Argìa soffriva crudelmente. Tutto il giorno era stata nell'ansia, col pensiero fisso ad un punto solo.
Il ritardo di Fausto l'angosciava.
Amelia era in preda alla noia; e la sua noia si traduceva in dispetto.
Quell'invernata le pareva eccessivamente pesante. Soltanto qualche passatempo di tratto in tratto; e tutte le sere quelle visite al vecchio infermo, con la compagnia di quei due fidanzati così poco allegri!
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L'unica vera distrazione in quelle occasioni era per lei Vittorio; ma non le bastava. Avrebbe voluto qualche cosa di meglio. Con questo desiderio insoddisfatto ricadeva naturalmente nella noia; e annoiandosi osservava che sua sorella non pareva niente più soddisfatta di lei, e Fausto meno di tutti.
Che amore ingrugnito! E che famiglia noiosa e musona avrebbero fatto quei due! Già lei non sarebbe andata ad incomodarli! Una volta sola in casa, il babbo avrebbe dovuto occuparsi di lei... e allora...
Anche don Paolo almanaccava tra sè e sè nel suo letto.
Aveva peggiorato sensibilmente; il suo intelletto tramontava. Era senza forze, e non se ne accorgeva.
Tutti i giorni si faceva levare dal letto tre o quattro volte per mangiare una minestra, per bere una tazza di thè o di latte.
Lo prendevano in braccio, come un bambino [217]in fasce, e lui s'illudeva ancora di muoversi da sè, di avere appena bisogno di un lieve aiuto.
Quando era seduto in poltrona pareva un fantasma.
— Sono le sei suonate: non verranno più stasera! — mormorò Amelia pestando i piedini nella cenere.
Argìa trasalì e tremò tutta.
— Le sei?... le sei?
— Già, le sei!... Oh che ti fissi anche tu sulle ore, come quello lì! C'è un contagio, si vede, in questa casa.
La governante entrò col domestico per alzare il malato e farlo mangiare. Le lampade furono accese.
— Perchè svegliarmi nel cuor della notte? — esclamò don Paolo irritato. — Che avete? Siete pazzi? Sono appunto suonate le tre alla torre, e volete farmi alzare... farmi mangiare... Ah! so io cosa volete! Volete portarmi via... È il complotto...
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Egli si interruppe, spaventato dai fantasmi della sua immaginazione, ripigliando poscia con voce querula:
— Dov'è Fausto?... dov'è Vittorio? Perchè mi abbandonano ai miei nemici?... Bisogna chiamarli. Su, avvertiteli! Se non vegliano loro è finita!.... È una cosa grave.... un'infamia.... Dove sono?... Rispondete! Argìa? Amelia? Cosa fate lì?.... Chiamate i vostri amanti!.... Ah! essi dormono, poveretti: dormono a quest'ora, e voi altre siete qui... d'accordo coi miei nemici. Ecco! È poco vero che sono tradito? I cattivi approfittano dell'ora in cui i miei ragazzi dormono.
«Ah! i gesuiti! i gesuiti! Quando c'entrano i gesuiti, non c'è speranza!.... Sono i gesuiti che mi ammazzano. Mi hanno sempre odiato. Adesso mi spiano per cogliermi nell'abbandono. Sì, sì, li ho visti passeggiare sui tetti, là!...
«E lei... e lei... signora Luisa, si lascia raggirare!
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«Pss!... Non se n'abbia a male. Non dico che sia complice!... Ma debole femmina: un bel giovanotto... una parola dolce... sempre l'amore, sempre! Le donne ci perdono la testa!
«E io, povero vecchio, che non ho più speranza di amore, che nessuno ama, muoio, abbandonato, in mano ai miei nemici!
«Mi vogliono portare via... in un altra casa... per farmi morire più presto... più presto!.. Già una volta mi hanno portato... Si ricorda signora Luisa? E ho patito tanto allora... tanto!
Sempre più fioca diventava la voce, sempre più incomprensibile. Di tratto in tratto s'interrompeva; poi ricominciava, borbottando fra i denti; smozzicando le parole.
E faceva senso quella voce senza timbro, quella voce morta che si lamentava, attraversata da sibili e da rantoli.
Ma la gente di casa vi si era abituata. Amelia rideva sommessamente; Argìa non [220]ascoltava, sempre lontana col pensiero, attendendo che il noto passo si facesse sentire nell'anticamera.
