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XIV. — IL PRIGIONIERO FURIOSO ED IL PRIGIONIERO PAZZO.

时间:2021-06-29来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:Circa un anno dopo il ritorno di Luigi XVIII, vi fu una visita dellispettore generale delle prigioni. Costui chiamavasi
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 Circa un anno dopo il ritorno di Luigi XVIII, vi fu una visita dell’ispettore generale delle prigioni. Costui chiamavasi de Boville. Dantès sentì girare e stridere dal fondo della sua segreta tutti quei preparativi, che in alto facevano molto fracasso, ma in basso sarebbero stati rumori impercettibili per tutt’altre orecchie che per quelle di un prigioniero avvezzo a discernere nel silenzio della notte il ragno che tesse la sua tela, e la caduta periodica della goccia d’acqua, che impiega un’ora a formarsi sotto la volta della segreta. Indovinò che fra i vivi accadeva qualche cosa di straordinario. Egli che da sì lungo tempo abitava una tomba, poteva bene considerarsi come un morto. In fatto l’ispettore visitava, una dopo l’altra, le camere, le celle, le segrete; molti prigionieri furono interrogati, ed eran quelli che per la loro stupidità si raccomandavano alla benevolenza dell’amministrazione; l’ispettore lor domandava come erano nutriti e quali reclami avessero a fare. Essi risposero unanimamente che il nutrimento ora orribile e che reclamavano la loro libertà. L’ispettore dimandò se aveano altro a chiedere. Essi scossero la testa; qual altro bene oltre la libertà può reclamare un prigioniero?
 
De Boville, si volse sorridendo, e disse al governatore: — Io non so perchè ci facciano fare questi inutili giri; chi vede una prigione ne vede cento, chi ascolta un prigioniere ne ascolta mille. È sempre la stessa cosa: mal nutriti ed innocenti. Ve ne sono altri? — Sì, noi abbiamo i prigionieri pericolosi o pazzi che son ritenuti in segreta.
 
— Vediamo, disse l’ispettore, con un’aria di profonda stanchezza, compiamo il nostro ufficio, discendiamo nelle segrete.
 
— Aspettate, disse il governatore, che si mandino almeno a prendere due uomini. I prigionieri commettono qualche volta, non fosse che per disgusto della vita e per farsi condannare a morte, degli atti d’inutile disperazione; voi potreste cader vittima di uno di questi eccessi. — Prendete adunque le vostre cautele, soggiunse l’ispettore.
 
In fatto si mandarono a chiamare due soldati, e si cominciò a discendere per una scala umida, infetta, ed ammuffita.
 
— Oh! fece l’ispettore fermandosi a metà della scala. E chi diavolo può alloggiare qui?
 
— Un cospiratore dei più pericolosi, ci è stato raccomandato particolarmente come uomo capace di tutto.
 
— È egli solo? — Certamente. — Da quanto tempo?
 
— Da circa un anno.
 
— E fu messo qui fino dal suo entrare?
 
— No, Signore, ma soltanto dopo aver tentato di uccidere il custode incaricato di portargli il nutrimento; quello stesso che ci fa lume. N’è vero, Antonio? — Sì, rispose il custode — Ah! è dunque pazzo quest’uomo. — È forse peggio, disse il custode; è un demonio. — Volete voi che se ne faccia una querela? domandò l’ispettore al governatore. — È inutile, signore. Egli è abbastanza punito così; d’altra parte tocca ormai quasi alla follia, e secondo l’esperienza che ci danno le nostre osservazioni, prima che compia un altr’anno, egli sarà compiutamente pazzo. — In fede mia, tanto meglio per lui, disse l’ispettore, una volta pazzo del tutto, egli soffrirà meno.
 
Come si vede bene, l’ispettore era un uomo pieno d’umanità, e ben degno delle funzioni filantropiche che esercitava.
 
