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XV. — IL NUMERO XXXIV ED IL NUMERO XXVII.

时间:2021-06-29来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:Dants pass per tutti i gradi dinfelicit che soffrono i prigionieri dimenticati in una prigione. Cominci dallorgoglio che
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 Dantès passò per tutti i gradi d’infelicità che soffrono i prigionieri dimenticati in una prigione. Cominciò dall’orgoglio che è una conseguenza della speranza ed una conoscenza dell’innocenza; poi passò al dubbio della sua innocenza, ciò che non giustificava male le idee del governatore sulla sua alienazione mentale; finalmente cadde dall’alto del suo orgoglio, pregò non Dio ancora, ma gli uomini. Dio è l’ultima risorsa: il disgraziato che dovrebbe cominciare dal Signore talvolta non giunge a sperare in lui che dopo avere esaurite tutte le altre speranze. Dantès dunque pregò perchè il togliessero dal suo carcere, per metterlo in un altro, fosse anche stato più nero e più profondo; un cambiamento, quantunque peggiore, era sempre un cambiamento, e gli procurerebbe una distrazione di qualche giorno. Egli pregò che gli venisse accordata la passeggiata, dell’aria, dei libri, degl’istrumenti. Niente di tutto ciò gli venne accordato, ma non importa; domandava sempre.
 
Si era assuefatto a parlare col nuovo carceriere, quantunque questi fosse, se si può dire, più muto del primo; ma parlare ad un uomo, per quanto muto, era ancora un piacere. Dantès parlava per sentire la sua propria voce: si era provato di parlare quando era solo, ma allora aveva paura. Spesso prima di esser fatto prigioniere, Dantès si era fatto uno spauracchio di queste camere di prigionieri, composte di vagabondi, di banditi, e di assassini, fra i quali un’ignobile gioia mette in comune delle orgie inintelligibili e delle amicizie spaventose. Egli giunse a desiderare di esser messo in uno di questi bagni, per poter vedere qualche altro viso oltre quello del carceriere impassibile che non voleva parlare. Egli desiderava il bagno, col suo costume infamante, colla catena al piede, col marchio sulla spalla. I forzati almeno godevano la società dei loro simili, respiravano l’aria, vedevano il cielo: i forzati per Dantès erano esseri fortunati. Egli supplicò un giorno il carceriere di domandare per lui un compagno qualunque, fosse pur anche stato lo scienziato pazzo di cui avea inteso parlare. Sotto la scorza di carceriere, per quanto sia rozza, resta sempre qualche cosa di uomo. Questi, quantunque il suo viso nol dimostrasse, aveva spesso nel fondo del cuore compianto questo disgraziato giovine, il cui carcere era sì duro; passò dunque la domanda del numero 34 al governatore; ma questi, prudente come se fosse stato un uomo politico, s’immaginò che Dantès volesse ammutinare i prigionieri, tramare qualche complotto, aiutarsi con qualche amico, per tentare una evasione, e si ricusò. Dantès aveva esaurito il cerchio delle risorse umane. Come dicemmo che ciò doveva accadere, egli si rivolse allora a Dio. Tutte le idee pietose sparse nel mondo, e che vengono raccolte dagl’infelici che sono curvati sotto il peso della sventura, vennero allora a presentarsi al suo spirito; si rammentò delle preghiere insegnategli da sua madre, e ritrovò in quelle dei sensi fino allora ignoti; perchè all’uomo che s’appaga di terrene felicità, la preghiera rimane spesso un assieme monotono e vuoto di senso fino a che il giorno del dolore viene a spiegare all’infelice questo linguaggio sublime per mezzo del quale egli parla a Dio. Pregò dunque con fervore; e pregando ad alta voce non si spaventava più delle sue parole. Allora cadeva in una specie di estasi; vedeva Dio risplendente a ciascuna parola che pronunziava; tutte le azioni della sua vita umile e perduta le rapportava alla volontà di questo Dio onnipossente facendosene delle lezioni, e proponendosi degli obblighi ad adempiere.
 
Ad onta di queste preghiere ferventi, Dantès rimase prigioniero. Allora lo spirito si fece tetro, una nube s’addensò innanzi ai suoi occhi. Dantès era uomo semplice e senza educazione; il passato era rimasto per lui coperto da quel denso velo, che la sola scienza solleva. Egli non poteva nella solitudine della sua secreta o nel deserto del suo pensiero rianimare i popoli estinti, rifabbricare le antiche città che l’immaginazione e la poesia ingrandiscono, e che passano davanti agli occhi giganteschi ed illuminati dal fuoco del Cielo, come i quadri babilonesi di Martin; egli non aveva che il suo passato così breve, il suo presente così tristo, il suo avvenire così incerto: 19 anni di luce da meditarsi forse in una eterna notte! Nessuna distrazione poteva venirgli in aiuto: il suo spirito energico che forse non avrebbe amato meglio che prendere il suo volo a traverso le età, era forzato a restar [60] prigioniero come un’aquila nella sua gabbia.
 
