Venne condotto in una camera abbastanza pulita ma con l’inferriata a catenaccio. Ne resultò che l’aspetto della sua nuova dimora non gli cagionò gran timore. D’altra parte le parole del Sostituto al procuratore del Re, pronunciate con una voce che era sembrata a Dantès così soave, risuonavano al suo orecchio come una dolce promessa di speranza. Erano già quattr’ore da che Dantès era stato introdotto in quella camera. Eravamo come abbiamo detto al primo di marzo, ed il giorno declinando presto, il prigioniero si trovò di un subito nella notte. Allora il senso dell’udito si aumentò in lui, a misura che quello della vista andava a spegnersi. Al più piccolo rumore che perveniva fino a lui, convinto che sarebbe stato messo in libertà, si alzava velocemente e faceva un passo verso la porta. Ben presto il rumore andava a perdersi in un’altra direzione, e Dantès ricadeva sullo sgabello. Finalmente, verso le dieci della sera al momento in cui Dantès cominciava a perdere la speranza, un nuovo rumore si fece udire e questa volta gli sembrava diretto verso la sua camera. Infatti dei passi rimbombarono nel corridoio e si fermarono avanti la sua porta. Una chiave girò due volte nella serratura, i catenacci cigolarono, la massiccia barriera di quercia si aprì lasciando penetrare ad un tratto nella oscura camera l’abbagliante luce di due ceri. A questa luce Dantès vide brillare le sciabole ed i moschetti di quattro gendarmi. Egli aveva fatto due passi in avanti; rimase immobile al suo posto vedendo quest’aumento di forza. — Venite voi a cercar me? domandò Dantès. — Sì, rispose uno dei gendarmi. — Per parte del signor Sostituto al procuratore del Re? — Ma... così credo....
— Bene, disse Dantès, sono pronto a seguirvi.
La convinzione che si veniva a cercarlo per parte di Villefort, toglieva ogni timore all’infelice giovinotto. Egli si avanzò dunque con ispirito tranquillo, con andamento libero, e si pose da sè stesso nel mezzo della scorta. Una carrozza aspettava alla porta di strada, il cocchiere era al suo posto, un esente era assiso presso il cocchiere. — È dunque per me questa carrozza? domandò Dantès. — È per voi, rispose uno dei gendarmi, e salite. — Dantès volle fare qualche osservazione, ma lo sportello si aprì, sentì che era spinto. Egli non aveva nè la possibilità nè la sola intenzione di far resistenza. Si trovò in un momento assiso nel fondo della carrozza fra due gendarmi; gli altri due sederono nel posto davanti, e la pesante macchina si mise in moto con un sinistro rumore. Il prigioniero volse gli occhi sulle aperture, esse erano chiuse coi graticci; ei non aveva fatto che cambiar di prigione, soltanto questa scorreva, e lo trasportava verso una meta non conosciuta. Attraverso le sbarre, chiuse in modo da lasciarvi appena passare la mano, Dantès riconobbe ciò non pertanto che si passava per la strada Caisserie e che dalle strade S. Laurent, e Tamaris si discendeva verso lo scalo. Ben tosto vide attraverso le sue sbarre, e quelle del monumento presso il quale si ritrovava, brillare i lumi della Consigne. La carrozza si fermò; l’esente discese e si avvicinò al corpo di guardia; una dozzina di soldati uscirono e si disposero in due file in modo da formare un viale. Dantès vedeva al chiarore dei riverberi dello scalo rilucere i loro moschetti. Sarebbe egli per me, si domandava, che si spiega una simil forza militare? L’esente, aprendo lo sportello della carrozza che era stato chiuso a chiave, quantunque non pronunziasse una parola, dette la risposta alla domanda che si era fatta Dantès, perchè vide fra le due file di soldati il sentiero che era stato preparato per lui dalla carrozza al porto. I due gendarmi, seduti nel posto davanti, furono i primi a discendere, poscia fu fatto discender lui, e finalmente quelli che prima gli stavano ai fianchi; si diressero verso una barchetta, che un marinaio di dogana teneva. I soldati osservavano Dantès passare con una stupida curiosità. In un momento egli fu messo a posto alla poppa del battello, sempre fra i quattro