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VII. — L’INTERROGATORIO.

时间:2021-06-28来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:Non appena Villefort fu fuori della sala da pranzo che lasci la maschera allegra per prendere laria grave di un uomo chi
(单词翻译:双击或拖选)
 Non appena Villefort fu fuori della sala da pranzo che lasciò la maschera allegra per prendere l’aria grave di un uomo chiamato al supremo ufficio di pronunciare sulla vita del suo simile. Ora, ad onta della mobilità della sua fisonomia, mobilità che il sostituto aveva studiata, come deve fare ogni abile attore, più di una volta innanzi lo specchio, allora per altro durò molta fatica ad aggrottare le sopracciglia e a rendere severi i suoi lineamenti. Di fatto, prescindendo dalle memorie di quella linea politica seguita da suo padre e che poteva se egli non se ne allontanava compiutamente, inceppare il suo avvenire, Gherardo de Villefort era in quel momento tanto felice, quanto è concesso ad un uomo di esserlo. Di già ricco per sè stesso, egli a ventisette anni occupava un posto elevato nella magistratura, sposava una giovinetta bella di persona cui amava; di più, oltre la sua bellezza che era notevole, madamigella di S. Méran sua sposa apparteneva ad una delle famiglie più favorite dalla corte d’allora; finalmente l’influenza dei genitori di lei, non avendo figli maschi, poteva essere consacrata tutta intera al loro genero; ella portava ancora al marito una dote di 50mila scudi, che grazie alle speranze, parola atroce inventata dai sensali di matrimonio, poteva un giorno aumentarsi con una eredità di un mezzo milione. Tutti questi elementi riuniti componevano dunque per Villefort un totale di felicità abbagliante a segno, che gli sembrava di vedere delle macchie nel sole quando aveva lungamente guardata la sua vita interna colla vista dell’anima. Alla porta trovò il commissario di polizia che lo aspettava... La vista dell’uomo nero lo fece tosto ricadere dall’altezza del terzo cielo sulla terra materiale ove noi camminiamo; ricompose il viso nel modo che abbiamo indicato, e avvicinandosi all’ufficiale di giustizia: — Eccomi, signore, diss’egli; ho letta la lettera, e voi avete fatto benissimo in arrestare quest’uomo, ora datemi sopra di lui e sulla cospirazione tutti i particolari da voi raccolti.
 
— Signore, della cospirazione non si sa ancor nulla, rispose il Commissario; ma tutte le carte che sono state ritrovate presso quest’uomo, sono tutte poste in un plico e sigillate sul vostro scrittoio. Quanto al prevenuto, voi lo avrete veduto dalla lettera stessa che lo denunzia, egli si chiama Edmondo Dantès, secondo a bordo del bastimento a tre alberi, il Faraone, che fa commercio di cotone con Alessandria e Smyrne, e appartiene alla casa Morrel e F. di Marsiglia.
 
— Prima di servire nella marina mercantile ha egli servito nella marina militare? domandò Villefort. — Oh! no, signore, egli è giovine del tutto. — Qual è la sua età? — Diciannove o vent’anni al più. — In questo e siccome Villefort, seguendo la strada grande era giunto all’angolo della via dei Consoli, un uomo [28] che sembrava aspettarlo al suo passaggio, lo fermò: era Morrel. — Ah! signor de Villefort, esclamò il bravo uomo riconoscendo il sostituto, immaginatevi che si commette lo sbaglio più strano, e più inaudito; è stato arrestato il secondo del mio bastimento, Edmondo Dantès.
 
— Lo so, disse Villefort, ed io mi riduco in casa per interrogarlo.
 