— Avete ragione, signore, disse il governatore, e la vostra riflessione prova che avete profondamente studiata la materia. Parimente abbiamo, in una segreta non lontana da questa più d’una trentina di passi, e nella quale si discende per un’altra scala, un vecchio scienziato, antico capo di fazione in Italia, che è qui fin dal 1811, e di cui il cervello ha dato volta verso la fine del 1814, per cui da quell’epoca, non è più fisicamente riconoscibile, piange, ride, dimagrisce, ingrassa. Volete voi veder quello piuttosto che questo? La sua pazzia vi divertirà e non vi attristerà punto.
 
— Li vedrò entrambi, rispose l’ispettore; bisogna disimpegnare il proprio ufficio coscienziosamente. — L’ispettore faceva allora il suo primo giro e voleva lasciare una buona idea della propria autorità. — Entriamo dunque prima qui, soggiunse. — Volentieri, rispose il governatore.
 
[55]
Allo stridere delle massicce serrature, al cigolare dei catenacci arrugginiti, Dantès, aggruppato in un angolo della segreta, ove riceveva con un contento indicibile il tenuissimo raggio di luce che filtrava attraverso gli stretti spiragli della sua inferriata, rialzò la testa. Alla vista di un uomo sconosciuto, illuminato dalle torce che portavano i due custodi, accompagnato da due soldati, e al quale il governatore parlava col cappello in mano, Dantès indovinò di che si trattava, e vedendo finalmente presentarsi un’occasione per implorare un’autorità superiore, balzò in avanti colle mani giunte. I soldati abbassarono subito la baionetta perchè credettero che il prigioniero si lanciasse verso l’ispettore con cattiva intenzione, e de Boville stesso fece un passo in dietro. Dantès s’accorse che era stato designato come un uomo da temersi. Riunì dunque nel suo sguardo tutto ciò che il cuore dell’uomo può contenere di mansuetudine e di umiltà, ed esprimendosi con una specie di eloquenza pietosa che meravigliò gli astanti cercò di toccare l’anima del suo visitatore. L’ispettore ascoltò il discorso di Dantès sino alla fine; poi volgendosi verso il governatore: — Egli piegherà alla devozione, diss’egli a mezza voce, è già disposto a sentimenti più dolci. Vedete... la paura fa il suo effetto su lui; ha indietreggiato in faccia alle baionette, ora un pazzo non rincula innanzi ad alcuna cosa; su questo proposito ho fatto delle curiose osservazioni a Charenton: — poscia volgendosi verso il prigioniero. — In brevi termini che domandate voi?
 
— Io domando qual delitto ho commesso! domando che mi si diano dei giudici! domando che sia istruito il processo! domando da ultimo di essere fucilato se sono reo! ma del pari di essere messo in libertà se sono innocente!
 
— Siete voi ben nutrito? domandò l’ispettore.
 
— Sì, credo... non ne so niente... ma ciò poco m’importa! Quello che deve importare non solo a me disgraziato prigioniere, ma ancora a tutti i funzionari che amministrano la giustizia, ed al Re che ci governa, si è che un innocente non sia vittima di un’infame denunzia, e non muoia sotto chiavi maledicendo i suoi carnefici....
 
— Voi siete molto umile oggi, disse il governatore; però non siete sempre stato così. Parlavate bene altrimenti, mio caro amico, il giorno che volevate uccidere il vostro custode.
 
— È vero, signore, disse Dantès, e ne domando umilmente perdono a quest’uomo, che è sempre stato buono con me; ma che volete! io era pazzo... io era furioso...
 
— E voi non lo siete più? — No, signore, perchè la prigionia mi ha piegato, umiliato, annichilito, è sì lungo tempo che io sono qui... — Sì lungo tempo? E da qual’epoca foste arrestato? disse l’ispettore. — Il 28 Febbraio 1815, a due ore dopo mezzo giorno. — L’ispettore calcolò. — Siamo ai 30 Luglio 1816. Che dite dunque? Non sono che 17 mesi da che siete prigioniere.
 