Si aggrappava allora ad una sola idea, a quella della sua felicità, distrutta senza una causa apparente e per una fatalità inaudita, si atteneva a quest’idea, la girava, la rigirava sotto tutti i rapporti, divorandola per così dire a denti aguzzi, come nell’inferno di Dante l’implacabile Ugolino divora il cranio dell’arcivescovo Ruggiero. Dantès non aveva avuto che una fede passeggiera; egli la perdette come altri la perdono nei felici eventi, solamente non ne avea profittato. La rabbia successe all’ateismo. Edmondo emetteva delle bestemmie che facevano dare addietro per l’orrore il carceriere, infrangeva il corpo contro le muraglie della prigione, inferociva contro tutto ciò che lo circondava, e sopra tutto contro sè stesso; alla minima contrarietà che gli faceva provare un granellino di sabbia, una festuca di paglia, un soffio d’aria; allora quella lettera denunziatrice ch’egli aveva veduta, che avevagli mostrata Villefort, che da sè stesso aveva toccata, gli ritornava al pensiero; ciascuna linea fiammeggiava nel muro come il Mane, Thècel, Pharès, di Baldassarre; egli diceva a sè stesso che l’odio degli uomini e non la giustizia di Dio lo aveva immerso nell’abisso in cui si trovava; invocava a questi uomini sconosciuti tutti i supplizi di cui la sua ardente immaginazione poteva farsi un’idea; e trovava che i più terribili erano ancora troppo deboli e troppo brevi per essi.
 
A forza di dire a sè stesso, in proposito dei suoi nemici, che quegli che vuole punirli crudelmente deve servirsi di tutt’altro mezzo che della morte, cadde nell’immobilità della trista idea del suicidio; disgraziato colui che sul declivio dell’infelicità, si ferma a questa trista idea! È uno di quei mari morti che si estendono come l’azzurro delle onde pure, ma nelle quali il nuotatore sente di più in più legarsi i piedi in una creta bituminosa che lo attrae a sè, lo assorbe, lo inghiottisce. Una volta preso in tal modo, se il soccorso divino non lo aiuta tutto è finito, e qualunque sforzo che egli tenti, lo approfondisce sempre più nella morte. Ciò nonostante questo stato di morale agonia è meno terribile dei patimenti che lo hanno preceduto e del gastigo che lo seguirà; è una specie di consolazione vertiginosa che ci mostra il precipizio.
 
Talvolta diceva a sè stesso, quando nelle mie lontane corse, allorchè era ancora uomo, e quando quest’uomo libero e possente gettava ad altri uomini dei comandi, che erano eseguiti, ho veduto il cielo coprirsi, il mare fremere e mormorare, l’uragano nascere da un angolo del cielo, e come un’aquila gigantesca battere colle sue ali i due orizzonti; allora io sentiva che il mio vascello non era più che un rifugio impotente, poichè leggero come una piuma nella mano del gigante tremava e rabbrividiva anch’esso. Tosto al rumore del vento che fischiava, delle montagne d’acqua che mi si rovesciavano sul capo; il rumore spaventevole delle onde, l’aspetto degli scogli, mi annunziavano la morte, e la morte mi spaventava, ed io faceva tutti i miei sforzi per sfuggirla, e riuniva tutte le forze dell’uomo e tutta l’intelligenza del marinaio per lottare contro il cielo ed il mare!... ciò accadeva perchè allora io era felice, perchè il ritornare alla vita, era un ritornare alla felicità; ciò avveniva perchè non aveva invocata la morte, non l’aveva scelta; ciò avveniva perchè il sonno mi sembrava duro sopra questo letto di alghe e di sassi; ciò avveniva finalmente perchè io, che mi credeva una creatura fatta ad immagine di Dio, mi sdegnava di dover servire dopo la mia morte di pasto alle foche ed agli avvoltoi. Ma oggi è tutt’altro: ho perduto tutto ciò che poteva farmi amare la vita, oggi la morte mi sorride come una nutrice al bambino che va cullando; oggi io muoio a modo mio, e mi addormento stanco ed infranto, come mi addormenterei dopo una di queste sere di disperazione e di rabbia nelle quali ho contato tremila giri intorno alla mia camera cioè trentamila passi, vale a dire circa dieci leghe.
 
Dacchè questo pensiero ebbe germogliato nello spirito del giovinotto egli si fe più dolce, più ilare; si adattò meglio al suo letto, al suo pane nero, mangiò meno, non dormì più e trovò quasi sopportabile questo avanzo di esistenza che era certo di poter lasciare quando avesse voluto, come si lascia un vestito logoro. Aveva due mezzi per morire: uno era semplice; bastava di legare il fazzoletto alla sbarra della finestra e di appiccarvisi; l’altro consisteva a fingere di mangiare ed a lasciarsi morire di fame. Il primo ripugnava molto a Dantès. Egli era stato allevato coll’orrore ai pirati i quali vengono appesi ai pennoni dei bastimenti. L’impiccarsi adunque era per lui una specie di supplizio infamante che non voleva applicarsi da sè stesso, adottò il secondo, e ne cominciò l’esecuzione nel seguente giorno.
 