— Ah! continuò Morrel, spinto dalla sua amicizia per il giovinotto, voi non conoscete quello che viene accusato, io, io lo conosco. Immaginatevi l’uomo più dolce, più probo ed oserei quasi dire l’uomo che conosce il suo mestiere meglio di tutta la marina mercantile. Oh! signor de Villefort, io ve lo raccomando caldamente e con tutto il cuore. — Villefort, come si è potuto vedere, apparteneva al partito nobile della città e Morrel al partito plebeo; il primo era ultra regio, il secondo sospetto di bonapartista. Villefort guardò sdegnosamente Morrel e gli rispose con freddezza: — Voi sapete che si può essere dolci nella vita privata, probi nelle relazioni commerciali, sapienti nel proprio stato, e ciò nonostante essere grandi colpevoli politicamente parlando, voi il sapete? — e il magistrato appoggiò sopra queste ultime parole come se avesse voluto fare l’applicazione allo stesso armatore; mentre che col suo sguardo scrutatore si sforzava di penetrare fino al fondo del cuore di quest’uomo ardito abbastanza da intercedere per un altro, quando doveva sapere che aveva bisogno egli stesso d’indulgenza. Morrel arrossì poichè non si sentiva la coscienza netta in riguardo alle sue opinioni politiche; e d’altra parte la confidenza che gli avea fatto Dantès del colloquio tenuto col gran Maresciallo e delle poche parole che gli aveva dirette l’Imperatore gli turbava qualche poco lo spirito. Tuttavolta egli aggiunse con l’accento del più profondo interessamento: — Io ve ne supplico, sig. de Villefort, siate giusto come dovete esserlo, buono come lo siete sempre, e rendete a noi ben presto questo povero Dantès. — Il rendete a noi, risuonò rivoluzionariamente all’orecchio del sostituto al Procuratore del Re. — Eh! eh! disse a sè stesso, rendete a noi. Questo Dantès sarebbe egli forse affiliato a qualche setta di carbonari perchè il suo protettore impieghi così, senza pensarci, la formola collettiva? È stato arrestato in un’osteria, mi disse, cred’io il Commissario, in numerosa compagnia, mi soggiunse; forse sarà stata qualche vendita. Poi alzando la voce, rispose: — Signore, potete stare perfettamente tranquillo, e non vi sarete appellato inutilmente alla mia giustizia, se il prevenuto è innocente; ma se al contrario egli è reo, viviamo in tempi così difficili che la impunità sarebbe di un esempio tremendo; ed io sarei obbligato di fare il mio dovere. — E siccome era arrivato alla porta della casa attigua al palazzo di giustizia, entrò maestosamente dopo aver salutato con una gentilezza di ghiaccio l’infelice armatore che rimase come pietrificato al luogo ove lo lasciò Villefort.
 
L’anticamera era piena di gendarmi e di uffiziali di polizia. In mezzo ad essi, guardato a vista, circondato da sguardi fulminanti d’odio si stava tranquillo, immobile e ritto in piedi il prigioniero. Villefort traversò l’anticamera, dette uno sguardo obliquo a Dantès dopo aver preso un piego che gli venne da un uffiziale, dicendo: — Mi si conduca il prigioniero.
 
Per quanto fu rapido lo sguardo, pure bastò a Villefort per farsi un’idea dell’uomo che stava per interrogare. Egli aveva riconosciuto l’intelligenza in quella fronte larga ed aperta, il coraggio nell’occhio fisso e nel sopracciglio corrugato, e la franchezza nelle labbra grosse e semi-aperte, che lasciavano vedere due fila di denti bianchi come l’avorio; la prima impressione era stata dunque favorevole per Dantès, ma Villefort aveva inteso dir così spesso, come parola di profonda politica, che bisogna diffidare del primo movimento attesochè questo è il buono; che egli applicò la massima all’impressione, senza tener conto della differenza che passa fra queste due parole: soffocò in conseguenza i buoni istinti che volevano invadergli il cuore per liberare lo spirito dall’assalto, accomodò davanti lo specchio il contegno come nei giorni di grandi formalità, e si assise cupo e minaccioso avanti allo scrittoio. Un istante dopo di lui entrò Dantès. Il giovinotto era sempre pallido, ma tranquillo e sorridente: salutò il suo giudice con una pulitezza non affettata, cercò cogli occhi una sedia, come se si fosse ritrovato nella camera del signor Morrel. Fu allora soltanto che egli scontrò lo sguardo di Villefort, sguardo particolare agli uomini del foro che non vogliono che vi si legga il loro interno pensiero, e fanno del loro occhio un cristallo appannato. Questo sguardo gli fece conoscere che egli era davanti alla giustizia, aspetto di sinistre maniere.
 