— Come 17 mesi! riprese Dantès. Ah! signore, voi non sapete che sono 17 mesi di prigionia! 17 anni, 17 secoli! soprattutto per un uomo, che come me, era vicino a toccare la sua felicità, per un uomo che, come me, era sul punto di sposare una donna amata; per un uomo che vedeva aprirsi a sè dinnanzi una carriera onorevole e al quale tutto è venuto meno in un sol punto; che, dal mezzo del giorno più bello cade nella notte più profonda; che vede la sua carriera distrutta, che ignora se colei ch’egli ama, lo ami tuttora; che ignora se il suo vecchio padre è morto o vivo! 17 mesi di prigione per un uomo abituato all’aria marina, all’indipendenza del marinaro, allo spazio, all’immensità, all’infinito, signore, 17 mesi di prigione sono più che non meritano tutti i delitti designati dalla lingua umana co’ più odiosi nomi! Abbiate dunque pietà di me, e domandate per me non l’indulgenza ma il rigore, non una grazia ma una sentenza! Dei giudici, signore non domando che giudici. Non si possono negare i giudici ad un accusato.
 
— Va bene, disse l’ispettore, si vedrà. — Poi volgendosi verso il governatore disse: — In verità questo povero diavolo mi fa pena. Ritornando sopra, mi farete vedere il registro degli arresti.
 
— Sì, certo, disse il governatore; ma credo che ritroverete annotazioni terribili sul conto suo.
 
— Signore, continuò Dantès, so bene che voi non potete farmi uscir di qui colla vostra autorità; ma potete trasmettere la mia domanda agli uffici competenti, potete causare una requisitoria, potete finalmente farmi sottomettere ad un giudizio. Un processo, è tutto ciò che io domando; che io sappia qual delitto ho commesso, ed a qual pena sono condannato; poichè, assicuratevi, l’incertezza è il peggiore di tutti i supplizi.
 
[56]
— Istruitemi, disse l’ispettore.
 
— Signore, gridò Dantès, comprendo dal suono della vostra voce che voi siete commosso; ditemi almeno che io speri.
 
— Non posso dirvelo, rispose l’ispettore; posso soltanto promettervi di esaminare il vostro registro, e ciò che vi sta a carico.
 
— Oh! allora, signore, son libero! Son salvo!
 
— Chi vi fece arrestare? dimandò l’ispettore.
 
— Il sig. de Villefort; vedetelo, e intendetevela con lui.
 
— È già un anno ch’egli non è più in Marsiglia, ma a Nimes.
 
— Ah! ciò non mi sorprende più, il mio solo protettore si è allontanato. — Il sig. de Villefort aveva egli qualche motivo di odio contro di voi? domandò l’ispettore. — Nessuno, signore, anzi era molto benevolo meco. — Io potrò dunque fidare alle note che egli ha lasciato sul conto vostro, o che potrà trasmettermi? — Intieramente, signore.
 
— Sta bene, aspettate. — Dantès cadde in ginocchio, levando le mani verso il Cielo e mormorando una preghiera nella quale egli raccomandava a Dio questo uomo che era disceso nella sua prigione come il Salvatore che liberava le anime dall’inferno. La porta si richiuse, ma la speranza discesa con Boville, era rimasta nella segreta di Dantès.
 
— Volete voi vedere il registro di consegna subito, domandò il Governatore, o passare alla segreta dello scienziato?
 
— Finiamola prima colle segrete, rispose l’ispettore; se io ritornassi ove fa giorno, forse non avrei più il coraggio di discendere di bel nuovo qui per compiere la mia trista missione.
 
— Oh! quest’altro non è un prigioniero come quello che abbiamo lasciato, e la sua pazzia rattrista meno che la ragionevolezza del suo vicino. — E quale è la sua pazzia?
 
— Oh! una pazzia strana, egli si crede possessore di un immenso tesoro. Il primo anno della sua prigionia ha fatto offrire al Governo un milione, se volesse metterlo in libertà; il secondo anno due milioni, il terzo tre milioni, e così progressivamente. Egli è ora al suo quinto anno di prigionia, e chiederà di parlarvi in segreto, per offrirvene cinque. — Ah! ah! è curiosa in fatto, disse l’ispettore; e come si chiama questo milionario? — Faria. — N. 27? domandò l’ispettore leggendo questa cifra sopra una porta.
 
— Precisamente qui. Antonio, aprite.
 
