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当前位置: 首页 » 意大利语阅读 » 基督山伯爵 » 正文

XVII. — LA CAMERA DELLO SCIENZIATO.

时间:2021-06-29来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:Dopo essere passato curvandosi, ma pure con bastante facilit, pel passaggio sotterraneo, Dants giunse allestremit oppost
(单词翻译:双击或拖选)
 Dopo essere passato curvandosi, ma pure con bastante facilità, pel passaggio sotterraneo, Dantès giunse all’estremità opposta del corridore che metteva nella camera di Faria. Là il passaggio si ristringeva, e presentava appena lo spazio sufficiente perchè un uomo potesse strisciarvisi aggrappandosi. La camera del nuovo amico aveva il pavimento formato di pietre quadrate, e sollevando una di queste pietre nell’angolo più oscuro della camera, si vedeva il luogo ove Faria aveva incominciata la sua laboriosa fatica, e di cui Dantès aveva veduto la fine. Rimessa la pietra al suo posto, Faria vi stendeva sopra una vecchia stuoia, e questa cautela bastava per nasconderla agli occhi dei carcerieri. Appena entrato ed in piedi il giovine esaminò questa camera misteriosa colla più grande attenzione. Al primo aspetto questa stanza non presentava niente di particolare. — Bene, disse Faria, non è che mezzo giorno e un quarto, abbiamo ancora qualche ora per noi. — Dantès guardò intorno, cercando a quale orologio Faria aveva potuto legger l’ora in un modo così preciso. — Vedete questo raggio di luce che viene dalla mia finestra? disse Faria, guardate sul muro le linee che vi ho tracciate. Mercè di esse combinate col doppio movimento della terra e l’elittica che questa descrive intorno al sole, io so l’ora più esattamente di quello che se avessi un orologio, poichè un orologio può guastarsi, mentre che la terra ed il sole non si guastan mai.
 
Dantès non arrivava a comprendere questa spiegazione; vedendo il sole ognora alzarsi dietro le montagne e tuffarsi nel Mediterraneo aveva sempre creduto che fosse quello che camminasse e non la terra. [72] Questo doppio movimento del globo da lui abitato, e di cui non si accorgeva, gli sembrava quasi impossibile; in ciascuna parola del suo interlocutore, vedeva misteri di scienza così ammirabili ad approfondirsi, quanto quelle miniere d’oro e di diamanti che aveva visitate in un viaggio, fatto mentre era ancor fanciullo, a Guzarate e a Golconda.
 
— Vediamo, disse a Faria, ho smania di esaminare i vostri tesori. — Faria andò verso il caminetto, e collo scalpello che teneva sempre in mano, spostò la pietra che altra volta formava il focolare e che nascondeva una cavità abbastanza profonda; in questa cavità stavano racchiusi tutti gli oggetti di cui aveva parlato a Dantès.
 
— Che volete voi vedere per primo? gli domandò.
 
— Mostratemi la vostra grand’opera filosofica.
 
Faria cavò dal grazioso armadio tre o quattro rotoli di tela ravvolti su sè stessi come fogli di papiro; erano strisce larghe circa quattro pollici e lunghe circa diciotto. Queste strisce, numerate, erano coperte da una scrittura che Dantès potè leggere perchè essa era scritta nella lingua materna di Faria, vale a dire in italiano, idioma che Dantès comprendeva perfettamente nella sua qualità di provenzale.
 
— Vedete, gli disse, tutto è qui; sono circa tre giorni che ho scritto la parola fine nella 68ª striscia. Due delle mie camice e tutti i miei fazzoletti vi sono impiegati; se un giorno ritorno libero e posso ritrovare in Italia uno stampatore che ardisca stamparla, la mia riputazione è fatta.
 
— Sì, rispose Dantès, lo vedo bene. Ora mostratemi ve ne prego, le penne con le quali è stata scritta quest’opera.
 
— Eccole, disse Faria: e mostrò al giovinotto un bastoncello lungo sei pollici, grosso quanto un manico di un pennello, attorno ad una delle estremità del quale stava legata con un filo una di quelle cartilagini, ancora marchiata dall’inchiostro di cui Faria aveva parlato a Dantès. Essa era tagliata a becco, ed era spaccata come una penna ordinaria.
 
Dantès l’esaminò, cercando con lo sguardo lo strumento col quale era stata tagliata in un modo così preciso.
 
— Ah! sì, disse Faria, il temperino n’è vero? è il mio capolavoro, io l’ho fatto nello stesso modo di questo coltello, con un vecchio candeliere di ferro. — Il temperino tagliava come un rasoio. Quanto al coltello aveva il doppio vantaggio di servire ad un tempo da coltello e da pugnale.
 
Dantès esaminò questi differenti oggetti colla stessa attenzione che avrebbe usata in una bottega di chincagliere di Marsiglia: aveva esaminato altra volta eguali strumenti eseguiti da selvaggi e portati dal mare del Sud dai capitani di lungo viaggio. — In quanto all’inchiostro, disse Faria, voi sapete qual processo impiego, e lo faccio quando ne ho bisogno.
 
— Ciò di cui mi maraviglio si è, disse Dantès, che vi siano bastati i giorni per questi lavori.
 
— Ma io aveva ancora le notti, rispose Faria. — Le notti! siete voi dunque dalla natura dei gatti e ci vedete chiaro anche la notte? — No, ma Iddio ha dato all’uomo l’intelligenza per venire in aiuto alla povertà dei sensi: io mi son procurato la luce. — E come? — Dalla carne che ci portano separai il grasso, lo feci fondere, e ne cavai una specie di olio compatto. Guardate, ecco qua la mia bugìa. — E Faria mostrò a Dantès una specie di lampione come quelli che si adoperano nelle pubbliche illuminazioni. — Ma il fuoco?
 