— Chi siete voi, e come vi chiamate? domandò Villefort, sfogliando quelle note che l’uffiziale gli aveva rimesso entrando, [29] e che da un’ora erano divenute voluminose, tanto la corruzione dello spionaggio si attacca presto al corpo disgraziato di colui che si noma prevenuto.
 
— Signore, io mi chiamo Edmondo Dantès, rispose il giovinotto con voce ferma e sonora: sono secondo a bordo del bastimento il Faraone, che appartiene ai Sigg. Morrel e F.
 
— La vostra età? continuò Villefort. — Diciannove anni, rispose Dantès. — Che facevate voi, al momento che siete stato arrestato? — Assisteva al pranzo dei miei sponsali, disse Dantès, con una voce leggermente commossa, tanto questo contrasto era doloroso, dai momenti di gioia colla lugubre cerimonia che si compiva, tanto il viso cupo di Villefort faceva brillare di tutta la sua luce il volto raggiante di Mercedès.
 
— Voi assistevate al pranzo dei vostri sponsali? disse il sostituto rabbrividendo suo malgrado.
 
— Sì, o signore, io sono sul punto di sposare una donna che amo da tre anni! — Villefort sebbene d’ordinario impassibile fu ciò nonostante colpito da questa coincidenza; e la voce commossa di Dantès sorpreso in mezzo alla sua felicità andò a svegliare una fibra simpatica nel fondo della sua anima. Egli pure si maritava, egli pure era felice, e si veniva a disturbare la sua felicità, perchè contribuisse a distruggere la gioia di un uomo, che come lui, toccava di già alla felicità! questo ravvicinamento filosofico, pensò egli, farà grande effetto al mio ritorno nel salone del marchese di S. Méran, ed egli accomodava di già nel suo spirito, e mentre Dantès attendeva nuove interrogazioni, le parole di antitesi, coll’aiuto delle quali gli oratori costruiscono quelle frasi ambiziose di applausi che qualche volta fanno credere in essi una vera eloquenza. Allorchè il suo piccolo speech interno fu accomodato, Villefort sorrise al suo effetto, e ritornando a Dantès:
 
— Continuate, diss’egli. — Che volete che io continui a fare?
 
— Ad illuminare la giustizia. — Che la giustizia mi dica su qual punto vuol essere rischiarata, ed io le dirò tutto ciò che so. Soltanto, aggiunse egli, con un sorriso, la prevengo che so ben poche cose. — Avete voi servito l’Imperatore? — Egli cadde appunto quando stavo per essere incorporato nella marina militare. — Si dice che le vostre opinioni politiche siano esagerate, disse Villefort al quale nessuno aveva detto una parola di ciò, ma non si trovava malcontento di porre una domanda come si pone un’accusa.
 
— Le mie opinioni politiche? le mie, signore! è quasi vergognoso il dirlo, ma io non ho mai avuto ciò che si chiama un’opinione: ho diciannove anni appena, come ebbi l’onore di dirvi; io non so niente, non sono destinato a rappresentare alcuna parte, il poco che sono e che sarò, se mi vien accordato il posto che ambisco, lo dovrò solo al signor Morrel. Per tal modo tutte le mie opinioni, non dirò politiche, ma private, si limitano a questi tre sentimenti: amo mio padre, rispetto il sig. Morrel, e adoro Mercedès. Ecco, o signore, tutto ciò che posso dire alla giustizia: vedete che questo può importarle ben poco.
 
