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XVIII. — IL TESORO.

时间:2021-06-29来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:Allorch Dants la dimane rientr nella camera del suo compagno di prigionia, trov Faria assiso, col viso sereno sotto il r
(单词翻译:双击或拖选)
 Allorchè Dantès la dimane rientrò nella camera del suo compagno di prigionia, trovò Faria assiso, col viso sereno sotto il raggio che penetrava attraverso la stretta finestra della sua cella. Egli teneva aperto nella mano sinistra, la sola di cui gli era rimasto l’uso, un po’ di carta che per l’abitudine di restare avvolta sempre nello stesso modo aveva preso la forma di un cilindro ribelle a stendersi, e ch’ei mostrò a Dantès senza dire una parola.
 
— Che è ciò? domandò questi.
 
— Guardate bene, disse Faria sorridendo.
 
— Io lo sto osservando attentamente, disse Dantès, ma non vedo altro che un po’ di carta mezzo bruciata e sulla quale sono tracciati dei caratteri gotici con un inchiostro particolare.
 
— Questa carta, amico mio, disse Faria, è, ora ve lo posso confessare perchè vi ho sperimentato, questa carta è il mio tesoro, di cui da questo momento la metà è vostra!
 
Un freddo sudore passò sulla fronte di Dantès. Fino a quel giorno, e per uno spazio sì lungo di tempo, egli aveva sempre evitato di parlare a Faria di questo tesoro, origine dell’accusa di pazzia che gravava sul povero amico. Colla sua istintiva delicatezza, Edmondo aveva preferito di non toccare questa corda dolorosa; e Faria per sua parte si era taciuto; egli aveva preso il silenzio del vecchio per un ritorno alla ragione. Or quelle poche parole sfuggite a Faria, dopo una crisi così penosa, sembravano annunziare una grave ricaduta d’alienazione mentale.
 
— Vostro tesoro, balbettò Dantès. — (Faria sorrise).
 
— Sì, diss’egli; in ogni occasione voi siete un nobil cuore, Edmondo, e dal vostro pallore e dal vostro fremito comprendo ciò che passa per la vostra mente in questo punto. No, siate tranquillo, io non sono pazzo, questo tesoro c’è, Dantès, e se non mi è stato concesso di possederlo, voi lo possederete in mia vece. Nessuno ha voluto darmi ascolto, nè aggiustarmi fede perchè fui giudicato pazzo; ma voi dovete sapere che tal non sono, ascoltatemi, e dopo credetemi se vi piace.
 
— Ahimè! mormorò Edmondo fra sè stesso, il malato ricade; mi mancava questa disgrazia. Indi alzando la voce:
 
— Amico mio, diss’egli a Faria, il vostro accesso forse vi ha stancato, non vorreste un po’ di riposo? domani se voi così desiderate, sentirò la vostra istoria; ma oggi pensate alla vostra salute; d’altra parte continuò egli sorridendo, un tesoro non deve ora importarci gran fatto.
 
— Deve importarci moltissimo, Edmondo, rispose il vecchio, chi sa che domani o doman l’altro non giunga il terzo accesso; allora tutto sarebbe finito... Sì, è vero, io qualche volta ho pensato con un amaro piacere a queste ricchezze che farebbero la fortuna di dieci famiglie; [81] perdute per coloro che mi perseguitano: quest’idea mi serviva di vendetta ed io l’assaporava lentamente nella oscurità della mia segreta e nella disperazione della mia prigionia: ma ora che vi vedo giovine e pieno di speranza, ora che penso a tutto quel che può resultarne di felicità a voi in conseguenza della mia rivelazione, io fremo pel ritardo, e tremo di non potere assicurare un proprietario tanto degno quanto voi il siete a queste immense ricchezze nascoste.
 
(Edmondo volse altrove la testa sospirando).
 
— Voi persistete nella vostra incredulità, Edmondo, continuò Faria; la mia voce non vi ha convinto. Vedo che vi abbisognano delle prove. Ebbene leggete questo foglio che non ho fatto mai vedere ad alcuno.
 
— Domani, amico mio, disse Edmondo, bramando schivarsi a secondare la follia del vecchio. Io credeva che fosse già stabilito fra noi di non parlarne che domani?
 
— Ebbene, ne parleremo domani, ma oggi leggete questo foglio.
 
— Non l’irritiamo di più, pensò Edmondo. E prendendo la carta di cui mancava la metà, che sembrava essere stata consunta da qualche accidente, egli lesse...
 
— Ebbene? disse Faria, quando il giovine ebbe finita la lettura.
 
— Ma, rispose Dantès, non leggo che righe troncate, che parole senza senso; i caratteri sono interrotti dall’azione del fuoco e restano inintelligibili.
 