[61]
Circa quattr’anni erano passati nelle alternative che raccontiamo. Alla fine del secondo, Dantès aveva cessato di contare i giorni, ed era ricaduto nell’ignoranza completa del tempo, dalla quale era stato una volta liberato dall’ispettore. Dantès aveva detto: io voglio morire, ed aveva scelto il suo genere di morte, lo aveva bene esaminato, e per timore di retrocedere dalla sua risoluzione, aveva fatto giuramento a sè stesso di morire così. Quando mi verrà portato il nutrimento della mattina e quello della sera, aveva esso pensato, io getterò gli alimenti dalla finestra, e fingerò di averli mangiato.
 
Eseguì quanto avea promesso a sè stesso di fare. Due volte al giorno, per la piccola apertura sprangata che non gli lasciava scorgere che il cielo, gettava il cibo; sul principio con allegria, poi con riflessione, finalmente con dispiacere; ebbe bisogno di ricordarsi il giuramento fatto, per attinger la forza di continuare il suo terribile disegno. Questi alimenti che altra volta gli ripugnavano, la fame, dai denti aguzzi, glieli faceva comparire appetitosi allo sguardo e squisiti all’odorato; qualche giorno teneva per più di un’ora il piatto degli alimenti, contemplava con occhio fisso quel po’ di carne putrida o quel pesce infetto, e quel pane nero e guasto. Quegli erano gli ultimi istinti della vita che lottavano ancora in lui e che di tempo in tempo abbattevano la sua risoluzione. Allora il carcere non gli sembrava più tanto tetro, il suo stato gli sembrava meno disperato; era ancora giovine, poteva avere venticinque o ventisei anni, gli restavano forse ancor cinquant’anni di vita, cioè due volte quanto avea vissuto. Durante questo tempo immenso quanti avvenimenti potevano atterrare le porte, rovesciare le mura del castello d’If, e rendergli la libertà! allora egli avvicinava i denti al cibo, che, Tantalo volontario, allontanava da sè stesso dalla bocca; ma la memoria del fatto giuramento gli tornava allo spirito, e la sua natura gelosa aveva timore di avvilire sè stessa per mancare al fatto giuramento. Consumò adunque, rigoroso ed implacabile, il poco d’esistenza che gli restava, e venne il giorno che non ebbe più la forza di alzarsi per gettare dal finestrello della prigione la colazione che gli era stata portata. La dimane non ci vedeva più, sentiva appena; il carceriere credeva ad una grave malattia. Dantès sperava in una morte vicina. La giornata passò così. Edmondo sentiva un vago stordimento che non era privo di un certo ben essere, il guadagnare a poco a poco; lo stiramento nervoso del suo stomaco si era assopito, gli ardori della sua sete si erano calmati; allorchè chiudeva gli occhi, vedeva brillarsi intorno una quantità di fiammelle simili a quei fuochi fatui che corrono la notte sui terreni paludosi: era il crepuscolo di quel paese sconosciuto che si chiama morte. Di repente una sera, verso le nove, egli intese un sordo rumore alla parete del muro contro la quale era steso. Tanti animali immondi erano venuti a fare i loro rumori in quella prigione, che un poco alla volta Edmondo aveva assuefatto il suo sonno a non turbarsi per così poco; ma questa volta, sia che i sensi si fossero esaltati dall’astinenza, sia che davvero il rumore fosse più forte che d’ordinario, sia che in quest’ultimo e supremo momento tutto acquisti importanza, Edmondo si agitò pel rumore e sollevò la testa per meglio ascoltarlo. Era un grattamento che sembrava fatto o da una unghia enorme o da un dente possente o finalmente dall’uso di un istrumento qualunque su delle pietre.
 
Benchè indebolito, il cervello del giovinotto fu colpito da quella vaga idea costantemente fissa nello spirito del prigioniero, la libertà. Questo rumore giungeva appunto nel momento in cui ogni altro rumore andava a cessare per lui: gli sembrò che Iddio si mostrasse alla fine placato delle sue sofferenze, e gl’inviasse questo rumore per avvertirlo di fermarsi sull’orlo della tomba, su cui già vacillava il suo piede. Chi poteva sapere che uno dei suoi amici, uno di quegli esseri prediletti ai quali aveva pensato sì spesso, che ne aveva consunto il pensiero, non si occupasse di lui in questo momento e non cercasse ad accorciare la distanza che li separava? ma no, Edmondo senza dubbio si sbagliava e non era che un’abberrazione fluttuante alla porta della morte. Però Edmondo sentiva sempre questo rumore: durò circa tre ore, dopo di che egli intese una specie di crollo; ed il rumore cessò.
 
Qualche ora dopo lo senti più forte e più vicino. Edmondo già prendeva interessamento a questo lavoro che gli faceva compagnia; quando il carceriere entrò. Da otto giorni che aveva fatta la risoluzione di morire, da quattro giorni che aveva cominciata a metterla in esecuzione, Edmondo non aveva indirizzata la parola a quest’uomo, non rispondendogli nemmeno, quando questi gli parlava per domandargli di qual malattia si credeva [62] affetto, e si voltava dalla parte del muro quando credeva di essere osservato troppo attentamente. Ma oggi il carceriere poteva sentire il sordo rumore, allarmarsene, mettervi fine e disturbare così forse quella non so quale speranza, la cui sola idea lusingava gli ultimi momenti di Dantès.
 
