Oh! il dolce tepore... il forte profumo dell'aria marina!...
In un coupé di prima classe, Fausto ed Argìa guardavano il mare. Le loro anime si libravano, i loro cuori traboccanti di amore rinascevano a nuova vita.
All'uscire da quella lunga galleria, là dove i lombardi che vanno in Riviera nei mesi [280]invernali, hanno la sensazione di un passaggio portentosamente rapido dal nord al sud, Fausto aveva detto alla giovine sposa, stringendosela sul cuore:
— Così la nostra vita passa dalle tenebre alla luce: dal gelo al sole!
Ella si era commossa, aveva pianto e sorriso: ma in fondo al cuore le rimaneva un'ombra ostinata: un angolo buio che la faceva fremere e rabbrividire.
Erano soli e liberi, e andavano via, lontano dai luoghi dove tanto avevano sofferto... Andavano, con la speranza di non ritornare per lungo tempo.
La salute di Fausto, riacquistata a fatica, dopo sì dure prove, aveva bisogno di un clima più mite, di un'aria più vivificante, per ristabilirsi completamente. Nessuno meglio di lui avrebbe giudicato della durata di questo bisogno.
Una villetta bianca li aspettava laggiù, [281]presso Bordighera, un vero nido d'amore. Potevano rimanervi degli anni.
Don Paolo era morto pochi giorni dopo la cerimonia del loro matrimonio. La morte pietosa, che egli aveva tanto temuta, lo coglieva nel sonno, senza dolore, quasi senza transizione.
Erano dunque ricchi i due sposi, ricchi, e indipendenti.
Fausto non si curava di prendere il diploma universitario: avrebbe continuato a studiare da sè per amore della scienza, non per esercitare una professione di cui non aveva alcuna necessità.
Ed egli ripeteva queste cose alla giovine, accarezzandole dolcemente i capelli, accennandole di tratto in tratto un punto incantevole: una cresta di monte dorata dal sole, un colle tutto verde, un pittoresco villaggio.
Ma ella non poteva staccarsi dalla contemplazione del mare che vedeva per la prima volta.
Tacquero lungamente, cullati dal treno, nel dolce tepore dei loro corpi vicini. A un tratto Fausto si scosse.
— Argìa!...
— Fausto!...
— Tu sei sempre triste... Non ti basta il mio amore?...
— Oh! Fausto!...
— E perchè pensi a lasciarlo? Cattiva!...
— Oh! No!...
— Non negare!... Io sento che tu mi vuoi fuggire. Tu pensi sempre al nostro vecchio sogno di morte... Forse pensi ancora che era meglio morire con me, che vivere con me?
— Oh! Come potrei pensar questo, Fausto?
E un dolce sorriso le illuminò il volto. Poscia riprese:
— Ebbene, giacchè vuoi sapere, io penso che tu sei stato troppo generoso... che hai fatto un sacrificio troppo grande... troppo!....
«Insomma, che in questa nostra unioe, tu [283]porti tutto per la comune felicità... io, nulla!... Vale a dire... peggio ancora!...»
Si coprì il viso con le mani, e con voce soffocata mormorò:
— Se almeno tu non mi avessi sposata... se non portassi il tuo nome.. se si avesse potuto vivere insieme liberamente.. o se tu fossi povero!.. Sarei meno umiliata!...
— Ah! piccola borghese! Piccola orgogliosa! Tu che ti davi l'aria di essere una ribelle, ti riveli più borghese di me! Sì, sì! Poichè dai tanta importanza a cose che io non considero affatto... od almeno non portano nel mio giudizio alcuna differenza. È merito mio se son ricco? È merito mio se l'uomo dà il nome?... Bella roba! Usi sociali, semplici combinazioni delle cose esteriori, indipendenti da noi. Ah! ora non ho più paura che tu mi preceda sulla via della ribellione, e che tu guardi a me con disprezzo. Passato, quel tempo! Del resto io non ti ho sposata — come tu forse pensi — soltanto [284]per sottrarti alla collera di tuo padre e perchè egli non ti strappasse dal mio capezzale, perchè credevo di morire. No, Argìa. Da lungo tempo combattevano dentro di me l'amore e l'intelligenza contro i pregiudizi e gl'istinti ereditari: da lungo tempo sentivo che dovevo salvarti, te e il tuo bambino; e farti vivere felice, e vivere con te, giacchè senza di te non sapevo vivere.