— Ecco delle pietruzze e della tela bruciata. — Ma i solfanelli? — Ho fatto mostra di avere una malattia cutanea, ed ho domandato dello zolfo che mi è stato accordato.
 
Dantès depose sulla tavola gli oggetti che teneva in mano, e abbassò la testa, avvilito per la perseveranza e per la forza di quello spirito.
 
— Questo non è tutto, continuò Faria, poichè non bisogna mettere tutti i tesori in un solo nascondiglio; chiudiamo ora questi. — Riposta la pietra al suo posto, Faria vi sparse sopra un poco di terra, vi strisciò il piede per far scomparire ogni mancanza di continuità, si avanzò verso il letto e lo spostò. Dietro al capezzale, nascosto con una pietra che lo chiudeva quasi ermeticamente, era un foro, ed in questo foro una scala a corda lunga da 25 a 30 piedi. Dantès l’esaminò, essa era di una solidità a tutta prova.
 
— Chi vi ha fornito la corda necessaria a quest’opera meravigliosa? domandò Dantès.
 
— Dapprima qualche camicia che io aveva, poi qualche lenzuolo del mio letto che aveva sfilato nei tre anni di prigionia a Fenestrelles. Quando sono stato trasportato al castello d’If ho trovato il mezzo [73] di portar meco queste fila; qui ho continuato il mio lavoro.
 
— Ma non si accorgevano che i lenzuoli erano senz’orlo?
 
— Io li ricuciva. — Con che? — Con quest’ago.
 
E Faria alzando una falda del suo abito, mostrò una spina lunga acuta e ancora affilata che vi portava attaccata.
 
— Sì, continuò Faria, dapprima io aveva pensato a smurare queste sbarre, ed a fuggire dalla finestra che è un poco più larga della vostra, come vedete, e che avrei ancora slargata di più al momento dell’evasione; ma mi accorsi che questa finestra dava in un cortile interno, e rinunziai a questo disegno essendo troppo incerto. Ciò nonostante conservai la scala per una di quelle occasioni imprevedute, per una di quelle evasioni di cui vi ho parlato e che il solo caso qualche volta procura.
 
Dantès mentre esaminava la scala, pensava a tutt’altro; un’idea gli si era affacciata alla mente. Quest’uomo così intelligente, così ingegnoso, così profondo avrebbe potuto forse rischiarare la causa della propria infelicità, nella quale egli non aveva mai potuto scorgere nulla.
 
— A che pensate voi? domandò Faria ridendo, e prendendo l’astrazione di Dantès per un atto di ammirazione portata al più alto grado.
 
— Io pensava primieramente ad una cosa, ed è la quantità enorme d’intelletto che voi avete dovuto impiegare per giungere al punto a cui siete arrivato; che avreste voi dunque fatto se foste stato libero?
 
— Forse niente: il mio cervello è troppo pieno, e forse si sarebbe svaporizzato in cose futili: necessita la disgrazia per scavare certe miniere misteriose nascoste nell’umano intelletto: vi bisogna la pressione per far scoppiare la polvere; la prigionia ha riunito in un sol punto tutte le mie facoltà vaganti da un lato e dall’altro; esse si urtarono in un angusto spazio; e voi lo sapete, dallo scontro delle nuvole risulta l’elettricità, dall’elettricità il lampo, dal lampo la luce.
 
— No, io non so niente, disse Dantès avvilito dalla sua ignoranza; una quantità delle vostre parole per me sono vuote di senso; voi siete ben felice di essere in tal modo istruito!
 
Faria sorrise. — Voi pensavate a due cose, mi diceste poco fa? ma non mi avete fatto conoscere che la prima, qual è la seconda? — La seconda è, che voi mi avete raccontata la vostra vita, ed io non vi ho raccontata la mia.
 
— La vostra vita, o giovine, è tanto corta che non può racchiudere avvenimenti di grand’importanza.
 
— Racchiude un immenso infortunio, un infortunio che non ho meritato; e vorrei potermela prendere con gli uomini per la mia infelicità. — Allora voi vi credete innocente del fatto che vi viene imputato? — Innocente del tutto, lo giuro sulla testa di mio padre e di Mercedès.
 
— Bene, disse Faria, chiudendo il nascondiglio e rispingendo il letto al suo posto, raccontatemi la vostra storia.
 
Dantès allora raccontò ciò che egli chiamava sua storia, e che si limitava ad un viaggio nell’India, e a due o tre viaggi in Levante; finalmente arrivò all’ultima sua traversata, alla morte del capitano Leclerc, al plico deputato pel gran Maresciallo, al colloquio avuto col medesimo, alla lettera da lui rimessagli per il sig. Noirtier, finalmente al suo arrivo a Marsiglia, alla sua visita al padre, ai suoi amori con Mercedès, al pranzo dello sposalizio, all’arresto, all’interrogatorio, alla prigionia provvisoria nel palazzo di giustizia, e finalmente alla prigionia definitiva al castello d’If. Giunto a questo punto, Dantès non sapeva più nulla, neppure il tempo da che era prigioniero.
 
Terminato il racconto Faria riflettè profondamente.
 