Il carceriere portava la colazione. Dantès si sollevò dal letto ed alzando quanto più poteva la voce si mise a parlare su tutti gli argomenti possibili, sulla cattiva qualità dei viveri che gli erano portati, sul freddo che si soffriva in quella segreta, mormorando e brontolando per avere il diritto di gridar più forte, e stancando la pazienza del carceriere che precisamente in quel giorno aveva ottenuto per il prigioniero malato un brodo più sano e un pane più fresco, e che appunto allora glieli portava. Fortunatamente credette che Dantès delirasse; depose i viveri sulla cattiva tavola ov’era abituato a lasciarli e si ritirò. Edmondo libero allora, si rimise ad ascoltare con gioia. Il rumore diveniva così distinto che ora il giovinotto lo udiva senza sforzo. Non più dubbii, diss’egli a sè stesso, dappoichè questo rumore continua anche il giorno, giova credere esser qualche prigioniero che lavora per la sua liberazione. Oh! se io fossi vicino a lui; come lo aiuterei! ma di repente una tetra nube passò sopra questa aurora di speranza in quel cervello abituato all’infortunio, e che con somma difficoltà pareva prender parte alle gioie umane, perchè gli sorgeva l’idea che il rumore poteva essere causato dal lavoro di qualche operaio che il governo impiegava alle riparazioni di una prigione vicina.
 
Era facile l’assicurarsene; ma come arrischiare una domanda? certamente era cosa semplicissima aspettare l’arrivo del carceriere, fargli ascoltare questo rumore, e vedere quale aspetto prendeva; ma con una simile soddisfazione veniva egli a tradire interessi molto preziosi per una curiosità molto breve: disgraziatamente la testa d’Edmondo, campana vuota, era assordita dal ronzìo di un’idea, egli era così debole che il suo spirito fluttuava come un vapore, e non poteva condensarsi attorno ad un pensiero. Edmondo non vide che un mezzo di rendere la chiarezza alla sua riflessione e la lucidezza al suo giudizio; egli volse lo sguardo sul brodo ancor fumante che il carceriere aveva deposto sulla tavola, si alzò, andò barcollando fino a quella, prese la tazza, l’accostò alle labbra, e ne inghiottì il contenuto con una sensazione indicibile di benessere. Allora ebbe il coraggio di fermarsi là; aveva inteso dire che alcuni naufraghi disgraziati, raccolti, estenuati dalla fame, erano morti per avere ghiottamente divorato un nutrimento troppo sostanzioso. Edmondo depose sulla tavola il pane che teneva già vicino alla bocca, e andò a rimettersi sul letto. Non voleva più morire.
 
Ben presto sentì che la vita gli rientrava nel cervello, tutte le idee vaghe ed incerte riprendevano il loro posto in questa macchina meravigliosa. Potè pensare e fortificare il pensiero col ragionamento. Allora si disse:
 
— Bisogna tentare la prova, ma senza mettere in rischio alcuno. Se il lavoratore è un operaio ordinario io non dovrò che battere contro il mio muro; allora egli cesserà tosto dal lavorare, per cercare di indovinare chi è che batte e con quale scopo. Ma siccome il suo lavoro sarà non solamente lecito ma comandato, egli lo riprenderà ben presto. Se, al contrario, è un prigioniero, il rumore che io farò, lo spaventerà; temerà di essere stato scoperto; cesserà dal suo lavorio, e non lo riprenderà che questa sera quando crederà che ognuno sia a letto e addormentato.
 
Alzatosi di nuovo questa volta, le gambe non vacillavano più, gli occhi non erano più abbagliati. Andò verso un angolo della prigione, staccò un ciottolino isolato dall’umidità, e percosse tre colpi contro il muro nella stessa direzione in cui l’interno rumore era più sensibile.
 
Dopo il primo colpo il rumore era cessato come per incanto. Edmondo ascoltò con tutta l’anima. Passò un’ora, ne passarono due, e nessun nuovo rumore si fece sentire; egli aveva fatto nascere dall’altra parte della muraglia un assoluto silenzio. Edmondo pieno di speranza mangiò qualche boccone di pane, bevette un poco di acqua e mercè la forte struttura di cui era stato dotato, si ritrovò presso a poco come per lo innanzi. Passò la giornata, il silenzio durava sempre. Venne la notte senza che ricominciasse il rumore.
 
— È un prigioniero! disse Edmondo con una gioia indicibile.
 
Da quel momento la testa s’infuocò, la vita gli ritornò violenta a forza d’essere operosa. La notte passò senza che il minimo rumore si facesse udire: Edmondo non chiuse occhio.
 
Ritornò il giorno, il carceriere rientrò [63] portando gli alimenti. Edmondo aveva già divorati quelli del giorno innanzi, divorò pur quelli che gli furono portati, ascoltando senza posa quel rumore che non si riproduceva, tremando che fosse cessato per sempre, facendo dieci o dodici leghe nella sua segreta, scuotendo per ore intere le sbarre di ferro del suo spiraglio, rendendo l’elasticità ed il vigore alle sue membra con un esercizio dimenticato da lungo tempo, e disponendosi a lottare corpo a corpo col suo futuro destino, come fa stendendo le braccia e spargendo il corpo d’olio il gladiatore che sta per entrare nell’arena.
 