A seconda che Dantès parlava, Villefort ne contemplava il viso dolce ad un tempo ed aperto, e sentiva ritornare alla memoria le parole di Renata, che senza conoscere il prevenuto, gli aveva domandata indulgenza per lui. Coll’abitudine che aveva digià il sostituto a trattare i delitti e i delittuosi, egli vedeva sorgere ad ogni parola di Dantès le prove dell’innocenza di lui. Di fatto questo giovine, che si sarebbe potuto chiamare anche ragazzo, semplice, ingenuo, eloquente, di quella eloquenza del cuore che non si trova mai quando si cerca per affettarla, pieno d’affezione per tutti perchè era felice, chè la felicità rende buoni anche gli stessi perversi, versava fino sul suo giudice la dolce affabilità che si espandeva dal suo cuore. Edmondo non aveva nello sguardo, nella voce, nel gesto, per quanto rozzo e severo fosse stato con lui Villefort, che affabilità e bontà per colui che lo interrogava.
 
— Perbacco! disse tra sè Villefort, ecco un grazioso giovinotto e non penerò molto, lo spero, a farmi un merito con Renata compiacendo la sua prima raccomandazione. Ciò mi frutterà una buona stretta di mano in presenza di tutti, ed un bacio ineffabile di nascosto in un canto.
 
A questa doppia speranza la figura di Villefort si abbellì, dimodochè quando rivolse gli sguardi dai suoi pensieri sopra Dantès, Dantès che aveva seguito tutti i movimenti della fisonomia del suo giudice, sorrideva quasi al suo pensiero.
 
— Sapete voi di aver qualche nemico? disse Villefort.
 
— Io dei nemici? rispose Dantès, ho la fortuna di essere ancora ben poca cosa, [30] perchè la mia posizione me ne faccia. Quanto alla mia indole, forse un poco troppo vivace, ho sempre cercato di addolcirla verso i miei subordinati. Ho dieci o dodici marinai sotto i miei ordini; che vengano pure interrogati, o signore, ed essi vi diranno che mi amano e mi rispettano, non come un padre perchè sono troppo giovine, ma come un fratello maggiore.
 
— Bene, continuò Villefort, vediamo ora, se invece di nemici poteste avere qualche invidioso, o qualche geloso. Voi siete per essere nominato capitano a diciannove anni, il che è un raro bene in tutti gli stati; queste due preferenze avrebbero potuto generarvi qualche invidioso.
 
— Sì, avete ragione: voi dovete conoscere gli uomini meglio di me; ciò è possibile; ma se questi invidiosi dovessero essere tra i miei amici, vi confesso che amo meglio di non conoscerli, per non esser costretto ad odiarli.
 
— Avete torto, bisogna sempre per quanto è possibile, tener gli occhi aperti intorno a sè, e in verità voi mi sembrate un così bravo giovine, che per voi son per allontanarmi dalle regole ordinarie della giustizia e per illuminarvi, comunicandovi la denunzia che vi conduce a me dinanzi. Ecco il foglio accusatore, conoscete voi il carattere? — E Villefort cavò di tasca la lettera e la presentò a Dantès. Questi osservò e lesse. Una nube gli oscurò la fronte, poi disse: — Non conosco questo carattere, che quantunque alterato, pure è scritto con molta franchezza. In ogni caso è una mano molto abile che lo ha vergato. Sono ben fortunato, soggiunse guardando con riconoscenza Villefort, di avere a trattare con un uomo, quale voi siete, poichè in fatto il mio invidioso è un vero nemico. — Al baleno che folgorò sugli occhi del giovinetto pronunciando queste parole, Villefort potè conoscere quanta violenta energia stava nascosta sotto quella prima dolcezza.
 
— Ora osserviamo, disse Villefort, rispondetemi francamente, non come farebbe un prevenuto al suo giudice, ma come un uomo che si trova in una falsa posizione risponde ad un altro che prende interessamento per lui: che vi è di vero in questa anonima accusa? — E Villefort gettò con disprezzo sullo scrittoio la lettera che Dantès gli aveva restituita.
 
— Eccovi la pura verità, sul mio onore di marinaio, sul mio amore per Mercedès, sulla vita di mio padre.
 