— Havvi, diss’egli dopo un momento, un assioma in diritto di gran profondità e che coincide a ciò che vi diceva non è molto, che almeno il cattivo pensiero non nasce con una falsa organizzazione, la natura umana repugna al delitto. Ciò non ostante la civilizzazione ci ha dato de’ vizi, dei bisogni, e degli appetiti fittizi, che qualche volta hanno l’influenza di soffocare i nostri buoni istinti e di condurci al male. Quindi ne nasce questa massima: «se voi volete scoprire il colpevole, cercate dapprima colui al quale può essere utile il commesso delitto.» La vostra sparizione a chi poteva essere utile?
 
— A nessuno, mio Dio! io era tanto poca cosa.
 
— Non rispondete così, perchè la risposta manca ad un tempo di logica e di filosofia; tutto è relativo, mio caro amico; dal re che incomoda il suo successore, fino all’ultimo impiegato che incomoda l’alunno, ciascuno incomoda colui che gli vien dopo o che gli cammina a lato; se il re muore il suo successore eredita una corona, se l’impiegato muore l’alunno [74] ne eredita l’impiego e lo stipendio di 200 lire. Queste 200 lire di stipendio sono per lui la sua lista civile e gli sono tanto necessarie per vivere, quanto i milioni ad un re. Ciascuno individuo, dal più basso al più alto grado della scala sociale, riunisce intorno a sè un piccolo mondo d’interessi, avendo i suoi turbini ed i suoi atomi gialli come i mondi di Descartes. Soltanto questi mondi vanno sempre più allargandosi a misura che si sale. È una scala a chiocciola rovesciata, che si tien ritta alla punta per forza d’equilibrio. Ritorniamo dunque al vostro mondo. Voi eravate sul punto di essere nominato capitano a bordo del Faraone? — Sì.
 
— Eravate sul punto di sposare una bella giovinetta? Esisteva forse qualcuno che avesse premura perchè non diveniste capitano del Faraone? qualcuno cui importasse che non sposaste Mercedès? rispondetemi intanto alla prima interrogazione, l’ordine è la chiave di tutti i problemi. Io ripeto adunque, v’era qualcuno a cui potesse importare che non foste nominato capitano del Faraone?
 
— No, io era molto amato a bordo. Se i marinari avessero potuto eleggere un capo, son certo che sarei stato io l’eletto. Un sol uomo vi era che poteva in qualche modo esser meco inquieto, perchè tre mesi prima avevo avuto con lui una contesa, e gli aveva proposto un duello che egli ricusò.
 
— Avanti adunque!... come si chiama quest’uomo?
 
— Danglars. — Che cosa era a bordo?
 
— Scrivano computista.
 
— Se voi foste divenuto capitano l’avreste conservato al suo posto? — No, se la cosa fosse dipesa da me, perchè aveva creduto scorgere qualche infedeltà nei suoi conti. — Bene. Ora, chi ha assistito al vostro ultimo colloquio col capitano Leclerc?
 
— Nessuno; noi eravamo soli.
 
— Ma qualcuno poteva sentire la vostra conversazione?
 
— Sì perchè la porta era socchiusa, e anzi... aspettate... sì, sì, Danglars è passato precisamente nel momento in cui il capitano Leclerc mi consegnava il plico del gran Maresciallo.
 
— Bene, noi siamo sulla strada. Avete condotto con voi alcuno quando siete disceso a terra all’isola d’Elba?
 
— Nessuno. — Vi fu rimessa una lettera? — Sì, dal gran Maresciallo.
 
— Che ne avete fatto? — L’ho riposta nel mio portafogli. — Voi avevate dunque indosso un portafogli. Come mai un portafogli che doveva contenere una lettera ufficiale poteva egli stare nella tasca di un marinaio?
 
— Avete ragione, il mio portafogli era a bordo.
 
— Fu dunque a bordo che voi chiudeste la lettera nel portafogli? — Sì. — Da Portoferraio al bordo dove riponeste la lettera? — L’ho tenuta in mano.
 
— Dunque quando siete risalito a bordo del Faraone tutti hanno potuto vedere che avevate una lettera, Danglars e tutti gli altri? ora ascoltate bene, riunite tutta la vostra memoria: vi ricordate in quali termini era redatta la denunzia?
 
— Oh! sì, l’ho riletta tre volte, e mi è rimasta nella mente parola per parola.
 
— Ripetetemela adunque. — Dantès si raccolse un momento. — Eccola, diss’egli, alla lettera:
 
«Il Sig. Procuratore del Re è avvisato da un amico del trono e della religione, che il nominato Edmondo Dantès, secondo nel bastimento il Faraone, giunto questa mattina da Smyrne dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, è stato incaricato da Murat di una lettera per l’Usurpatore, e dall’Usurpatore d’una lettera pel Comitato Bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del delitto arrestandolo, poichè si troverà questa lettera, o nelle sue tasche, o presso di suo padre, o nel suo gabinetto a bordo del Faraone.»
 
Faria alzò le spalle. — Ciò è chiaro come la luce del giorno, diss’egli, e bisogna ben dire che voi abbiate avuto il cuore molto buono e molto ingenuo, per non indovinare la cosa al primo aspetto.
 
— Voi lo credete! gridò Dantès; Ah! questa sarebbe un’infamia.
 
— Com’era il carattere ordinario di Danglars?
 
— Un bel corsivo. — Qual era quello della lettera anonima? — Un carattere rovesciato. — Faria sorrise.
 
— Contraffatto, n’è vero?
 
— Ma molto franco per essere contraffatto.
 
