti funesti e cercava di penetrare nello stato dell'anima sua, non riusciva a scoprir nulla. Un gran buio era dentro di lei.
 
Andò diritta fino alla panca di pietra, al piede della rovere, e il breve tragitto bastò a stancarla. Si lasciò cadere sulla panca: appoggiò le spalle al tronco coperto di musco.
 
Alzò gli occhi al cielo. Come era limpido! Come era profondo! Mai le stelle avevano brillato così sul suo capo.
 
Ad un tratto le parve che si velassero.
 
Erano i suoi occhi, che si velavano: piangeva. Quello splendore la inteneriva...
 
Qualcuno camminava nella corte...
 
[167]
Ella ebbe un sussulto. Quella piccola parte della sua volontà che resisteva ancora, la fece balzare.
 
Volle fuggire: volle gridare.
 
Non potè. Ricadde sulla panca, inerte. Una lassitudine mortale avviluppava tutto il suo corpo: le sue palpebre fatte pesanti si chiudevano.
 
Furtivo e ardito, Ruggeri era sceso nella corte. Quell'avventura gli pareva alquanto arrischiata; ma non era uomo da ritirarsi davanti a una ragazza così bella. Tutto stava che non lo cogliessero sul fatto! Dopo, lui partiva subito, e la Russia era lontana! Del resto, non doveva già essere il primo, che diamine! Sul finire della serata, mentre gl'invitati si congedavano, egli aveva stretto la mano della fanciulla, chiedendole arditamente di poterle parlare da solo a sola; ed ella non aveva ricusato.
 
Solo nella sua camera, si era messo al balcone aspettando un cenno.
 
[168]
Argìa era alla finestra, ma non faceva alcun cenno, nè pareva disposta a muoversi.
 
La vedeva bene nel riverbero della luna; la guardava fisso, e sommessamente le diceva: — Vieni amor mio! — mettendo tutta la forza del suo desiderio in quella invocazione.
 
Ed ecco che lei si era mossa ed era discesa. Non gli aveva fatto alcun cenno, ma era andata ad aspettarlo laggiù nell'ombra fitta di quel grand'albero; proprio come lui aveva pensato, per maggior sicurezza, sapendo bene che, alla peggio, se lo sorprendevano all'aria aperta avrebbe trovata qualche scappatoia; mentre il solo fatto di essere sorpreso nella camera della fanciulla poteva cagionargli i più gravi imbarazzi.
 
Adolfo Ruggeri non era un ipnotizzatore scientificamente conscio dell'opera sua.
 
Se aveva sentito parlare d'ipnotismo, certamente non se ne era occupato. Profondo soltanto in musica, come la maggior parte [169]dei musicisti, tutto il resto dello scibile gli era indifferente. Sapeva però che le sue larghe pupille fosforescenti affascinavano; sapeva pure di possedere una forza d'attrazione che, in certi casi e con certe persone, era addirittura irresistibile. Ma tale coscienza del proprio potere non valeva che ad aumentare la sua fatuità. Non aveva neppure il sospetto che le sue seduzioni rapide potessero essere, in dati casi, veri delitti; le sue vittime, vere innocenti violentate.
 
Non faceva mai violenza alle donne, lui! Esse lo amavano, lo volevano perchè era bello, perchè aveva i più dolci occhi e i più luminosi. Non doveva egli compiacerle quelle care donnine?
 
Se poi, alla conclusione, alcune fingevano di non capire, o se giocavano alle estatiche, alle mezze morte... arti femminili erano, si sapeva bene! O che doveva confondersi lui per quelle commedie?...
 
[170]
Le donne eran fatte a quel modo: desideravano la voluttà come gli uomini; ma poi non volevano che si dicesse!...
 
Non più alto di così il pensiero di quell'artista destinato a una brillante carriera; non più fine, il suo sentimento.
 
Argìa aveva penato molto per ricordarsi di quello che era avvenuto sotto la rovere, e sempre rimaneva per lei un lato oscuro in quella tragedia della sua vita.
 
Era in uno stato anormale, letargico.
 
Sognava, o le pareva di sognare. L'allucinazione la dominava. Le pareva che Fausto fosse ritornato... che sedesse accanto a lei... le parlasse... Tutto a un tratto, un barlume: era veramente Fausto, quell'uomo?...
 
Era l'amore, la gioia, l'oblio.
 
E dopo un momento, una sensazione terribile, che la risvegliava completamente.
 
Aveva gridato con tutta la sua forza. Quel grido avrebbe dovuto risuonare alto nella [171]notte, destando tutti. Ma la sua voce soffocata non aveva alcun suono!
 
Eppure ella era presente a sè stessa: aveva riconosciuto quell'uomo; compreso il delitto. Senonchè, rapida come il baleno, era stata quella percezione. La sua intelligenza si smarriva in profonde tenebre.
 
Come dal fondo di un pozzo sentì abbaiare il cane. Poi nulla: il sonno pesante, senza visioni, senza sogni.
 
Allorchè finalmente si svegliò da quel letargo, era sola e non si ricordava di niente. Tremava di freddo e il suo corpo era tutto un dolore.
 
Nel cielo buio, senza luna nè stelle, apparivano le prime striature dell'alba.
 
Perchè era là in quello stato? Perchè aveva passato la notte su quella panca?
 
Si alzò a fatica. Lentamente, vacillando un poco, riattraversò la corte.
 
Fido tornò a farle festa. Ella rabbrividì; un [172]ricordo confuso di cose spaventevoli si ridestava nel suo cervello.
 