— Parlate, signore, disse ad alta voce Villefort. Poi fra sè soggiunse. — Se Renata potesse vedermi, spero, sarebbe contenta di me e non mi chiamerebbe più tagliatore di teste.
 
— Ebbene! lasciando Napoli il Capitano Leclerc cadde malato di febbre cerebrale; siccome non avevamo medico a bordo, ed egli non volle fermarsi in alcun punto della costa, sollecitato come era di portarsi all’isola d’Elba, la malattia peggiorò in modo che verso la fine del terzo giorno sentendosi vicino a morire mi chiamò a sè: «— Mio caro Dantès, mi disse: giuratemi sul vostro onore di far tutto ciò che vi dirò trattandosi di affari della più alta importanza.» «— Ve lo giuro capitano, risposi io.» «— Ebbene, siccome dopo la mia morte spetta a voi il comando del bastimento nella vostra qualità di secondo, assumerete questo comando, e metterete capo all’isola d’Elba, sbarcherete a Porto Ferrajo, cercherete del gran Maresciallo e gli rimetterete questa lettera; forse egli allora vi consegnerà un’altra lettera, e v’incaricherà di qualche missione. Questa missione che era riservata a me, voi l’eseguirete, Dantès, in mia vece, e tutto l’onore sarà vostro.» «— Io lo farò, Capitano; ma forse non potrò giugnere fino al Gran Maresciallo tanto facilmente quanto credete.»
 
«— Eccovi un anello che vi farà giungere facilmente a lui, disse il Capitano, e che toglierà tutte le difficoltà». — A queste parole mi rimise l’anello, e fu appena in tempo; perchè poco dopo lo prese il delirio e il domani era morto.
 
— E che faceste allora?
 
— Ciò che io doveva fare, o signore, e che ciascun altro avrebbe fatto al mio posto. In ogni tempo le preghiere dei moribondi sono sacre, ma presso i marinai le preghiere di un superiore sono ordini che si debbono eseguire. Io feci dunque vela verso l’isola d’Elba ove giunsi il domani; consegnai a bordo tutto l’equipaggio, ed io solo discesi a terra. Come aveva preveduto, mi fecero sulle prime delle difficoltà per introdurmi dal Gran Maresciallo, ma io gli inviai l’anello che doveva servirmi di segnale a farmi riconoscere, e tutte le porte si aprirono avanti a me. Egli mi ricevette, m’interrogò sugli ultimi particolari della morte del disgraziato Leclerc; e come questi lo aveva preveduto, mi venne consegnata una lettera coll’incarico di portarla in persona a Parigi. Io glielo promisi, poichè [31] questo era un compiere l’estrema volontà del mio Capitano. Ritornai a bordo, feci vela per Marsiglia ove giunsi ieri, accomodai rapidamente tutti gli affari colla Dogana e la Sanità, corsi ad abbracciare mio padre, volai a vedere la mia fidanzata, che trovai più bella e più innamorata che mai. Col favore del signor Morrel furono superate tutte le difficoltà ecclesiastiche; e finalmente, o signore, io assisteva, come vi ho detto, al pranzo dei miei sponsali; fra un’ora doveva esser maritato, e contavo partir domani per Parigi allora quando per questa accusa che sembra voi pure disprezziate quanto me, io fui arrestato.
 
— Sì, sì, mormorò Villefort, tutto ciò mi sembra essere la verità, e se voi siete colpevole, lo siete soltanto d’imprudenza; ed anche questa imprudenza potrebbe essere legittimata dagli ordini che riceveste dal vostro capitano. Rendetemi questa lettera che vi è stata consegnata all’isola d’Elba, datemi la vostra parola d’onore di ricomparire alla prima requisitoria, ed andate a raggiungere i vostri amici. — Per tal modo io sono libero, signore? gridò Dantès al colmo della gioia.
 