— Aspettate! diss’egli. E presa la penna, o meglio ciò che così chiamava, la bagnò nell’inchiostro e scrisse colla mano sinistra, sopra un po’ di tela preparata a tal uopo, le prime due o tre righe della denunzia.
 
Dantès dette addietro e guardò Faria quasi con terrore.
 
— Oh! è meraviglioso, è sorprendente, gridò egli, come questa scrittura rassomiglia a quella.
 
[75]
— Ciò è perchè la denunzia fu scritta colla mano sinistra; ed io ho osservato una cosa, che tutti i caratteri fatti colla mano diritta sono diversi, ma che quelli che sono fatti colla mano sinistra si rassomigliano.
 
— Voi avete dunque veduto tutto, osservato tutto?
 
— Continuiamo... passiamo alla seconda interrogazione. V’era qualcuno a cui potesse importare che non sposaste Mercedès?
 
— Sì, un giovine che l’amava...
 
— Il suo nome? — Fernando. — Questo è un nome spagnuolo. — Egli era catalano. — Credete voi che questi sia stato capace di scrivere la lettera? — No, questi era piuttosto capace di piantarmi un coltello nel cuore.
 
— Bene, questo è nella natura spagnuola: un assassinio, sì; una viltà, no. — D’altra parte, continuò Dantès, egli ignorava tutti i particolari riportati nella denunzia. — Voi non li avevate raccontati ad alcuno?
 
— A nessuno. — Neppure alla vostra amica?
 
— Neppure alla mia fidanzata. — Fu Danglars!
 
— Oh! adesso ne son sicuro. — Ma aspettate... Danglars conosceva Fernando? — No... sì, cioè... ora mi ricordo... — Che cosa? — La vigilia dei miei sponsali li ho veduti insieme ad una tavola, sotto il pergolato di Papà Panfilo. Danglars era amichevole e scherzoso, Fernando era pallido e sconvolto.
 
— Eran soli? — No, vi era con loro un terzo mio compagno, che senza dubbio era stato quello che avevali fatto fare conoscenza tra loro, un sartore chiamato Caderousse; ma questi era già ubbriaco. Aspettate...
 
— Che cosa?
 
— Come mai non me ne sono ricordato prima? sulla tavola ove essi bevevano stava un calamaio, della carta, e delle penne! Dantès battendosi colla mano la fronte esclamò: Oh! è così, fu là che si scrisse quella lettera. Oh! infami! oh infami!
 
— Volete voi ancora sapere qualche altra cosa? disse sorridendo Faria.
 
— Sì, sì, poichè voi approfondite tutto, poichè voi vedete chiaro in ogni cosa: vorrei sapere perchè non sono stato interrogato che una sola volta, perchè non ho avuto giudici e in qual modo sono stato condannato senza una sentenza.
 
— Oh! questo poi, disse Faria, è un affare un poco più grave; la giustizia qualche volta ha delle procedure che sembrano cupe e misteriose. Ciò che noi abbiamo fatto fin qui pei vostri nemici è uno scherzo da ragazzi, ora abbisognano maggiori schiarimenti per questo argomento.
 
— Vediamo, interrogatemi, perchè in verità voi vedete nella mia vita più chiaro di me.
 
— Chi vi ha interrogato? fu il procuratore del Re, il sostituto, o il giudice d’istruzione?
 
— Fu il sostituto. — Giovine o vecchio? — Giovine: tra i 27 ai 28 anni. — Bene, non ancora corrotto, ma ambizioso. Quali furono i modi che usò con voi?
 
— Amichevoli piuttosto che severi. — Gli avete voi raccontato tutto? — Tutto. — E i suoi modi si cambiarono mai durante l’interrogatorio? — Un momento si sono alterati allorquando lesse la lettera che mi metteva a rischio. Egli sembrò oppresso dalla mia disgrazia.
 
— Dalla vostra disgrazia? — Sì. — Siete ben sicuro che era per la vostra disgrazia che si affliggeva? — Egli per lo meno mi ha dato la più gran prova di simpatia.
 
— E quale? — Ha bruciato quel solo documento che poteva recarmi danno. — Qual fu questo documento? la denunzia?
 
— No, la lettera. — Ne siete ben sicuro? — Lo fece sotto i miei occhi. — Ora è un altro affare; quest’uomo potrebbe ancora essere uno scellerato maggiore di quel che avevo creduto prima. — Voi mi fate fremere, sul mio onore! disse Dantès. Il mondo dunque è popolato di tigri e di coccodrilli? — Sì, con questa differenza, che le tigri ed i coccodrilli a due gambe sono più pericolosi degli altri. Egli dunque, mi dicevate, ha bruciato quella lettera?
 
— Sì, dicendomi: «voi vedete, non esiste che questa prova contro di voi, ed io l’anniento.» — Questa condotta è troppo sublime per essere naturale. — Voi lo credete? — Ne sono sicuro. A chi era diretta quella lettera?
 
— Al Sig. Noirtier, strada Coq-Héron, N. 13, Parigi.
 
— Potete voi presumere che il vostro sostituto avesse qualche premura a far sparire quel foglio?
 
— Forse, perchè mi ha fatto promettere due o tre volte, egli mi diceva per mio pro, di non parlare ad alcuno di quella lettera; anzi mi ha fatto giurare di non pronunciar mai a chicchessia il nome che stava scritto sull’indirizzo.
 
[76]
— Noirtier! disse Faria, Noirtier! io ho conosciuto un Noirtier alla corte dell’antica regina d’Etruria, un Noirtier che nella rivoluzione era stato girondino. Come si chiamava il sostituto?
 