Il domestico condannato a stare serio e corretto, si mordeva le labbra, impaziente.
La sola governante era penetrata e soffriva.
Non poteva rassegnarsi a quelle ingiurie del suo vecchio padrone, della cui incoscenza e irresponsabilità non poteva convincersi.
Le lagrime le facevano nodo alla gola; soffocava i singulti a fatica.
Dopo un silenzio penoso, scattò.
A lei dire di quelle cose! A lei?.... Con la vita che aveva fatta, irreprensibile e di sacrifici! Vita che don Paolo conosceva benissimo. Insultarla così, dopo tanti anni che lo serviva? Dopo tante bizze e capricci che lei aveva sopportati! A lei, dopo tante prove di fedeltà e di devozione?...
A questo punto, essendosi esaltata e irritata sempre più con le proprie parole, la povera [221]donna non potè più continuare, nè frenare i suoi nervi; e i singhiozzi scoppiarono: le lagrime le inondarono il viso.
Don Paolo, ammutolito spalancava gli occhi, facendo girare le sue pupille come due lanterne.
Capiva?
Nessuno avrebbe potuto dirlo.
Certo era impressionato. Passata la burrasca, la sua mente ebbe un ritorno di lucidità; e fece come certi ragazzi birichini e furbi: finse di avere scherzato.
Al solito! quella benedetta Luisa non capiva gli scherzi! Dopo tanti anni non s'era ancora abituata! Prendeva ogni cosa in tragico.
E sorrideva di un sorriso inesplicabile.
— Il caffè?... Mi ha portato il caffè?
— No, don Paolo... Il pranzo è pronto.
— Il pranzo?... Ma che?... Luisa! Luisa!...
La chiamava sommessamente.
— Luisa, mandi via questo domestico: è uno di quelli...
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Poi, dopo una pausa:
— Voglio il caffè.
— Subito...
La governante uscì soffocando un sospiro, e le ragazze restarono nuovamente sole col vecchio infermo.
Il piedino impaziente di Amelia battè un colpo secco sopra un tizzone che si arrovesciò nella brace provocando una vera eruzione di scintille.
— Sono stufa, sai!... ma stufa! Perchè tu sposi il signor Lamberti non c'è ragione che io venga a incretinirmi in questo manicomio. Tanto, io, l'altro, non lo sposo davvero! Che, che! Non voglio zoppi, io!...
Si alzò con dispetto; fece un mezzo giro per la camera; poi, essendosi accorta che don Paolo le accennava di accostarsi a lui, gli voltò le spalle; andò alla finestra e si mise a guardare nella strada, traverso i vetri.
Un momento dopo, un rumore sordo, come [223]di ossa battute, e un grido di Argìa, la fecero voltare spaventata.
— Ah! don Paolo in terra!
Egli giaceva sul tappeto, nella più completa immobilità; e non pareva neppure un corpo umano ma una cosa bianca informe.
Aveva voluto scendere dal letto; chi sa, forse per rincorrere quella birichina di Amelia; forse per andarsene da quella casa, come spesso diceva; e al primo contatto dei suoi piedi inerti col pavimento, era scivolato.
Amelia si mise a gridare; Argìa toccò il bottone del campanello elettrico. Il panico le aveva prese: non osavano muoversi.
E lui forse capiva che avevano paura e ribrezzo. Povero don Paolo! Essere ridotto in quello stato, lui, innamorato dell'estetica, della vita, di ogni poesia!
Improvvisamente l'uscio fu spalancato, e Vittorio Giudici si precipitò nella camera, pallidissimo, in uno stato di sovraeccitazione appena sostenibile.
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Senza accorgersi di quello che accadeva, egli andò diritto all'Argìa, le afferrò le mani e scuotendola un poco, le sussurrò con voce rauca:
— Fausto è malato! L'ho trovato per istrada che non poteva camminare...
E più basso ancora:
— Ho paura che abbia voluto uccidersi!... Cosa gli ha fatto?... — S'interruppe, smarrito.
Argìa non rispose. Oppressa, annientata, ricadde sulla sedia. Pareva impietrita. Un momento dopo trovò la forza di rialzarsi e balbettò:
— Dov'è?... Andiamo!
E s'avviò risoluta.
Vittorio e Amelia la seguirono.
Dimenticato da tutti, incapace di fare il più piccolo sforzo per sollevarsi da sè, e vergognandosi di chiamare, don Paolo restò solo, disteso sul tappeto.
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