— Sì, soltanto datemi questa lettera. — Essa dev’essere innanzi a voi poichè mi fu tolta con tutte le altre mie carte, ed io ne riconosco qualcuna in quel fascio. — Aspettate, disse il sostituto a Dantès, che prendeva i guanti ed il cappello; a chi era essa diretta?
 
— Al sig. Noirtier, strada Coq-Héron a Parigi.
 
La folgore se caduta fosse su Villefort, non lo avrebbe percosso con un colpo più rapido e più inatteso; egli si lasciò cadere sulla seggiola dalla quale si era per metà alzato per prendere il piego delle carte confiscate su Dantès, lo sfogliò precipitosamente, e ne cavò la lettera fatale, sulla quale gettò uno sguardo ov’era impresso il più indicibile terrore: — sig. Noirtier strada Coq-Héron N. 13, mormorò impallidendo sempre più.
 
— Sì, o signore, rispose Dantès maravigliato; lo conoscete voi? — No, rispose Villefort, un servo fedele del Re non conosce i cospiratori. — Si tratta dunque di una cospirazione? domandò Dantès che cominciava, dopo essersi creduto libero, a riprendere un terrore più grande del primo; in ogni modo, signore, io ve l’ho detto, ignorava completamente il contenuto del dispaccio di cui era il portatore. — Sì, riprese Villefort, con sorda voce, ma voi sapete il nome di quello a cui era diretto. — Bisogna bene che io lo sapessi se dovevo consegnarlo nelle sue proprie mani. — E voi non avete mostrata questa lettera ad alcuno? disse Villefort che sempre più impallidiva a seconda che leggeva la lettera. — Ad alcuno sul mio onore. — Tutti dunque ignoravano che voi eravate portatore di una lettera che veniva dall’isola d’Elba, ed era diretta al sig. Noirtier?
 
— Tutti lo ignorano meno quegli che me l’ha consegnata.
 
— Questo è troppo è ancora troppo, mormorò Villefort.
 
La fronte di Villefort si oscurava sempre più quanto si accostava al fine: le sue labbra bianche, le mani tremanti, gli occhi ardenti di lui facevano passare nello spirito di Dantès le più dolorose apprensioni. Dopo la lettura di questa lettera, Villefort lasciò cadere il capo fra le mani, e rimase oppresso.
 
— Oh! mio Dio che c’è dunque? chiese timidamente Dantès.
 
Villefort non rispose, ma dopo qualche momento rialzò la testa pallida e scomposta, e rilesse una seconda volta la lettera. — E voi dite che non sapete nulla di ciò che contiene questa lettera? rispose Villefort.
 
— Sul mio onore, vi ripeto, io non so nulla. Ma che avete voi stesso? Mio Dio! voi state male? volete che suoni il campanello? volete che chiami qualcuno? — No, disse Villefort alzandosi prontamente; no, non fate rumore, non dite una parola, sta a me il dare degli ordini qui e non a voi. — Signore, disse Dantès, mortificato, facea per venire in vostro soccorso, scusatemi, ve ne prego in riguardo alla intenzione. — Non ho bisogno di niente; uno sconcerto passeggiero, ecco tutto; occupatevi di voi e non di me: rispondete.
 
Dantès aspettava l’interrogazione che veniva annunziata da quest’ultima parola, ma inutilmente; Villefort ricadde sul suo seggio, passò la mano gelida sulla fronte che grondava sudore e per la terza volta si mise a rileggere la lettera. — Oh! se egli sa il contenuto di questa lettera, mormorò egli, se conoscerà un giorno che Noirtier è il padre di Villefort, io son perduto per sempre... — E a quando a quando guardava Edmondo come se col suo sguardo avesse potuto infrangere quella barriera invisibile che racchiude nel cuore i segreti che dalla bocca non vengono palesati. — Oh! non esitiamo più, sclamò egli di repente, non vi è che questo mezzo.
 
[32]
— Ma, in nome del Cielo, signore riprese il disgraziato se dubitate di me, se avete dei sospetti, interrogatemi, io sono pronto a rispondervi.
 