— De Villefort. — Faria scoppiò in una risata. Dantès lo guardò con stupore: — Che avete? domandò egli.
 
— Vedete questo raggio di sole? chiese Faria. — Sì.
 
— Or bene! tutto adesso per me è più chiaro di questo raggio trasparente e luminoso. Povero ragazzo! povero giovinotto! e questo magistrato era buono con voi? egli ha bruciata, annientata la lettera? egli vi ha fatto giurare di non pronunziar mai il nome di Noirtier?
 
— Sì. — Noirtier, povero cieco che siete, sapete chi era questo Noirtier?... questo Noirtier era suo padre!
 
Un fulmine caduto ai piedi di Dantès, che gli avesse spalancato un abisso nel fondo del quale si fosse aperto l’inferno, non avrebbe prodotto un effetto così pronto, così elettrico, così opprimente quanto queste inattese parole; si alzò, afferrandosi la testa fra le mani quasi avesse voluto impedire che scoppiasse: Suo padre!... suo padre!... gridò egli.
 
— Sì, suo padre... si chiama Noirtier de Villefort, soggiunse Faria. Allora una luce folgorante passò per la mente del prigioniero; tutto ciò che gli era rimasto oscuro venne in quel punto illuminato da una chiarezza risplendente. Le tergiversazioni di Villefort durante l’interrogatorio, la lettera distrutta, il giuramento richiesto, la voce quasi supplicante del magistrato, che in vece di minacciare sembrava implorare, tutto gli ritornò al pensiero. Egli gittò un grido, traballò come un ubbriaco, poi slanciandosi all’apertura che dalla cella di Faria conduceva alla sua: — Oh! diss’egli mi necessita esser solo, per poter pensare a tutto ciò. — E arrivando nella sua segreta cadde sul letto, ove il carceriere lo ritrovò la sera, assiso cogli occhi fissi, i lineamenti contratti, immobile e muto come una statua. Nelle ore di meditazione che per lui erano passate come minuti secondi, aveva presa una terribile risoluzione e fatto un formidabile giuramento! Per mantenere questo giuramento e mandare ad effetto questa risoluzione bisognava supporre che un giorno sarebbe libero! Una voce venne a togliere Dantès da questa estasi, era quella di Faria, che dopo la visita del carceriere, veniva ad invitare Dantès a cenare con lui. La sua riconosciuta qualità di pazzo e particolarmente di pazzo delirante, procurava al vecchio prigioniero qualche privilegio come sarebbe quello di avere il pane un poco più bianco, ed una piccola bottiglia di vino la domenica. Or per caso era quello un giorno di domenica, e Faria veniva ad invitare il giovine compagno a far parte del suo vino e del suo pane: Dantès lo seguì: tutte le linee del viso si erano ricomposte, ed avevano ripreso la loro consueta abitudine, ma con una durezza e fermezza tale (se si può dire) che manifestavano una risoluzione già presa.
 
Faria lo guardò fissamente:
 
— Sono mortificato di avervi aiutato nelle vostre ricerche e di avervi detto ciò che vi ho detto. — Perchè? domandò Dantès. — Perchè vi ho infiltrato nel cuore un sentimento che prima non vi era; la vendetta. — Dantès sorrise.
 
— Parliamo d’altro; diss’egli.
 
Faria lo guardò ancora un momento e tentennò tristamente la testa; quindi come lo aveva pregato Dantès, parlò di altro. Il vecchio prigioniero era uno di quegli uomini la cui conversazione, come quella di coloro che hanno molto sofferto, contiene molti insegnamenti, e racchiude un interessamento continuo; ma egli non era egoista, e questo infelice non parlava mai delle sue disgrazie. Dantès ascoltava ciascuna delle sue parole con ammirazione: alcune corrispondevano alle idee che già aveva, ed a sua conoscenza per lo stato di marinaro; le altre appartenevano a cose a lui sconosciute, ed a guisa di quelle aurore boreali che rischiarano i navigatori nelle latitudini australi, mostravano al giovine dei paesi sconosciuti e dei nuovi orizzonti, illuminati da chiarore fantastico. Dantès concepì la felicità di cui doveva godere un’organizzazione intelligente a seguire questo spirito elevato sulle eminenze morali, filosofiche, e sociali sulle quali d’abitudine posavasi. — Voi dovreste insegnarmi un poco di quanto sapete, disse Dantès, non fosse altro che per non annoiarvi meco. Mi sembra che dobbiate preferire la solitudine ad un compagno senza educazione e senza cognizioni come sono io. Se vi acconsentite vi prometto di non parlarvi più di fuga.
 
Faria sorrise. — Ahimè! figlio mio, diss’egli, la scienza umana è molto limitata, e dopo avervi imparato le matematiche, la fisica, la storia, e le tre o quattro lingue vive che io parlo, voi sapreste quello che so io; ora tutta questa [77] scienza potrei farla passare dal mio spirito nel vostro in due anni.
 
— Due anni! disse Dantès, credete che io possa imparare tutte queste cose in due anni?
 
— Nella loro applicazione no, nei loro principi sì; l’imparare non è lo stesso che sapere, vi sono gli eruditi e gli scienziati, la memoria forma i primi, la filosofia i secondi.
 
— Ma la filosofia non si può imparare?
 
— La filosofia non s’impara, la filosofia è la riunioe delle scienze imparate al genio che le applica.
 