gendarmi, nel mentre che l’esente si teneva a prua. Una scossa violenta staccò il battello dalla riva e quattro vigorosi rematori vogarono verso il Pilon. Ad un grido partitosi dalla barca la catena che chiude il porto si abbassò, e Dantès si trovò nel luogo detto [34]Frioul, vale a dire fuori del porto. Il primo movimento del prigioniero ritrovandosi all’aria aperta era stato un movimento di gioia. L’aria è quasi la libertà! Egli respirò adunque a pieni polmoni quella brezza vivace che porta sulle sue ali tutti gli olezzi sconosciuti della notte e del mare. Indi a poco mandò fuori un sospiro: passava avanti l’osteria della Réserve ove era stato sì felice la stessa mattina nell’ora che aveva preceduta quella del suo arresto, e attraverso la chiara apertura di due finestre, giunse fino a lui il lieto rumore di un ballo. Dantès incrociò le mani, levò gli occhi al cielo e pregò. La barca continuava il suo cammino, aveva già oltrepassata la Testa di Moro: era in faccia all’ansa del Faro, ed andava a bordeggiare di fianco alla batteria: questa era una manovra incomprensibile per Dantès. — Ma dove mi conducete voi? domandò egli. — Lo saprete ben presto. — Ma pure... — Ci è proibito di darvi alcuna spiegazione.
Dantès era per metà soldato; fare delle domande a subordinati ai quali era proibito di rispondere, gli parve una cosa assurda e si tacque. Allora i pensieri più strani gli passarono per la mente, come non si poteva fare una lunga navigazione con una simile barchetta, come non vi era alcun bastimento all’ancora nella parte verso cui si dirigevano, egli pensò che sarebbe stato depositato sur un punto lontano della costa per dirgli che era libero: egli non era incatenato, non era stato fatto alcun tentativo per mettergli le manette, e ciò gli era sembrato di buon augurio. D’altronde il Sostituto così eccellente per lui non gli aveva detto che qualora non pronunziasse una parola sulla lettera diretta a Noirtier, egli non aveva nulla a temere? Villefort, non aveva in sua presenza annientata la pericolosa lettera unica prova contro di lui? egli aspettava adunque, muto e pensieroso, e cercava di fendere coll’occhio da marinaio esercitato alle tenebre, e assuefatto allo spazio, la oscurità della notte. Lasciata a destra l’isola Ratonneau su cui riluceva il Faro, e sempre costeggiando erano arrivati all’altezza del seno dei Catalani. Là, gli sguardi del prigioniero raddoppiarono di energia: era là che stava Mercedès e gli sembrava ad ogni momento vedere delinearsi sulla riva oscura la forma vaga ed indecisa di una donna. Come mai un presentimento non diceva allora a Mercedès che il suo amante passava in quel momento a trecento passi lontano da lei? Un sol lume brillava ai Catalani. Studiando la posizione di questo lume, Dantès riconobbe che esso rischiarava la camera della sua fidanzata. Mercedès era la sola che vegliava in tutta la piccola colonia. Alzando un grido poteva il giovinotto essere inteso dalla sua fidanzata: una falsa vergogna lo trattenne; che direbbero coloro che lo custodivano sentendolo gridare come un insensato? egli restò dunque muto cogli occhi fissi su quel lume. Frattanto la barca continuava il suo cammino; ma il prigioniero non pensava punto alla barca, egli pensava a Mercedès. Una situazione del terreno fece scomparire il lume. Dantès si voltò e vide allora che la barca prendeva il largo. Nel mentre che egli guardava il lume, assorto nei propri pensieri, non si era avveduto che ai remi erano state sostituite le vele, e che la barca camminava spinta dal vento. Ad onta della repugnanza che provava Dantès a fare delle nuove interrogazioni al gendarme, egli si appressò a lui e stringendogli la mano gli disse — Gendarme, in nome della vostra coscienza, e per la vostra qualità di soldato, io vi scongiuro ad aver pietà di me e di rispondermi. Io sono il capitano Dantès, leale e buon francese, quantunque accusato di non so qual tradimento, ove mi conducete? ditelo, e sulla fede di marinaio io mi adatterò al mio dovere, e mi rassegnerò al mio destino.