Il terrore si era impadronito di lei; le pareva di essere inseguita e non osava voltarsi. Saltò sul verone; entrò, e rinchiuse, con rapidità convulsa, le imposte e i vetri.
 
Il cuore le batteva furiosamente.
 
Nel medesimo tempo si chiudeva adagio adagio il balcone della camera di Ruggeri.
 
Il violinista andava a dormire dopo di avere aspettato che Argìa rientrasse.
 
Consumato il delitto, un vago rimorso aveva turbato quel suo cuore di fatuo. Gli girava la testa. Quel letargo, quella rigidità della vittima lo spaventavano. Avrebbe voluto svegliarla, e non osava. Aveva paura de' suoi rimproveri, de' suoi lamenti. E se l'avessero sorpreso con lei in quello stato?!.. Se il professore avesse avuto un sospetto?... Doveva affrettarsi a rientrare. Argìa si sarebbe svegliata da sè e avrebbe provveduto a' casi suoi.
 
[173]
La preoccupazione personale aveva cancellato così il tenue rimorso: egli non aveva pensato più che a mettersi in salvo, con infinite precauzioni, evitando i punti illuminati dalla luna, tenendosi lontano dal cane, come un ladro vigliacco.
 
E allorchè finalmente vide rientrare la povera fanciulla apparentemente tranquilla, gli ultimi scrupoli tacquero ed egli andò a letto e dormì beatamente, il sonno del giusto.
 
La mattina, intorno alle dieci, la Carmela entrò nella camera di sua cugina. Come mai dormiva così tardi? Non aveva sentito che confusione nella corte quando quei signori erano partiti?... L'aspettavano per salutarla. Ma il professore aveva detto che era meglio lasciarla dormire, che si era coricata tardi. D'altra parte il signor Ruggeri aveva fretta, dovendo ritornare a Milano per mettersi in viaggio nella giornata...
 
Argìa ebbe un sobbalzo.
 
[174]
— Ruggeri?! — gridò: — Ruggeri!? Chi è?...
 
Ricadde sul letto spossata.
 
La Carmela che non era ragazza di molta fantasia, restò sbalordita.
 
Toccò le mani di Argìa e sentì che bruciavano. Aveva la febbre e il professore era partito! Bisognava subito mandare un messo.
 
Argìa restò così tre giorni; apparentemente, colpita da una febbre d'infezione per la quale le fecero trangugiare forti dosi di chinino.
 
In realtà, essa era assediata da un incubo che la faceva impazzire. Che cosa era stato di lei?... Quale avvenimento terribile l'aveva colpita?
 
Il terrore di cui si ricordava, le immagini confuse, i latrati del cane che la facevano riscuotere ogni volta che si ripetevano, erano altrettanti indizi di un pericolo ch'ella aveva corso. Ma era stato soltanto un pericolo?...
 
Dopo alcuni giorni cominciò a stare meglio.
 
La febbre scomparve.
 
[175]
Ma non l'angoscia che la struggeva. Cercava, frugava nella memoria.
 
Voleva ricordarsi: voleva sapere. E non le riusciva!...
 
Certi giorni era più tranquilla. Metteva ogni cosa sul conto della febbre: doveva aver delirato, e nel suo cervello indebolito erano rimasti i fantasmi del delirio....
 
Ma la notte la gettava nella disperazione, ridandole la coscienza della realtà.
 
Il professore decretò che dopo quella febbre l'aria della campagna non le conveniva più.
 
Argìa ritornò con le amiche in città, dove passò giorni tetri, sconsolati.
 
Eppure la sua speranza non era completamente estinta: di tratto in tratto risorgeva nell'animo contristato. Ella si sentiva portare in alto da un nuovo soffio di vita, e le sue illusioni rinverdivano. Fausto sarebbe ritornato, e lei non poteva essere indegna di lui....
 
Ma una circostanza, da prima non avvertita, [176]dissipò l'ultimo inganno. La sua salute deperiva tutti i giorni. Ella aveva dei sintomi strani che un angoscioso pudore le vietava di palesare.
 
Nel settembre, ritornando in villa, rivedendo quei luoghi, si ricordò improvvisamente di tutto.
 
Ah! non sogno era stato; non sogno, ma irreparabile realtà!...
 
Era perduta!
 
E non solo il fatto orrendo era vero, indistruttibile; non solo, ahimè!...
 
Il frutto di quell'infamia viveva nelle sue viscere.
 
La prima idea che le venne fu quella del suicidio; e per alcuni giorni la nutrì con ardore.
 
Voleva distruggersi: cancellare la colpa col proprio sangue.
 
Ma a poco a poco il suo coraggio diminuì, poi le mancò affatto. La disperazione acuta cedette [177]il posto all'abbattimento; e una specie di torpore sempre più grave s'impadronì del suo corpo e della sua anima.
 
In tale stato ella era durata fino al giorno in cui Fausto si presentava improvvisamente dinanzi a lei.
 
Oh! come si augurò allora di essere scomparsa, sepolta!
 
Egli l'amava come prima: più di prima: i suoi occhi lo dicevano.
 
Vinti i contrasti, sormontate le difficoltà, egli si presentava a lei come un trionfatore; e nel suo viso raggiante sfavillava la gioia.
 
E lei, poverina, si sentiva come un cadavere a cui il destino perverso avesse lasciato — per colmo di malvagità — la facoltà di soffrire e l'apparenza ingannevole della vita....
 
Oh! se Fausto avesse potuto leggerle in cuore, come avrebbe dovuto compiangerla!...
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