— Per voi, amico mio, che li leggete per la prima volta, ma non per me che vi ho impallidito sopra per ben molte notti, e che ho ricostruita ogni frase, e compiuto ogni pensiero.
 
— E credete aver ritrovato questo senso troncato?
 
— Ne son sicuro; ne giudicherete da voi stesso; ma dapprima ascoltate la storia di questa carta.
 
— Silenzio! gridò Dantès; dei passi!... qualcuno si avvicina... io parto... addio! e Dantès, fortunato di poter fuggire alla storia ed alla spiegazione che non gli avrebbero che maggiormente confermato la infelicità del suo amico, fuggì per lo stretto andito, nel mentre che Faria acquistando una specie di attività dal terrore, spinse col piede la pietra che ricuoprì colla stoia, a fine di nascondere allo sguardo la mancanza di continuità che non era stato in tempo di fare sparire.
 
Era il governatore che, essendo stato avvisato dal carceriere dell’accidente di Faria, veniva ad assicurarsi da sè stesso della sua gravità. Faria lo ricevette assiso, evitò qualunque gesto che potesse metterlo a rischio, e riuscì a nascondere al governatore che egli era stato colpito da una paralisi, che aveva fatta morta una metà della sua persona. Il suo timore si era che il governatore mosso a pietà di lui, non volesse farlo trasportare in una prigione più sana e non lo separasse in tal modo dal suo giovine compagno: ma fortunatamente non fu così: il governatore si ritirò convinto che il povero pazzo pel quale sentiva nel fondo del cuore un po’ di affezione, non era affetto che da una leggiera indisposizione.
 
In questo tempo, Edmondo, assiso sul letto e colla testa fra le mani, cercava di riordinare le sue idee; dacchè conosceva Faria avea sempre scorto in lui tanta ragione, e tanta logica, che non poteva comprendere come questa suprema saggezza su tutti i punti, potesse poi collegarsi coll’alienazione di mente sopra un sol punto: era Faria che s’ingannava sul suo tesoro? o erano gli uomini che s’ingannavano sul conto di Faria? Dantès restò nella sua cella tutto il giorno, non osando ritornare a visitare il suo amico. Egli cercava di allontanare così il momento in cui avrebbe acquistata la certezza che il compagno era pazzo; questa convinzione doveva essere spaventosa per lui. Ma verso sera, dopo l’ora dell’ordinaria visita, Faria, non vedendo più ritornare il giovine, tentò di superare lo spazio che lo divideva da lui. Edmondo rabbrividì sentendo gli sforzi dolorosi che faceva il vecchio per trascinarsi: la gamba era inerte: egli non poteva aiutarsi che con un sol braccio: fu perciò obbligato di tirarlo a sè, poichè certamente non sarebbe riuscito ad uscire solo per la stretta apertura che metteva nella camera di Dantès. — Eccomi implacabilmente risoluto a perseguitarvi, disse con un sorriso raggiante di benevolenza; voi avete creduto potere sfuggire alla mia munificenza, ma ciò non vi ha servito a niente. Ascoltatemi adunque. — Edmondo vedendo che non poteva più evitarlo, fece sedere il vecchio sul letto, e si pose vicino a lui sul suo sgabello. — Voi sapete, disse Faria, che io era il segretario, il famigliare, l’amico del conte Spada, l’ultimo dei principi di questo nome. Io devo a questo degno personaggio tutto ciò che ho provato di felicità in questa vita. Egli non era ricco, benchè le ricchezze di sua famiglia [82] fossero proverbiali, e che abbia spesse volte inteso dire: ricco come uno Spada. Ma egli, come la pubblica voce, viveva sotto questa riputazione di opulenza; il suo palazzo fu il mio Eden. Educai i suoi nipoti che morirono, e allora io dedicandomi con devozione a tutte le sue volontà, cercai rendergli quel che aveva fatto per me da dieci anni. La casa del conte non ebbe più segreti per me, io aveva soventi volte visto lo Spada scartabellare dei libri antichi, e sfogliare avidamente dei manoscritti antichi di famiglia tutti ricoperti di polvere. Un giorno che io gli rimproverava queste inutili veglie, e la specie di abbattimento che le seguiva, egli mi guardò sorridendo amaramente, e mi aprì un libro che era la storia d’Italia. Al capitolo XX della medesima stava scritto:
 
«Cesare Borgia prese d’assalto Sinigaglia, che apparteneva a Francesco Maria della Rovere; il giorno stesso della vittoria, chiamò a pranzo tutti i condottieri del suo esercito, ed a seconda che entravano nella sala del convito, non avendo più bisogno di loro e temendo qualche lega che potesse inceppargli la vittoria nella Romagna, fece a tutti l’un dopo l’altro tagliar la testa sul limitare della porta. Così morì Vitellozzo Vitelli signore di Città di Castello, Oliverotto signore di Fermo, Paolo Orsini Duca di Gravina, Francesco di Todi, Guido Spada ecc.»
 