Negli intervalli poi di questa febbrile operosità, ascoltava se il rumore si rinnovava, s’impazientava della previdenza di questo prigioniero che non indovinava essere stato distratto dalla sua opera di libertà da un altro prigioniero che aveva per lo meno al pari di lui la stessa fretta di essere liberato. Tre giorni passarono, settantadue ore mortali, contando minuto per minuto!
 
Finalmente una sera, dopochè il carceriere aveva fatta la sua visita, e dopo che per la centesima volta Dantès aveva applicato l’orecchio al muro, gli sembrò che uno scroscio impercettibile si ripercuotesse sordamente nella sua testa, messa a contrasto colle pietre silenziose. Dantès indietreggiò per ben raccogliere il suo cervello agitato; fece qualche passo nella camera, e rimise l’orecchio nella stessa direzione.
 
Non v’era più dubbio; si lavorava qualche cosa dall’altra parte; il prigioniero aveva riconosciuto il pericolo del suo stratagemma e ne aveva adottato certamente un altro, e per continuare la sua opera con maggior sicurezza, aveva sostituito la leva allo scalpello. Fatto ardito per questa scoperta, Edmondo risolvè di venire in aiuto all’infaticabile operatore. Cominciò dallo spostare il suo letto, dietro il quale gli sembrò che l’opera di liberazione si compisse e cercò cogli occhi un oggetto col quale avesse potuto intaccare la muraglia, far cadere il cemento umido e spostare finalmente una pietra; nulla gli si presentava allo sguardo, egli non aveva nè coltello, nè strumento tagliente. Di ferro non v’eran che le sue sbarre, ma ei si era troppo bene e spesso assicurato che queste erano ferme e non valeva neppur più il fastidio di provare a spostarle.
 
Per suppellettili della sua prigione non aveva che un letto, una sedia, una tavola, un secchio ed una brocca. Il letto aveva le traverse di ferro, ma queste erano incastrate nel legno e fermate con viti. Sarebbe abbisognato un cacciavite per levare queste viti e prendere le traverse. Alla tavola ed alla sedia niente. Il secchio altra volta aveva il manico; ma questo era stato tolto. Non restava più a Dantès che un mezzo, quello cioè di rompere la sua brocca, e coi pezzi di coccio ad angolo mettersi al lavoro. Egli lasciò cadere la brocca sul pavimento, e questa andò in pezzi. Dantès ne scelse due o tre più acuti, li nascose nel suo pagliereccio, e lasciò gli altri sparsi per terra. La rottura di una brocca era troppo naturale perchè potesse ridestare sospetti. Edmondo aveva tutta la notte per lavorare, ma nella oscurità l’affare andava male poichè bisognava lavorare a tastoni, e sentì ben presto che egli smussava l’informe istrumento contro una materia più dura di quello; risospinse adunque il letto, e aspettò il giorno. Colla speranza gli era ritornata la pazienza. Tutta la notte egli ascoltò, e intese che lo sconosciuto minatore continuava la sua opera sotterranea.
 
Venne il giorno, entrò il carceriere. Dantès disse che il giorno innanzi nel bere gli era sfuggita dalle mani la brocca, e che si era rotta cadendo. Il carceriere andò brontolando a cercare una brocca nuova, senza neppure prendersi l’incomodo di portar via i rottami della vecchia. Ritornò dopo un momento, raccomandò maggior cautela al prigioniero, ed uscì. Quest’ultimo ascoltò con una gioia indicibile lo stridere della chiave, che per lo innanzi ogni volta che si chiudeva gli serrava il cuore. Ascoltò l’allontanarsi del rumore dei passi; poi, quando questo rumore svanì, balzò dalla sua cuccia che spostò, e al debole raggio del giorno che penetrava nel carcere, potè vedere gl’inutili tentativi fatti nella notte precedente contro il corpo di una pietra invece di lavorare sul cemento che la circondava. L’umidità aveva fatto il cemento friabile. Dantès vide con un battito di cuore contento, che questo cemento si staccava a pezzetti i quali per altro erano quasi atomi, ma ciò nonostante in capo ad una mezz’ora Dantès ne aveva staccato un bel pugno. Un matematico avrebbe potuto calcolare che con due anni circa di questo lavoro, supposto che non si fosse incontrato alcun macigno, si poteva scavare un passaggio di due piedi quadrati e di ventisette piedi di profondità.
 
[64]
Il prigioniero si rimproverò allora di non avere impiegato in quest’opera le lunghe ore di già successivamente trascorse, sempre più lente, e che egli aveva perdute nella speranza, nella preghiera e nella disperazione. Dopo sei anni circa, dacchè era chiuso in quel carcere, qual lavoro, per quanto lento non avrebbe potuto egli compiere? questa idea gl’infuse un nuovo ardore.
 