Il gendarme si grattò l’orecchio, e guardò il suo camerata. Questi fece un movimento, quasi avesse voluto dire: «mi sembra che al punto in cui siamo non vi sia a temere alcun inconveniente». Il gendarme allora si rivoltò verso Dantès e gli disse: — Voi siete Marsigliese e marinaio e domandate a me dove andiamo? — Sì, poichè sul mio onore non lo so. — Non ne avete alcun sospetto? — Alcuno. — È impossibile! — Io ve lo giuro per quanto vi è di più sacro al mondo. Rispondetemi adunque di grazia! — Ma la consegna? — La consegna non vi proibisce di dirmi ciò che saprò fra dieci minuti, fra una mezz’ora, forse fra un’ora; soltanto voi mi risparmierete di qui a là dei secoli d’incertezza. Io ve lo domando come se voi foste un mio amico. Osservate, io non voglio nè rivoltarmi nè fuggire; d’altra parte non lo posso. Su via, ove andiamo noi? — Ammenochè non abbiate la benda agli occhi [35] o non siate mai uscito dal porto di Marsiglia, dovete ora indovinare ove andiamo. — Eppure...
— Allora guardate attorno a voi. — Dantès si alzò, tese naturalmente lo sguardo verso il punto a cui sembrava dirigersi il battello, e vide cento tese lontano innalzarsi la nera e scoscesa roccia sulla quale è posta come una superfetazione di silce il nero castello d’If. Questa forma strana, questa prigione ove regna un sì profondo terrore, questa fortezza che fa vivere da trecent’anni Marsiglia nelle sue lugubri tradizioni, compariva ad un tratto innanzi a Dantès che non pensava punto ad essa, e gli fece l’effetto che fa ad un condannato a morte la vista del patibolo. — Ah! mio Dio! gridò egli, il castello d’If! e che andiamo noi a far là?
Il gendarme sorrise. — Ma non sarò già condotto là per esservi imprigionato? continuò Dantès. Il castello d’If è una prigione di stato soltanto pei grandi colpevoli politici. Io non ho commesso alcun delitto. Vi sono forse dei giudici d’istruzione, dei magistrati qualunque al castello d’If? — Non vi sarà io suppongo, disse il gendarme, che un governatore, dei carcerieri, una guarnigione e delle ottime mura. Andiamo, andiamo, amico, non mi fate tanto il sorpreso, poichè in verità mi farete credere che voleste ricompensare la mia compiacenza col burlarvi di me.
Dantès strinse la mano del gendarme sì forte che pareva volesse infrangergliela. — Voi pretendete adunque che mi si conduca al castello d’If per esservi imprigionato? — Probabilmente, disse il gendarme; ma in ogni modo camerata, è inutile stringermi la mano così fortemente. — Senz’altre informazioni, senz’altra formalità? disse il giovinotto. — Le formalità sono compite, l’informazione è fatta. — Così ad onta della promessa del sig. de Villefort...
— Io non so se Villefort vi ha fatta una promessa, disse il gendarme, quello che so, si è che noi andiamo al castello d’If. Ebbene! che fate adesso? Olà camerati, a me!
Con un movimento pari al baleno, ma che però era stato preveduto dall’occhio esercitato del gendarme, Dantès aveva voluto slanciarsi in mare, ma quattro mani vigorose lo trattennero al momento in cui i suoi piedi lasciavano il piantito del battello. Egli ricadde nel fondo della barca urlando di rabbia.
— Bravo! gridò il gendarme, mettendogli un ginocchio sul petto, ecco come voi mantenete la vostra parola da marinaio! fidatevi delle persone melliflue! Ebbene, ora, mio caro, se fate un movimento, un sol movimento, io vi mando una palla nella testa, ho tradita la prima mia consegna, ma vi assicuro che non mancherò alla seconda. — E di fatto abbassò la sua carabina verso Dantès, che sentì appoggiarsi come un anello di gelo l’estremità della canna sulla tempia.