Il custode ubbidì, e de Boville entrò nella segreta dello scienziato pazzo: per tal modo veniva generalmente chiamato il prigioniere. In mezzo della camera in un circolo tracciato sul pavimento con un poco d’intonaco, staccato dal muro, era sdraiato un uomo quasi nudo, tanto le sue vesti erano andate in pezzi. Egli disegnava in questo cerchio delle linee geometriche molto dritte e parallele, e pareva in tal modo occupato a risolvere il suo problema a guisa di Archimede nel momento che fu ucciso da un soldato di Marcello. Egualmente egli non si mosse al rumore che fece la porta della prigione nell’aprirsi, e non sembrò risvegliarsi che allorquando la luce delle torce illuminò con chiarore straordinario l’umido suolo su cui lavorava. Allora si volse e vide con sorpresa la numerosa compagnia che era discesa nel suo carcere. Si alzò prestamente, prese una coperta gettata sul miserabile suo letto, e si coperse precipitosamente per comparire in uno stato più decente agli occhi degli stranieri.
 
— Domandate voi nulla? disse l’ispettore senza variare la sua formola. — Io, signore, disse Faria con sorpresa, nulla domando. — Voi non capite, disse l’ispettore, io sono un messo del governo, ed ho la commissione di scendere in tutte le prigioni, per ascoltare i reclami de’ prigionieri.
 
— Oh! allora, signore, è tutt’altro, gridò vivacemente Faria, e spero che ce la intenderemo. — Vedete, disse a bassa voce il governatore, non comincia egli come vi avevo detto?
 
— Signore, continuò il prigioniero, io sono Faria nato in Roma nel 1768; sono stato venti anni segretario del conte Spada, l’ultimo dei Principi di questo nome, sono stato arrestato, e non so perchè, verso il principio dell’anno 1808; dopo questo tempo ho sempre reclamato la mia libertà dalle Autorità Italiane, e Francesi. — Perchè dalle Autorità Francesi? domandò il governatore. — Perchè io sono stato arrestato a Piombino e presumo che, come Firenze, Piombino sia divenuto capo luogo di un qualche dipartimento Francese.
 
L’ispettore ed il governatore si guardarono ridendo.
 
— Diavolo, mio caro, disse l’ispettore, le vostre notizie sull’Italia non sono di fresca data.
 
— Esse portano la data del giorno in cui sono stato trasportato da Fenestrelle [57] qui, signore, disse Faria; era nel 1811, e S. M. l’Imperatore avendo dato il nome di re di Roma al figlio che il cielo gli aveva concesso, io presumeva che continuando il corso delle sue conquiste egli vagheggiasse il sogno di Macchiavello e di Cesare Borgia. — Signore, disse l’ispettore, la Provvidenza ha fortunatamente arrecato tali cambiamenti nella Penisola, che quel sogno rimarrà tale.
 
— Sarà; ma quante cose non sono possibili sulla terra? rispose Faria. — Sì, ma non già i sogni, riprese l’ispettore; nè sono venuto qui per intavolare con voi un corso di politica oltramontana, ma soltanto per domandarvi, come ho già fatto, se avete qualche reclamo da indirizzarmi sul modo col quale siete nutrito ed alloggiato. — Il nutrimento è quello di tutte le prigioni, rispose Faria, vale a dire cattivissimo. Quanto all’alloggio, come vedete è umido e malsano, ma ciò nonostante è conveniente abbastanza per una segreta. Ora non è di ciò che si tratta, ma bensì di una rivelazione della più alta importanza che ho a fare al governo.
 
— Eccoci, disse a bassa voce il Governatore a de Boville.
 
— Ecco perchè io sono fortunato di vedervi, continuò Faria, quantunque voi mi abbiate distratto da un calcolo molto importante, che se riesce, cangerà forse del tutto il sistema planetario di Newton. Potete voi accordarmi il favore di un colloquio particolare?
 
— Eh! che diceva io? fece il governatore all’ispettore.
 
— Voi conoscete bene la persona, rispose questi sorridendo. Poi rivolgendosi a Faria: Signore, diss’egli: — Ciò che chiedete è impossibile. — Ciò nonostante, riprese Faria, si tratterebbe di fare guadagnare al governo una somma enorme, una somma, per esempio, di cinque milioni! — In fede mia, disse l’ispettore, volgendosi al governatore, voi avete predetto perfino la cifra. — Vediamo, riprese Faria, accorgendosi che l’ispettore faceva un movimento per ritirarsi, non è poi assolutamente necessario che noi siamo soli: il sig. governatore potrà assistere al nostro colloquio.
 