«Mi mancava la forza di eseguire quello che pensavo e desideravo.
«Ma nella, malattia, in quelle eterne ore di angoscia tra la vita e la morte, una voce più chiara, più alta, parlò nell'anima mia. Negli accessi della febbre, allorchè la mia mente era turbata da strane visioni, mi pareva che la morte avesse preso forma accanto al mio letto, e deridendomi mi dicesse: «Muori! Muori, decrepito vecchio! Meriti di morire solo e di essere dimenticato!
«Perciò, Argìa, quando tuo padre ti strappò [285]dal mio capezzale in quella notte terribile, e Vittorio mi disse ch'egli sapeva il tuo stato, fu come se una gran luce fosse entrata nel mio cervello: dovevo sposarti subito!
«Sentii che sarei morto meno disperato, che quella orribile figura non avrebbe potuto beffarmi coi suoi sarcasmi, nè dirmi che meritavo di morire perchè ero un vecchio decrepito irreparabilmente legato ai vecchi pregiudizi, ai vecchi egoismi!.. E non solo questo sentii; una tenue speranza mi sollevò, mi diè forza: sarei forse guarito... forse... avrei vissuto ancora, amato, felice!...
«La febbre diminuì: le visioni sparirono; e quella speranza divenne sempre più gagliarda e le mie forze si ristabilirono.
«Sono guarito. Ebbene, Argìa, io che sono medico, ma che alla medicina credo piuttosto poco, penso che, se quella buona risoluzione non avesse dirò così preparata la crisi, lo svolgimento della malattia sarebbe stato forse diverso e non sarei guarito. Capisci?»
Incapace di rispondere, vinta da una tenerezza infinita, ella si strinse a lui, guardandolo amorosamente.
Restarono alcuni istanti così, silenziosi e stretti.
Poco prima di scendere alla stazione di Bordighera, Fausto riprese:
— Ricordati dunque, amor mio, non più sofismi, non più vani rimorsi, mi offenderesti. Dobbiamo godere la felicità che ci è concessa, rispettandola, venerandola, come cosa sacra: e dobbiamo fare quanto sta in noi perchè duri. Quello che a noi sembrava magnanima fierezza: «rifiutare la felicità perchè non poteva più essere quale l'avevamo sognata, o per timore che ci mancasse poi, o che fosse traversata da momenti penosi e da qualche umiliazione dell'orgoglio,» era follia, stupidaggine! Non grandezza di spirito, ma calcolo balordo di piccoli vigliacchi!...
«Bisogna vivere, Argìa, vivere per amare [287]ed essere felici, come meglio si può, quanto più si può!
«Questa è la filosofia che mi ha insegnato la Morte quando bazzicava intorno al mio letto: lei che ha sciolto il nostro lugubre e puerile romanzo di suicidio, rigettandoci, per bontà sua, nell'eterno e sempre nuovo romanzo della vita e dell'amore!»
Egli sorrideva in un modo speciale, finissimo e pieno di dolci sottintesi. E il suo colorito caldo annunciava il completo ritorno della salute; i suoi occhi raggianti, la piena fiducia in sè e nella vita.
Argìa pendeva dal suo labbro, gli occhi negli occhi di lui, affascinata e come irradiata da quella potente giovinezza virile.
Ancora pochi minuti e il treno entrò nella stazione, fischiando e mugghiando.
Il campanello elettrico cinguettava allegramente; impiegati e fattorini aspettavano, fermi al loro posto, fissando il treno.
— Guarda — disse Fausto, indicando alla sua compagna il magnifico panorama della Riviera che si stendeva dinanzi a loro in tutta la sua meravigliosa bellezza. — Guarda, questo è il paradiso!... Sarà per un giorno... per un anno, per dieci... Ciò non dipende da noi e non val la pena di pensarci. L'importante è che ci siamo e che questa gioia immensa ce la siamo conquistata, e nessuno ce la ruba più!...
Argìa chiuse gli occhi per frenare le lagrime che le gonfiavano le palpebre, poi, con gesto rapido, quasi febbrile — mentre gli sportelli si spalancavano ai coupés vicini e le voci stentoree gridavano a perdifiato: «Bordighera! Bordighera!» — gettò le braccia al collo al suo salvatore, al suo sposo, e solennemente lo baciò sulla bocca.