— Vediamo, disse Dantès, che cosa m’insegnerete per primo? ho smania di cominciare, ho sete di scienza.
 
— Tutto! disse Faria. — Infatto fin da quella sera i due prigionieri stabilirono un disegno di educazione che cominciò ad essere messo in esecuzione il giorno dopo. Dantès aveva una memoria prodigiosa, una estrema facilità di concetto; la disposizione matematica del suo spirito lo rendeva atto a comprender tutto per mezzo del calcolo, nel mentre che la poesia del marinaro correggeva quanto poteva esservi di troppo materiale nella dimostrazione ridotta all’aridità delle cifre e alla precisione delle linee. D’altra parte sapeva già l’italiano e un poco l’arabo che aveva imparato viaggiando in Oriente. Con queste due lingue, imparò ben presto il meccanismo di tutte le altre, ed in capo a sei mesi principiò a parlare l’inglese ed il tedesco. Come lo aveva detto a Faria, sia che la distrazione procuratagli dallo studio gli tenesse luogo di libertà, sia ch’egli fosse, come abbiamo già veduto, rigido osservatore della sua parola, Dantès non parlava più di fuggire; e le giornate per lui passavano rapide ed istruttive. In capo a un anno era già un altro uomo. Quanto a Faria, Edmondo osservava che, ad onta della distrazione arrecata con la presenza di lui alla sua prigionia, diventava ogni giorno più tetro; un pensiero incessante ed eterno sembrava occuparne lo spirito; era preso da profonde distrazioni, si alzava ad un tratto, incrocicchiava le braccia e passeggiava meditabondo intorno al carcere. Un giorno si fermò ad un tratto nel mezzo di uno dei cerchi le cento volte ripetuti e descritti intorno alla sua camera, e gridò: — Ah! se non vi fosse la sentinella.
 
— Non vi sarà sentinella quando voi non la vorrete, disse Dantès, che aveva seguito il suo pensiero attraverso la teca del suo cervello, come attraverso una bottiglia di cristallo.
 
— Ah! ve l’ho detto: mi ripugna l’idea d’un omicidio. — E frattanto quest’omicidio, se venisse commesso, lo sarebbe per istinto della nostra conservazione, per un sentimento di difesa personale. — Non importa... io non saprei... — Ciò nonostante voi ci pensate? — Senza posa, senza posa, mormorò Faria. — Ed avete ritrovato un mezzo, n’è vero? domandò vivamente Dantès. — Sì, se potesse accadere che mettessero di guardia una sentinella sorda e cieca.
 
— Ella sarà cieca, ella sarà sorda, rispose il giovine con un accento di risoluzione che spaventò Faria.
 
— No, no, gridò egli, è impossibile.
 
Dantès volle trattenerlo sopra questo argomento, ma Faria scosse la testa, e si ricusò di continuare a rispondere, e dopo ciò passarono ancora altri tre mesi.
 
— Siete voi forte? domandò un giorno Faria a Dantès. Questi senza rispondere prese lo scalpello, lo piegò a ferro di cavallo, e lo raddrizzò. — V’impegnereste voi a non uccidere la sentinella che in un caso di estrema necessità?
 
— Sì, sul mio onore. — Allora, disse Faria, potremo eseguire il nostro disegno. — E quanto tempo ci vorrà per eseguirlo? — Almeno un anno. — Potremo dunque metterci al lavoro? — Subito. — Oh! vedete dunque abbiamo già perduto un anno. — Credete voi che quest’anno sia stato perduto? — Oh! perdono, gridò Edmondo arrossendo. — Zitto! disse Faria. L’uomo è sempre uomo, e voi siete uno dei migliori che m’abbia conosciuti. Ecco il mio disegno.
 
Faria mostrò allora a Dantès un disegno da lui tracciato: era la pianta della sua camera, di quella di Dantès e del corridoio che le univa una all’altra. Nel mezzo di questo corridoio egli stabiliva un condotto simile a quello che si pratica nelle miniere, questo condotto avrebbe portato i due prigionieri sotto la galleria ove passeggiava la sentinella. Una volta giunti là, essi praticherebbero un largo scavamento, smurerebbero una delle pietre quadrate che formano il piancito della galleria, la pietra in un dato momento sprofonderebbe sotto il peso del soldato, che scomparirebbe inghiottito dallo scavamento. Dantès, si sarebbe precipitato sopra di lui nel momento in cui, ancor stordito per la caduta, non avrebbe potuto difendersi, lo avrebbe legato, gli avrebbe turata la [78] bocca, ed allora tutti e due passando da una finestra di quella galleria, sarebbero discesi lungo la muraglia esterna coll’aiuto della scala di corde, e si sarebbero salvati. Dantès battè le mani, e i suoi occhi sfavillarono di gioia; questo disegno era così semplice, che era impossibile non riuscisse. Nel medesimo giorno i due minatori si misero all’opera e con un ardore tanto più grande, in quanto che questo lavoro che cominciava dopo un lungo riposo, non faceva, secondo tutte le probabilità, che secondare il pensiero intimo e secreto d’entrambi. Niente l’interrompeva, se non che l’ora nella quale ciascuno d’essi era obbligato di rientrare nella sua stanza per ricevere la visita del carceriere. D’altra parte avevano presa l’abitudine di distinguere così facilmente il rumore impercettibile dei passi, al momento in cui quest’uomo discendeva, che giammai nè l’uno e nè l’altro fu colto all’imprevista. La terra da essi estratta dalla nuova galleria, e che sarebbe stata sufficiente per riempire l’antico corridoio, veniva gettata a poco a poco, e con inaudite cautele dall’una o dall’altra delle finestre del carcere di Dantès, o del carcere di Faria, dopo polverizzata con ogni cura, e il vento della notte la trasportava lungi, senza lasciarne traccia. Più d’un anno fu passato in questo lavoro che venne eseguito con uno scalpello, un coltello ed una leva di legno per soli strumenti. Durante quest’anno e mentre lavoravano, Faria continuò ad istruire Dantès parlandogli ora in una lingua, ora in un’altra; insegnandogli la storia delle nazioni, e di quei grand’uomini che di tempo in tempo lasciano dietro a sè una di quelle luminose tracce, che si chiama gloria. Faria uomo di mondo, e di gran mondo, aveva inoltre nelle sue maniere una specie di maestà malinconica, di cui Dantès, mercè lo spirito d’imitazione che gli aveva fornito la natura, seppe trar profitto, e riunire quell’elegante tratto di cui mancava a quei modi aristocratici che generalmente non si acquistano che coll’abitudine di avvicinare le classi elevate o colla conversazione degli uomini superiori.
 