In tre giorni giunse, in mezzo ad inaudite cautele, a togliere tutto il cemento, ed a mettere allo scoperto il macigno; il muro era formato di frantumi di pietra in mezzo ai quali per aumentare la solidità era di tratto in tratto posto un macigno. Uno di questi macigni era stato da lui scoperto in tutto il suo contorno, ed ora si trattava di toglierlo dal suo sito. Dantès dapprima provò colle unghie, ma esse erano insufficienti all’uopo. I frantumi della brocca introdotti nelle connessure, si rompevano allorchè Dantès voleva servirsene a guisa di leva. Dopo un’ora d’inutili tentativi, Dantès si rialzò col sudore dell’angoscia sulla fronte. Stava egli forse per fermarsi in sul principio, ovvero gli abbisognava aspettare inerte ed inutile il suo vicino, che forse si sarebbe anche egli stancato, pria di avere compito l’opera?
 
Allora un’idea gli venne in pensiero, egli rimase in piedi sorridendo; la fronte umida pel sudore abbandonata si asciugò.
 
Il carceriere portava tutti i giorni la minestra di Dantès in una casseruola di latta, contenente la sua zuppa e quella di un altro prigioniero, poichè Dantès aveva notato che questa casseruola era sempre o interamente piena, o piena a metà, secondo che il carceriere incominciava la distribuzione dei viveri o da lui o dal suo compagno. La casseruola aveva un manico di ferro; era questo che Dantès anelava, e che avrebbe pagato in contraccambio, se gli fosse stato chiesto, dieci anni della sua vita. Il carceriere versava il contenuto della casseruola nel piatto di Dantès. Dopo aver mangiata la minestra con un cucchiaio di legno, Dantès lavava questo piatto, che serviva così ogni giorno. La sera Dantès pose il piatto per terra a mezza strada fra la porta e la tavola; il carceriere entrando vi mise il piede sopra, e lo ruppe in mille pezzi.
 
Questa volta non vi era nulla da dire contro Dantès: egli aveva fatto male di lasciare il piatto per terra, è vero, ma il carceriere aveva avuto torto di non guardare ove metteva i piedi. Il carceriere si contentò adunque di brontolare, poi guardò intorno a lui dove poteva mettere la minestra, il servizio da tavola di Dantès si limitava a quel solo piatto, quindi non v’era luogo a scegliere.
 
— Lasciate la casseruola, disse Dantès; la riprenderete domani quando mi portate la colazione.
 
Questo consiglio andava d’accordo con la pigrizia del carceriere, che per tal modo non aveva bisogno di risalire, scender di bel nuovo, e tornare a risalire poi. Egli lasciò la casseruola.
 
Dantès fremè per la gioia; questa volta mangiò sollecitamente la minestra e la carne che, secondo l’uso delle prigioni, vien messa in mezzo alla minestra. Poi dopo avere aspettato un’ora per esser certo che il carceriere non si sarebbe pentito, allontanò il letto, prese la casseruola, introdusse l’estremità del manico nel cemento, fra il macigno e i rottami di pietra vicini, e cominciò a farlo fare da leva. Una leggiera oscillazione assicurò Dantès che il lavoro prendeva buona piega. In fatto in capo a un’ora la pietra era tolta dal muro ove lasciava una buca di un diametro maggiore di un piede e mezzo. Dantès raccolse con molta cura il calcinaccio, e lo portò negli angoli della prigione, grattò la terra grigiastra con un frammento della sua brocca, e ricoperse il calcinaccio di terra. Poi volendo mettere a profitto questa notte in cui la combinazione, o meglio lo stratagemma che aveva immaginato, ponevagli fra le mani un utensile così prezioso continuò a scavare con tutta operosità. All’alba del seguente giorno ripose la pietra nel foro, respinse il letto contro il muro e vi si coricò. La colazione consisteva in un po’ di pane; il carceriere entrò, e lo posò sulla tavola.
 
— Ebbene! non mi portate un altro piatto?
 