— Disgraziatamente mio caro signore, disse il governatore, noi sappiamo già a memoria quello che voi volete dirci. Si tratta dei vostri tesori, n’è vero?
 
Faria guardò quest’uomo pungente, con certi occhi su cui un osservatore disinteressato avrebbe certamente veduto splendere il lampo della ragione e della verità.
 
— Senza dubbio, diss’egli, di che volete che io vi parli, se non di ciò?
 
— Sig. ispettore, continuò il governatore, vi posso raccontare questa storia tanto bene quanto Faria, essendo già quattro o cinque anni che me la sento risuonare alle orecchie. — Ciò prova, sig. governatore, disse Faria che voi siete di quella gente di cui parla la Scrittura, i quali hanno gli occhi e non vedono, hanno le orecchie e non sentono. — Mio caro signore, disse l’ispettore, il governo è ricco, e grazie a Dio, non ha bisogno dei vostri milioni; conservateli adunque pel giorno in cui uscirete di prigione.
 
L’occhio di Faria si dilatò; egli afferrò la mano dell’ispettore e soggiunse: — Ma se io non esco di prigione, se contro ogni giustizia mi si ritiene in questa segreta, se vi debbo morire senza aver lasciato il mio segreto ad alcuno, questo tesoro andrà dunque perduto? Non è meglio che il Governo ne profitti con me? Io andrò fino a sei milioni, signore! Sì, io lascerò sei milioni, e mi contenterò del resto, se mi si vorrà rendere la libertà.
 
— Sulla mia parola, disse l’ispettore a mezza voce, se non si sapesse che quest’uomo è pazzo, egli parla con un accento di tanta convinzione, da credere che dicesse la verità.
 
— Io non sono un pazzo, signore, e dico precisamente la verità, riprese Faria, che, con quella finezza di udito che è particolare ai prigionieri, non aveva perduto una sola delle parole dell’ispettore. Il tesoro di cui vi parlo esiste veramente, ed io sono pronto a firmare un trattato, in virtù del quale voi mi condurrete al luogo che verrà da me deputato: si scaverà la terra sotto i nostri occhi, e se io mentisco, se nulla vien ritrovato, se io son pazzo come voi dite, ebbene! voi mi condurrete in questa medesima carcere ove io resterò eternamente, e dove morrò senza più nulla domandar nè a voi, nè ad alcuno.
 
Il governatore si mise a ridere. — È lontano questo vostro tesoro? domandò egli. — A cento leghe di qui circa. — La cosa non è male immaginata, disse il governatore; se tutti i prigionieri volessero divertirsi a fare una passeggiata coi loro gendarmi per cento leghe, o se i guardiani acconsentissero a fare una simile passeggiata questo sarebbe un eccellente pretesto, che i prigionieri si procurerebbero per prendere la via dei campi [58] alla prima occasione opportuna, e durante un simile viaggio l’occasione si presenterebbe certamente. Disgraziatamente però questo è un pretesto troppo conosciuto, ed il sig. Faria non ha neppure il merito dell’invenzione. — Poi volgendosi allo scienziato: — Vi ho domandato se siete bene nutrito? — Signore rispose Faria, giuratemi sul vostro onore di liberarmi se io dico la verità, e v’indicherò il luogo preciso ove è nascosto il tesoro.
 
— Siete contento del nutrimento?, ripetè l’ispettore.
 
— Signore, voi così non correte alcun rischio, e vedete bene che non è per procurarmi un’eventualità di fuga, mentre io resterò prigione fino a che abbiate fatto il viaggio.
 
— Voi non rispondete alla mia interrogazione, disse con impazienza l’ispettore.
 