Un momento egli ebbe l’idea di eseguire il proibito movimento e di finirla così violentemente coll’inatteso infortunio che si era gettato sopra di lui coi suoi artigli d’avvoltoio; ma giusto perchè questa infelicità era inattesa, Dantès pensò che non poteva durare; gli tornarono al pensiero le promesse di Villefort; e poi bisogna anche dirlo, questa morte così nel fondo di un battello, dalle mani di un gendarme gli parve lurida e nuda. Egli ricadde adunque sul piantito della barca mandando un urlo di rabbia e rodendosi con furore le mani. Quasi nel medesimo momento un urto violento ripercosse il battello, uno dei battellieri saltò sulla roccia che era stata toccata dalla piccola barca, una corda si svolse dall’interno di una puleggia, Dantès s’accorse che erano arrivati, e che si ammarrava lo schifo. Infatti i suoi guardiani che lo tenevano ad un tempo e per le braccia, e pel colletto dell’abito, lo sforzarono di rialzarsi, lo costrinsero a discendere a terra, e lo trasportarono verso gli scalini che mettevano alla porta della cittadella, mentre che l’esente armato di moschetto colla baionetta li seguiva di dietro. Dantès del resto non fece più alcuna inutile resistenza; la sua lentezza proveniva più da inerzia che da opposizione. Egli era stordito e barcollava come un ubbriaco. Vide di nuovo i soldati che si schieravano sulla rapida china, sentì dei scalini che lo forzarono ad alzare i piedi, si accorse che passava sotto una porta, e che questa porta si chiudeva dietro di lui ma tutto ciò macchinalmente come attraverso di una densa nebbia senza distinguer nulla di positivo. Egli non vedeva neppur più il mare, questo immenso dolore dei prigionieri che guardano lo spazio col terribile sentimento che sono impotenti a superarlo. Vi fu una sosta di un momento durante la quale egli cercò di raccogliere i suoi spiriti. Egli guardò intorno a sè; era in un cortile quadrato formato da quattro grandi muraglie; si sentivano i passi lenti e regolari delle sentinelle ed ogni [36] volta che esse passavano davanti al riflesso che veniva proiettato sulle muraglie dalla luce di due o tre lumi che ardevano nell’interno del castello, si vedeva scintillare la canna dei loro moschetti. Si attese dieci minuti circa. Certi che Dantès non poteva più fuggire lo avevano lasciato; sembrava che si aspettassero degli ordini, e questi ordini giunsero. — Ov’è il prigioniero? domandò una voce. — Eccolo, risposero i gendarmi. — Che mi segua; io lo condurrò al suo alloggio. — Andate! dissero i gendarmi dando una spinta a Dantès. Il prigioniero seguì la sua guida, che lo condusse difatti in una sala quasi sotterranea, le cui muraglie nude ed umide sembravano impregnate da un vapore di lagrime. Una specie di lampione, posato sopra uno sgabello ed il cui lucignolo nuotava in un grasso fetido illuminava le pareti di questo spaventoso soggiorno, e mostrava a Dantès il suo conduttore, che era una specie di carceriere subalterno, mal vestito e pur di lurido aspetto.
— Ecco la vostra camera per questa notte, diss’egli. È tardi ed il sig. Governatore è andato a letto; domani quando si sarà alzato, ed avrà conosciuti gli ordini che vi concernono, forse vi cambierà di domicilio. Frattanto eccovi del pane. Vi è dell’acqua in questa brocca, della paglia laggiù in quel cantone; insomma vi è tutto quello che un prigioniero può desiderare. Buona sera. — E prima che Dantès avesse pensato ad aprir la bocca per rispondergli, prima che avesse veduto ove il carceriere avesse posto il pane, prima che si fosse renduto conto della direzione ove stava la brocca, prima che avesse voltati gli occhi verso l’angolo ove lo aspettava quella paglia destinata a servirgli di letto, il carceriere aveva preso il lampione e chiudendo la porta aveva tolto al prigioniero quella luce incerta che gli aveva mostrato come al chiarore di un lampo le umide muraglie della sua prigione. Allora egli trovossi solo nelle tenebre e nel silenzio così muto e così tetro quanto le volte di cui egli sentiva il freddo agghiacciante abbassarsi sulla sua fronte che bruciava. Quando i primi raggi del giorno ebbero ricondotto un poco di luce in quest’antro, il carceriere ritornò coll’ordine di lasciare il prigioniero ove era. Dantès non aveva cambiato di luogo, una mano di ferro sembrava averlo inchiodato nello stesso posto in cui si era fermato entrando; soltanto il suo occhio profondo si nascondeva sotto una gran gonfiezza cagionata dall’umido vapore delle sue lagrime; egli era immobile e guardava il terreno. Aveva passata così tutta la notte, in piedi, senza dormire un solo istante; il carceriere si avvicinò a lui; gli girò attorno, ma Dantès non pareva vederlo, gli battè sulla spalla e Dantès rabbrividì scuotendo la testa. — Non avete dormito? domandò il carceriere.