In capo a 15 mesi il foro era finito, lo scavamento sotto la galleria era fatto, si sentiva passare e ripassare la sentinella, e i due operai, che erano obbligati ad aspettare una notte oscura e senza luna per rendere più sicura la loro evasione, non avevano più che un timore, ed era, che la botola sprofondasse da sè sotto i piedi del soldato. Venne ovviato a questo inconveniente col mettere per puntello una specie di travicello che avevano scavato nei fondamenti.
 
Dantès era occupato a metterlo al posto quando intese ad un tratto Faria, rimasto nel carcere da lui occupato a formare una cavicchia destinata a mantenere la scala di corda, che lo chiamava con un accento di disperazione. Rientrò sollecitamente, e vide Faria ritto in mezzo alla camera, pallido, col sudore alla fronte e le mani intirizzite.
 
— Oh! mio Dio! gridò Dantès, che c’è, che cosa avete?
 
— Presto! presto! disse Faria, ascoltatemi.
 
Dantès guardò il viso livido di Faria, gli occhi circondati da un cerchio azzurrognolo, le labbra bianche, i capelli irti, e per lo spavento lasciò cadersi a terra lo scalpello che teneva in mano.
 
— Che c’è egli dunque? gridò Edmondo.
 
— Son perduto, disse Faria, ascoltatemi, un male terribile, forse mortale mi assale in questo momento. L’accesso è incominciato, lo sento. Ne fui già colpito l’anno prima della mia carcerazione. A questo male non vi è che un rimedio; ve lo dirò; correte presto nel mio carcere, togliete un piede al mio letto, questo piede è scavato: vi troverete dentro una piccola boccetta di cristallo piena per metà di un liquore rosso; portatemela, o piuttosto... no, no... io potrei esser sorpreso qui... aiutatemi a rientrare nella mia camera fino a che mi resta ancora qualche forza. Chi sa ciò che può accadere, e quanto tempo durerà l’accesso? — Dantès senza molto agitarsi, quantunque la disgrazia che lo colpiva fosse immensa, discese nel corridoio, trascinò dietro a sè l’infelice compagno, e conducendolo con infiniti stenti fino all’estremità opposta, giunse nel carcere di Faria, e lo depose nel letto.
 
— Grazie, disse Faria, tremando con tutte le membra, come se uscisse dall’acqua diacciata; ecco il male che s’inoltra, sto per cadere in catalessi. Forse non farò un movimento, forse non manderò un gemito, ma forse ancora mi contorcerò, griderò, sputerò bava. Fate in modo che non siano intese le mie grida, questo è ciò che soprattutto importa, perchè allora potrei essere cambiato di camera, e noi saremmo divisi per sempre. Quando voi mi vedrete immobile, freddo, e per così dire morto, allora soltanto schiudetemi [79] i denti col coltello, fatemi colare in bocca otto o dieci gocce di quel liquore, e forse rinverrò.
 
— Forse? gridò dolorosamente Dantès.
 
— A me! a me! gridò Faria io mi... mi...
 
L’accesso fu sì rapido e violento, che il disgraziato prigioniero non potè compiere neppure l’incominciata parola; una nube gli passò sulla fronte, sollecita e tetra come la tempesta del mare. La crisi gli dilatò gli occhi, gli contorse la bocca, gl’imporporò le guance; si agitò, ruggì; ma come lo aveva raccomandato egli stesso, Dantès soffocò queste grida sotto la coperta. Tutto durò due ore; allora più inerte che un masso, più pallido e più freddo di un marmo, più infranto di una cosa calpestata sotto i piedi, cadde, s’intirizzì in un’ultima convulsione, e divenne livido. Edmondo aspettò che questa morte apparente avesse investito tutto il corpo, e ghiacciato fino al cuore; allora prese il coltello, introdusse la lama fra i denti, disserrò a gran fatica le intirizzite mascelle, e contò una dopo l’altra le dieci gocce del rosso liquore, e aspettò. Passò un’ora senza che il vecchio facesse il più piccolo movimento; Dantès temeva di avere aspettato troppo, e lo guardava con le mani cacciate nei capelli; finalmente un leggiero colorito apparve sulle sue guance; gli occhi costantemente rimasti aperti e attoniti, ripresero il consueto sguardo, un debol sospiro gli sfuggì di bocca; fece un piccolo movimento.
 
— Egli è salvo! egli è salvo! gridò Dantès.
 