— No, disse il carceriere; voi siete un rompitutto, avete rotta la vostra brocca, e siete stato causa che io abbia infranto il vostro piatto; se tutti i prigionieri facessero tanti guasti quanti ne fate voi, il governo non potrebbe durarla. Vi si lascia la casseruola dentro cui d’ora in poi si verserà la vostra minestra, ed in tal modo forse non romperete più i vostri utensili. — Dantès levò gli occhi al cielo, giunse le mani al di sotto della coperta. Questo ferro, di cui egli restava padrone, fe’ nascere nel suo cuore il più vivo slancio di riconoscenza verso il cielo, che non gli era stato mai inspirato nel tempo della sua passata vita dai grandi beni che aveva ottenuti. Soltanto egli aveva osservato, che [65] dal momento in cui aveva cominciato a lavorare, l’altro prigioniero non lavorava più. Non importa; questa non era una ragione per desistere dall’impresa; se il suo vicino non progrediva verso di lui, egli andrebbe incontro al suo vicino. In tutta la giornata Dantès lavorò senza riposo; la sera aveva, mercè il suo nuovo istrumento, levato dal muro più di dieci pugni di calcinaccio, rottami e cemento. Quando giunse l’ora della visita, raddrizzò alla meglio il manico della casseruola che aveva storto, e rimise il recipiente al posto consueto. Il carceriere vi versò l’ordinaria razione di minestra e carne, o piuttosto di minestra e pesce perchè quello era un giorno di magro, e tre volte per settimana facevano mangiar di magro i prigionieri. Questo avrebbe potuto essere ancora un mezzo per misurare il tempo, se Dantès non avesse da molto tempo abbandonato tale calcolo. Versata la minestra il carceriere si ritirò. Dantès volle allora assicurarsi se il suo vicino aveva cessato effettivamente di lavorare: e si mise in ascolto. Tutto era silenzioso come in quei tre giorni nei quali fu interrotto il lavoro. Dantès sospirò: evidentemente il suo vicino non si fidava di lui. Ciò nonostante non si perdette di coraggio e continuò a lavorare tutta la notte. Ma dopo due tre ore di lavoro, egli incontrò un ostacolo: il ferro non intaccava più, e scorreva sopra una superficie piana. Dantès toccò l’ostacolo colla mano, e riconobbe che egli aveva raggiunto un trave. Questo trave traversava o piuttosto sbarrava del tutto il foro incominciato da Dantès: gli bisognava scavare dal sotto in su. Il disgraziato giovine non aveva pensato ad un simile ostacolo. — Oh! mio Dio! gridò egli, io aveva pregato tanto, che sperava mi aveste inteso: dopo aver perduta la libertà della vita, dopo avere smarrita la calma della notte, dopo avermi richiamato all’esistenza, abbiate pietà di me, non mi lasciate morir disperato.
 
— Chi parla di Dio e di disperazione nello stesso tempo? articolò una voce che sembrava venire di sotto terra, e che, attenuata dall’opacità, giungeva a Edmondo con un accento sepolcrale.
 
Edmondo sentì drizzarsi i capelli sulla testa, e dette addietro cadendo in ginocchio. — Ah! mormorò egli, finalmente sento parlare un uomo! — Erano già quattro o cinque anni che non aveva sentito parlare altri che il suo carceriere, ed il carceriere non è considerato un uomo dal prigioniero: egli è una porta viva aggiunta a quella di quercia, è una sbarra di carne e d’ossa aggiunta a quelle di ferro.
 
— In nome del cielo! gridò Dantès, voi che avete parlato, continuate a parlare quantunque la vostra voce mi abbia spaventato; chi siete?
 
— Chi siete voi piuttosto? domandò la voce.
 
— Un disgraziato prigioniero, rispose Dantès che non aveva alcuna difficoltà a farsi conoscere.
 
— Di qual paese? — Francese. — Il vostro nome?
 
— Edmondo Dantès. — La vostra professione? — Marinaio.
 
— Da quanto tempo siete qui? — Dal 1 Marzo 1815.
 
— Il vostro delitto?
 
— Sono innocente. — Ma di qual delitto siete accusato?
 
— Di avere cospirato pel ritorno dell’imperatore.
 
— Come! pel ritorno dell’imperatore! l’imperatore non è dunque più in trono?
 
— Egli ha abdicato a Fontainebleau nel 1814 ed è stato relegato all’isola d’Elba. Ma voi che ignorate tutto questo, da quanto tempo siete qui?
 
— Dal 1811. — Dantès rabbrividì; quest’uomo aveva quattr’anni di prigionia più di lui. — Sta bene, non scavate più, disse la voce, parlando prestamente; soltanto ditemi a quale altezza si trova lo scavo che fate.
 
— Rasente terra. — Da che è nascosto? — Dal mio letto.
 
— Hanno smosso mai il vostro letto da che siete in prigione? — Giammai. — Dove mette la vostra camera? — Ad un corridore. — Ed il corridore? — Mette capo ad un cortile.
 
— Ahimè! mormorò la voce.
 
— Oh! mio Dio, che avete? gridò Dantès.
 
— Mi sono sbagliato, l’imperfezione dei miei disegni mi ha ingannato, la mancanza di un compasso mi ha perduto, una linea di sbaglio sul mio disegno ha equivalso a quindici piedi di realtà, ed ho preso il muro che voi scavate per quello della cittadella. — Ma allora voi sareste riuscito sul mare. — Era ciò che voleva! — Ma se foste riuscito?
 
— Mi gettava a nuoto, guadagnava una delle isole che circondano il castello d’If, sia l’isola di Daume, sia quella di Tiboulen, o ancora la spiaggia, ed allora sarei stato salvo.
 
— Ed avreste potuto nuotare fin là? — Dio [66] me ne avrebbe data la forza; ed ora tutto è perduto! — Tutto? — Sì, richiudete il vostro foro con cautela, non lavorate più, non vi occupate di niente, ed aspettate le mie notizie. — Ma almeno ditemi chi siete... — Io sono... sono il N. 27.
 
— Voi dunque non vi fidate di me? domandò Dantès.
 
Edmondo credette sentire un amaro riso penetrare per la volta e giungere fino a lui.
 