— Non lo so, rispose Dantès.
Il carceriere lo guardò con meraviglia. — Non avete fame? continuò egli. — Non lo so, rispose ancora Dantès. — Volete voi qualche cosa? — Vorrei vedere il Governatore.
Il carceriere alzò le spalle ed uscì. Dantès lo seguì cogli occhi, stese le mani verso la porta socchiusa; ma questa venne chiusa a sbarre. Allora il suo petto sembrò squarciarsi in un lungo singulto. Le lagrime che gli gonfiavano le palpebre scorsero come due ruscelli, egli si precipitò colla fronte per terra e pregò lungo tempo, esaminando collo spirito tutta la sua vita passata, e chiedendo a sè stesso qual delitto aveva commesso in questa vita ancor sì giovanile, che potesse meritargli una tal crudele punizione. La giornata scorse così; fu molto se egli mangiò qualche boccone di pane, bevette qualche goccia d’acqua. Ora egli restava assiso assorto nei suoi pensieri, ora girava intorno alla sua prigione come fa una bestia feroce chiusa in una gabbia di ferro. Un solo pensiero lo faceva soprattutto trasecolare; ed era che, durante questa traversata in cui, ignorando il luogo ove era condotto, egli era rimasto sì queto, sì tranquillo, avrebbe potuto ben dieci volte gettarsi in mare, ed una volta nell’acqua, mercè la sua abilità nel nuotare, mercè l’abitudine, che faceva di lui uno dei più abili nuotatori di Marsiglia, sparire sotto all’acqua, fuggire ai suoi guardiani, guadagnare la costa, salvarsi, nascondersi in qualche luogo deserto, attendere un bastimento genovese o catalano, raggiungere l’Italia o la Spagna, e di là scrivere a Mercedès che venisse a lui; quanto alla sua vita in nessuna contrada poteva esserne inquieto, in ogni luogo i buoni marinai sono rari; parlava l’italiano come un toscano; parlava lo spagnuolo come un figlio della vecchia Castiglia. Egli avrebbe vivuto libero, felice con Mercedès, con suo padre, perchè suo padre sarebbe venuto a raggiungerlo; mentrechè era ora prigioniero, chiuso nel castello d’If, in così sicura prigione, non sapendo che cosa accadeva a suo padre, che a Mercedès, e tutto ciò perchè egli [37] aveva creduto alla parola di Villefort. Era un divenire pazzo. Così Dantès si rotolava furioso sulla paglia fresca che il carceriere gli aveva portato. L’indomani alla stess’ora il carceriere rientrò.
— Ebbene, gli domandò, oggi siete più ragionevole di ieri?
Dantès non rispose parola. — Fatevi dunque, disse l’altro, un poco di coraggio... desiderate qualche cosa che sia in mio potere? dite. — Io desidero parlare al Governatore. — Eh? disse il carceriere con impazienza, vi ho di già detto che è impossibile... — Perchè è impossibile? — Perchè nei regolamenti della prigione vi è, che a nessun prigioniero sia permesso domandarlo.
— E quali sono i permessi che qui si possono avere?
— Un miglior vitto pagandolo, la passeggiata, e qualche volta dei libri.
— Non ho bisogno di libri, non mi curo di fare passeggiate, trovo buono il mio vitto; per tal modo non ho bisogno che di una cosa, quella cioè di parlare al Governatore...
— Se mi annoiate ancora un’altra volta con questa domanda, non vi porto più da mangiare.