Il malato non poteva ancora parlare, ma stese con ansia visibile la mano verso la porta. Dantès ascoltò e intese i passi del carceriere. Erano quasi le sette ore, e Dantès non aveva avuto il pensiero di misurare il tempo. Il giovine si slanciò all’apertura, vi si precipitò, rimise la pietra al di sopra della testa, e rientrò nella stanza. Un momento dopo la porta si aprì, ed il carceriere ritrovò, secondo il solito, il prigioniero assiso sul letto. Appena ebb’egli voltato le spalle, appena il rumore dei suoi passi si perdè nel corridoio, Dantès, divorato dall’inquietudine, senza pensare a mangiare, riprese il cammino sotterraneo, e sollevando la pietra al di sopra della testa, rientrò nella camera di Faria. Questi aveva ripreso conoscenza, ma era sempre steso sul letto, inerte e senza forze.
 
— Io non contava più di rivedervi, diss’egli a Dantès.
 
— E perchè questo? domandò Edmondo, contavate dunque di morire? — No, ma tutto è all’ordine per la vostra fuga, ed io credeva che sareste fuggito. — Il rossore dell’indignazione colorò le guance di Dantès — Senza di voi! gridò egli, mi avete veramente creduto capace di ciò?
 
— Adesso m’accorgo che mi sono ingannato, disse il malato; ah! sono molto debole, molto abbattuto.
 
— Coraggio, le forze ritorneranno, disse Dantès, sedendosi vicino al letto di Faria e prendendogli le mani.
 
Faria tentennò la testa. — L’ultima volta, diss’egli, l’accesso non durò che una mezz’ora, dopo la quale io ebbi fame e mi rialzai solo. Oggi non posso muovere nè la gamba, nè il braccio destro, la testa è oppressa, e ciò prova che è accaduto un versamento nel cervello; al terzo accesso resterò interamente paralizzato, o morirò sul colpo.
 
— No, no, tranquillatevi, voi non morrete. Se questo terzo accesso deve colpirvi vi troverà libero; io vi salverò come questa volta, e meglio ancora, perchè avremo tutti i necessarii soccorsi.
 
— Amico mio, disse il vecchio, non vi lusingate, la crisi che è passata mi ha condannato ad un carcere perpetuo; per fuggire bisogna poter camminare.
 
— Ebbene, noi aspetteremo otto giorni, un mese, due mesi se bisogna; in quest’intervallo le vostre forze ritorneranno, tutto è pronto per la fuga, ed abbiamo la libertà di poter scegliere a nostro piacere l’ora ed il momento. Il giorno in cui vi sentirete abbastanza forte per nuotare, noi metteremo ad esecuzione il nostro disegno.
 
— Io non nuoterò più, disse Faria, questo braccio è paralizzato, non per un giorno, ma per sempre; sollevatelo voi stesso, e sentite quanto è pesante. — Il giovine sollevò il braccio che ricadde morto ed insensibile. Dantès mandò un profondo sospiro.
 
— Ora sarete convinto voi stesso, n’è vero Edmondo? disse Faria; credetemi, io so quello che dico. Dopo il primo accesso che ebbi di questo male, non ho mai cessato di studiarvi e di riflettervi sopra; io lo aspettava perchè è un’eredità di famiglia. Mio padre è morto al terzo assalto, mio nonno egualmente. Il medico che mi compose questo liquore, il celebre Cabanis, mi predisse la stessa sorte.
 
— Il medico si sbaglia, gridò Dantès; [80] in quanto alla vostra paralisi, essa non mi sgomenta, io vi prenderò sulle spalle, e nuoterò sostenendovi.
 
— Mio amico, disse Faria, voi siete marinaro, e buon nuotatore, e dovete per conseguenza sapere che un uomo caricato di un simile fardello non potrebbe fare cinquanta braccia nel mare. Cessate dal lasciarvi illudere dalle chimere che ingannano l’ottimo vostro cuore. Io resterò qui fino a che suoni l’ora della mia liberazione, che adesso non può più esser che quella della morte. In quanto a voi partite, fuggite; voi siete giovine, destro e forte, non vi occupate di me, io vi rendo la vostra parola. — Sta bene, disse Dantès.
 
— Ebbene! allora? — Io pure resterò. — Poi levandosi e stendendo una mano sul vecchio:
 
— Per quanto vi ha di più sacro, io giuro di non lasciarvi che alla vostra morte. — Faria considerò questo giovine sì nobile, sì semplice e sì elevato, e lesse sui tratti animati dall’espressione di devozione la più pura, la sincerità della sua affezione, e la lealtà del suo giuramento.
 
— Andiamo, disse il malato, io accetto e vi ringrazio. — Poi stendendogli la mano:
 
— Voi forse sarete un giorno ricompensato di questa disinteressata divozione, gli disse; ma dappoichè io non posso e voi non volete partire, è necessario di ricolmare il sotterraneo sotto la galleria; il soldato camminando può scuoprire la sonorità nella direzione dello scavo, richiamare l’attenzione di un ispettore, e allora noi saremmo scoperti e separati. Andate a fare questa faccenda nella quale disgraziatamente non posso aiutarvi, impiegatevi tutta la notte se bisogna, e non ritornate da me che domattina dopo la visita del carceriere; avrò qualche cosa di somma importanza da comunicarvi. — Dantès, prese la mano di Faria che lo assicurò con un sorriso, ed uscì con quell’obbedienza e quel rispetto che aveva dedicato al suo vecchio amico.
 
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