— Oh! io sono un buon cristiano, gridò egli, indovinando per istinto, che quell’uomo pensava ad abbandonarlo, io vi giuro per quanto vi ha di più sacro, che mi farò piuttosto uccidere che far travedere ai vostri carnefici ed ai miei l’ombra della verità; ma in nome del cielo, non mi private della vostra voce, o, io ve lo giuro, perchè sono all’estremo della mia forza, m’infrangerò la testa contro le muraglie, e voi avrete a rimproverarvi la mia morte.
 
— Quant’anni avete? riprese l’incognito interlocutore: la vostra voce mi sembra quella di un giovine.
 
— Io non so quant’anni m’abbia, perchè non ho misurato il tempo da che son qui. Ciò che so si è che, il 1 Marzo 1815, quando fui arrestato, aveva circa 19 anni.
 
— Non ancora 26 anni! mormorò la voce. Andiamo, a quest’età non si può essere ancora un traditore.
 
— Oh! no! no! ve lo giuro, ripetè Dantès. Ve l’ho di già detto, e ve lo ridico, mi farei piuttosto tagliare a pezzi che tradirvi.
 
— Avete fatto bene a parlarmi, ed a pregarmi, riprese la voce, poichè formar voleva un altro disegno, e mi allontanava da voi. Ma la vostra età mi tranquillizza, vi raggiungerò, aspettatemi. — E quando? — Bisogna che io calcoli i nostri pericoli, lasciatemi dare il segnale.
 
— Ma non mi abbandonerete, non mi lascerete solo, verrete da me, o permetterete ch’io venga da voi; fuggiremo assieme, e, se non potremo fuggire, almeno parleremo, voi delle persone che amate, io di quelle che amo. Amate qualcuno?
 
— Sono solo al mondo.
 
— Allora amerete me... se voi siete giovine, sarò vostro camerata, se siete vecchio sarò vostro figlio... Io ho un padre che deve avere settant’anni se vive ancora; io non amava che lui, ed una giovinetta che si chiamava Mercedès. Mio padre non mi avrà certo dimenticato, ne sono sicuro, ma ella, chi sa, se pensa ancora a me... io vi amerò come amava mio padre.
 
— Sta bene, disse il prigioniero; addio a domani.
 
Queste poche parole furono dette con un accento che convinse Dantès; egli non chiese di più, si rialzò, prese le solite cautele per i rottami tolti dal muro, e rimise il letto al suo posto. Da quel momento Dantès si abbandonò del tutto alla felicità, pensando, che non sarebbe stato certamente più solo, fors’anche libero; al peggio andare, se egli restava prigioniero, avrebbe avuto un compagno; e la prigionia divisa non è che la metà del gastigo. I lamenti che si mettono in comune, sono quasi preghiere, e le preghiere che si fanno in due sono atti di ringraziamento. Per tutta la giornata Dantès passeggiò nella prigione, il cuore balzavagli di gioia. Di tempo in tempo questa gioia lo soffocava. Egli si sedeva sul letto premendosi con una mano il petto. Al più piccolo rumore che sentiva nel corridoio, balzava alla porta. Più d’una volta gli si affacciò alla mente il timore che lo avessero separato da quell’uomo che non conosceva, e che di già amava come un amico. Allora egli avea risoluto, al momento che il carceriere avrebbe scostato il letto, ed abbassata la testa per esaminare l’apertura, gli fracasserebbe il capo su quello stesso pavimento ove aveva rotta la brocca. Sarebbe stato condannato a morte, lo sapeva; ma non stava forse per morire di noia e di disperazione al momento in cui questo rumore miracoloso lo aveva reso alla vita? La sera venne il carceriere; Dantès era sul letto; gli pareva che, stando su quello, avrebbe meglio fatto la guardia alla incominciata apertura. Bisognava senza dubbio che guardasse il suo visitatore importuno con uno sguardo stravagante, perchè questi gli disse:
 
— Oh! siete per ridivenir pazzo?
 
Dantès non rispose, perchè temè che l’emozione della voce lo tradisse. Il carceriere si ritirò scuotendo la testa. Giunta la notte, Dantès credè che il suo vicino profitterebbe del silenzio e della oscurità per riannodare la conversazione con lui, ma s’ingannò. La notte passò senza che alcun rumore rispondesse alla sua febbrile aspettativa. Ma la dimane dopo la visita del mattino, e mentre aveva allontanato il letto dal muro intese battere tre colpi distinti da intervalli uguali; egli si precipitò in ginocchio.
 
— Siete voi? disse, eccomi.
 
— Il carceriere se nè andato? domandò la voce.
 
— Sì, rispose Dantès, non ritornerà [67] che questa sera... abbiam dunque dodici ore di libertà!
 
— Posso operare? disse la voce.
 
— Sì! senza indugio, sul momento ve ne supplico!
 
Tosto la porzione di terra sulla quale Dantès, per metà addentrato nell’apertura appoggiava le mani, sembrò cadergli sotto: egli si gettò in addietro nel mentre che un ammasso di terra e di rottami precipitò in un foro che veniva ad aprirsi al di sotto dello scavo da lui fatto. Allora dal fondo di questo foro oscuro, e di cui non poteva misurare la profondità, vide comparire una testa, poi due spalle e finalmente un uomo tutto intero che con molta agilità uscì dallo scavamento fatto.
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