Villefort fece un violento sforzo su sè stesso, e con un tuono di voce che voleva rendere sicuro:
 
— Signore, diss’egli, dal vostro interrogatorio risultano a vostro danno i sospetti più forti: io non sono dunque padrone come aveva poco fa sperato, di mettervi in libertà in questo medesimo punto, debbo prima prendere questa misura, consultare il giudice d’istruzione. Frattanto voi avete veduto come vi ho trattato. — Oh! sì, signore; gridò Dantès, vi ringrazio poichè siete stato per me più che un giudice, un amico. — Ebbene vi tratterò ancora per qualche tempo prigioniero il men che mi sarà possibile; la principale accusa contro di voi è questa lettera, e... vedete... — Villefort si avvicinò al caminetto, gettò la lettera nel fuoco e restò immobile fino a che fu ridotta in cenere. — E vedete, continuò egli, io l’ho annientata.
 
— Oh! gridò Dantès, signore, voi siete più che la giustizia, voi siete la stessa bontà. — Ma ascoltatemi, continuava Villefort, dopo quest’atto, voi comprendete bene che potete avere tutta la confidenza in me, n’è vero? — Ah! signore, ordinate, ed io eseguirò i vostri ordini. — No, disse Villefort avvicinandosi al giovinotto, non sono ordini che io voglio darvi, voi capirete, sono consigli. — Dite, io mi conformerò come fossero ordini. — Vi farò trattenere fino a questa sera al palazzo di giustizia: forse tutt’altri che io, verrà ad esaminarvi. Dite tutto ciò che avete detto a me, ma non dite una parola su quella lettera. — Io ve lo prometto, o signore.
 
Era Villefort che sembrava supplicare, era l’accusato che attutava il giudice.
 
— Voi capirete, diss’egli gettando uno sguardo sulle ceneri che conservavano ancora la forma della carta, e che venivano alzate in aria ed agitate dalla fiamma, ora che questa lettera è annientata, voi ed io sappiamo soltanto che vi sia stata, essa non vi sarà più ripresentata, negatela arditamente, e con questo mezzo soltanto siete salvo. — Io negherò, signore, siate tranquillo, disse Dantès. — Bene, bene, rispose Villefort portando la mano al cordone del campanello. Poi fermandosi al momento che stava per suonare: — Questa era la sola lettera che voi aveste? diss’egli. — La sola. — Giuratelo. — Dantès stese la mano: — Lo giuro. — Il campanello suonò, il commissario di Polizia entrò. Villefort si avvicinò al pubblico ufficiale e gli disse qualche parola all’orecchio. Il Commissario rispose con un semplice segno di testa. — Seguitelo, signore, disse Villefort a Dantès. — Dantès s’inchinò, gettò un ultimo sguardo di riconoscenza a Villefort ed uscì. Non appena la porta fu chiusa dietro lui, che le forze mancarono a Villefort, e cadde quasi svenuto sul suo seggio. Poi dopo un momento: — Oh! mio Dio, da che dipende la vita e la fortuna? se il procuratore del Re fosse stato a Marsiglia, se il giudice d’istruzione fosse stato chiamato in mia vece, ora sarei perduto. Questo foglio, questo maledetto foglio mi precipitava nell’abisso. Ah! padre mio, padre mio, sarete voi dunque sempre un ostacolo alla mia felicità in questo mondo? e dovrò io lottare eternamente col vostro passato? — Poi di repente una luce inattesa parve passare innanzi al suo spirito, e gli rischiarò il viso; un sorriso gli balenò sulle labbra ancora corrugate, gli occhi stravolti divennero fissi, e parvero fermarsi sopra un pensiero. — Sì, diss’egli, sì, questa lettera che doveva perdermi, farà forse la mia fortuna. Andiamo, Villefort, all’opera! — E dopo essersi assicurato che l’accusato non era più nell’anticamera, il Sostituto al procuratore del Re uscì a sua volta, e s’incamminò prestamente verso la casa della sua fidanzata.
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