— Ebbene, disse Dantès, se non mi porti più da mangiare, morirò di fame, ecco tutto. — L’accento col quale Dantès pronunciò queste parole, provò al carceriere che il suo prigioniero si sarebbe stimato felice a morire. Così siccome ogni prigioniero fatti i conti, fruttava al carceriere circa dieci soldi al giorno, quello di Dantès fece il calcolo della perdita che risulterebbe per lui dalla sua morte; quindi riprese con tuono più addolcito: — Ascoltatemi, ciò che desiderate è impossibile; non lo domandate più perchè non vi ha esempio che per la domanda di un prigioniero il Governatore sia venuto nella sua carcere a ritrovarlo; soltanto coll’essere savio vi si potrà permettere la passeggiata, ed allora sarà possibile che un giorno o l’altro, durante questa possa passare a voi vicino il Governatore; nel qual caso, voi lo potrete interrogare, ed egli, se vuole, vi risponderà.
— Ma, quanto tempo potrò aspettare prima che questo caso si presenti? — Diamine! disse il carceriere, un mese, tre mesi, sei mesi, e forse anche un anno.
— È troppo, disse Dantès, voglio vederlo subito. — Ah! disse il carceriere, non vi lasciate infatuare così da un desiderio solo ed impossibile, o prima di quindici giorni diventerete pazzo.
— Ah! tu lo credi? disse Dantès.
— Sì pazzo, è sempre così che comincia la pazzia, noi qui ne abbiamo avuti e ne abbiam tuttora degli esempi. Lo scienziato che abitava questa camera prima di voi, dette volta al cervello per essersi fitto in mente di voler esser messo in libertà mediante un milione che incessantemente offriva al Governatore.
— E quanto tempo è che ha lasciato questa camera? — Due anni. — E fu messo in libertà? — No, fu messo in segrete. — Ascolta, disse Dantès, io non sono uno scienziato, nè sono un pazzo; forse lo diventerò; ma disgraziatamente in questo momento ho ragione; voglio farti una proposizione. — E quale? — Io non ti offrirò un milione perchè non potrei dartelo; ma ti offrirò cento scudi, se tu vuoi la prima volta che andrai a Marsiglia, giungere fino ai Catalani e portare una lettera ad una giovinetta che si chiama Mercedès, ma neanche una lettera, appena due righe.
— Se io portassi due righe, e fossi scoperto, perderei il mio posto che è di mille lire l’anno senza contare gl’incerti. Vedete dunque che sarei un grande imbecille se volessi arrischiare di perder mille lire per guadagnarne trecento.
— Ebbene, disse Dantès, ascolta e ritieni bene a mente quel che ti dico; se ricusi di avvertire il Governatore, che io desidero parlargli, se ricusi di portare due righe a Mercedès o di prevenirla almeno che io sono qui, un giorno o l’altro, io ti aspetto nascosto dietro la porta, e nel momento che entri ti spacco la testa collo sgabello.
— Delle minacce! gridò il carceriere, facendo un passo addietro e mettendosi sulla difesa. Infallibilmente la testa vi gira, lo scienziato ha cominciato come voi, e fra tre giorni sarete pazzo come lui. Fortunatamente che nel castello d’If vi sono delle segrete. — Dantès prese lo sgabello, e se lo fece velocemente girare intorno alla testa.
— Sta bene, sta bene, disse il carceriere, dappoichè voi lo volete assolutamente, andrò ad avvertire il Governatore.
— Alla buon’ora! disse Dantès, posando lo sgabello e sedendovi sopra, colla testa bassa e gli occhi stravolti, come se veramente diventasse pazzo. — Il carceriere uscì e dopo pochi minuti rientrò con quattro soldati ed un caporale. — Per ordine del Governatore, diss’egli, fate discendere il prigioniero nel piano sottoposto.
[38]
— Nelle segrete adunque? disse il caporale.
— Nelle segrete. Bisogna mettere i pazzi coi pazzi.
I quattro soldati s’impadronirono di Dantès, che cadendo in una specie di atonia, li seguì senza resistenza, gli furono fatti discendere quindici scalini, dopo i quali fu aperta una segreta in cui entrò mormorando: — Egli ha ragione, bisogna mettere i pazzi coi pazzi! — La porta fu chiusa e Dantès camminò con le mani stese innanzi a sè fino a che urtò nel muro, allora si assise in un angolo e restò immobile, nel mentre che i suoi occhi, abituandosi un poco per volta all’oscurità cominciarono a distinguere gli oggetti. Il carceriere aveva ragione, mancava ben poco a Dantès per divenire pazzo.