— Nè voi alla mia, gridò Faria. Siate adunque maledetto come tutti gli altri insensati che non han voluto credermi. Voi non volete il mio oro, io lo custodirò; voi mi ricusate la libertà, Dio me la manderà. Andate, non ho più nulla a dirvi. — E Faria gettando la coperta, raccolse l’intonaco, ed andò ad assidersi di nuovo in mezzo al circolo ove continuò le sue linee ed i suoi numeri.
 
— Che fa egli là? disse l’ispettore ritirandosi.
 
— Conta i suoi tesori, rispose il governatore.
 
Faria rispose a questo sarcasmo con un’occhiata su cui era impresso il più gran disprezzo. Essi uscirono. Il carceriere chiuse la porta dietro loro. — Egli avrà forse davvero posseduto qualche tesoro, disse l’ispettore risalendo la scala. — O avrà sognato di possederlo, rispose il governatore, e il giorno dopo si sarà risvegliato pazzo. — Così terminò l’avventura per lo scienziato Faria. Egli rimase prigioniere, e dopo questa visita la sua riputazione di pazzo glorioso aumentò sempre più. In quanto a Dantès, l’ispettore gli mantenne la parola. Risalendo nell’ufficio del governatore si fe’ mostrare il registro di consegna. Una nota era scritta dirimpetto al suo nome.
 
Edmondo Dantès Bonapartista arrabbiato; ha preso parte attiva al ritorno dall’Isola d’Elba; da tenersi nella più gran segreta, e sotto la più stretta sorveglianza.
Questa nota era di un altro carattere, e di un inchiostro diverso dal rimanente del registro, ciò che provava essere stata aggiunta dopo l’incarcerazione di Dantès. L’accusa era troppo positiva per tentare di combatterla. L’ispettore adunque scrisse al margine: «vista la nota di fronte, nulla si può fare.»
 
Questa visita aveva per così dire ravvivato Dantès; dacchè era entrato in prigione, aveva obbliato di contare i giorni; ma l’ispettore lo aveva fornito di una nuova data, ed egli non l’aveva dimenticata. Dietro a lui, scrisse sul muro con un po’ di gesso staccato dalla volta: 30 luglio 1816; e da quel momento faceva ogni giorno un segno affinchè la misura del tempo non gli sfuggisse più.
 
I giorni passarono, poi le settimane, quindi i mesi. Dantès aspettava sempre. Egli aveva cominciato dal fissare la sua liberazione a quindici giorni. Impiegando soltanto la metà della premura che aveva sembrato provare l’ispettore dovevano essere sufficienti 15 giorni. Passati questi 15 giorni, egli disse che era un’assurdità il credere che l’ispettore sarebbesi occupato di lui prima del suo ritorno a Parigi; or questo ritorno a Parigi non poteva aver luogo che allor quando avrebbe finito il giro, il quale poteva durare un mese o due. Egli fissò adunque tre mesi invece di 15 giorni; compiti i tre mesi un altro ragionamento venne in suo aiuto, ed egli si concesse sei mesi: finiti ancora questi sei mesi, mettendo i giorni uno in capo all’altro ritrovò di avere aspettato dieci mesi e mezzo. Durante questi dieci mesi e mezzo, niente fu cambiato nel regime della sua prigione; non vi era giunta alcuna notizia consolante, interrogato il carceriere, questi era muto secondo il solito. Dantès cominciò a dubitare dei suoi sensi, a credere che ciò che prendeva per un ricordo della sua memoria, non fosse altro che una allucinazione del suo cervello, e che questo angelo consolatore, apparso nella sua prigione, non vi fosse disceso se non che sulle ali di un sogno. In capo d’un anno il governatore fu cambiato. Egli aveva ottenuto la direzione del forte di Ham; condusse seco molti de’ suoi subordinati e fra gli altri il carceriere di Dantès. Un nuovo governatore giunse; sarebbe stato troppo lungo per lui l’imparare a memoria il nome di tutti i prigionieri, si fe’ perciò rappresentare soltanto i loro numeri. Questa orribile casa ammobiliata si componeva di cinquanta camere. I loro abitanti erano [59] distinti col numero della camera che abitavano, ed il disgraziato giovinotto cessò di essere chiamato ancora col suo nome Edmondo o col suo cognome Dantès: e si chiamò il numero 34.
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