«Dopo questa lettura, egli mi favellò così:
 
«Guido Spada non aveva potuto disimpegnarsi dal collegare le sue bande con quelle di Cesare Borgia, quando si portò ad invadere la Romagna, temendo che un rifiuto non solo gli potesse costar la vita, ma la perdita di quegl’immensi beni di cui era ritenuto possessore, e che, conservava colla più grande importanza per trasmetterli ad un nipote che amava qual figlio. Quando Guido Spada, dopo la vittoria di Sinigaglia, ricevette l’invito al pranzo di Borgia egli sospettò il tradimento che veniva ordito, ed accorgendosi omai che ancorchè non fosse andato al convito la sua vita era sempre in balia del Borgia trovandosi in mezzo alle sue genti, si limitò a spedire un messaggio al nipote in Roma per avvertirlo del luogo ove egli teneva il suo testamento. Il messaggiero, la cui partenza era stata spiata, fu ucciso in cammino, ma non gli fu ritrovato altro foglio se non che uno scritto dello Spada in cui diceva: «Lascio al mio nipote amatissimo le mie stoviglie ed i miei libri, fra i quali la mia Bibbia ad angoli d’oro desiderando ch’egli la conservi quale ricordo del suo affezionatissimo zio.»
 
«Gli eredi cercarono in ogni luogo, ammirarono la Bibbia, fecero man bassa sui mobili, e si meravigliarono che Spada, l’uomo ricco, non fosse in effetti che il più miserabile degli zii; nessun tesoro fu rinvenuto, se pure non vogliansi chiamare tesori le scienze racchiuse nella biblioteca e nel laboratorio chimico.
 
«Il messaggiero che era stato assassinato in viaggio, ebbe tempo prima di morire, di dire ad un sacerdote, che prestavagli gli ultimi uffici di religione innanzi la chiesetta presso la quale fu aggredito, che facesse sapere al nipote di Guido Spada in tutta secretezza, che vi avrebbe certamente trovato il testamento. Il sacerdote eseguì questo estremo desiderio del trafitto: e fu dopo questo annunzio che si raddoppiarono più attivamente ancora le ricerche: ma tutto fu invano. Non restarono al nipote che due palazzi, ed una villa dietro al Palatino, ed un migliaio circa di scudi in argenteria, ed altrettanto in moneta contante. La famiglia Spada non riprese più il lustro di prima e rimase dubbia la loro fortuna; un mistero eterno pesò sopra questa faccenda, e la pubblica fama fe’ credere, che Cesare Borgia avesse ritrovato i tesori della famiglia Spada nella tenda di Guido sotto le mura di Sinigaglia.»
 
— Fin qui, interruppe Faria, sorridendo, non vi sembrerà che questo racconto sia privo di senno?
 
— Oh! amico mio, disse Dantès, mi sembra, al contrario, di leggere una cronaca importantissima, continuate.
 
— La famiglia si accostumò a questa oscurità, gli anni si successero. Fra i discendenti, alcuni furono soldati, altri diplomatici; alcuni furono ecclesiastici, altri banchieri; alcuni si arricchirono, altri finirono di rovinarsi. Ma veniamo all’ultimo della famiglia, a quello di cui io fui segretario, al conte Spada. Io lo aveva spesso sentito lamentarsi della sproporzione del suo grado colla sua fortuna, per cui lo aveva consigliato di porre i pochi beni che gli restavano in rendita vitalizia; ascoltò il mio consiglio, e per tal modo raddoppiò le sue rendite. La famosa Bibbia ad angoli d’oro era rimasta in famiglia, ed il conte Spada la possedeva: fu conservata di padre in figlio, perchè la clausola bizzarra del solo testamento che si conobbe, ne aveva formata una vera reliquia custodita con una superstiziosa venerazione [83] in famiglia. Era quel libro illustrato da magnifiche miniature gotiche e così pesante per l’oro, che vi voleva un leggio per poterne far uso. Alla vista delle carte di ogni specie, titoli, contratti, pergamene, che venivano custodite negli archivii della famiglia e che derivavano da Guido Spada, io mi misi a mia volta al par di venti servitori, di venti intendenti e venti segretarii che mi avevano preceduto, ad esaminare queste filze formidabili. Ad onta dell’attività e della precisione delle mie ricerche, io non ritrovai assolutamente niente. Frattanto aveva letta ed anche scritta una storia esatta delle effemeridi della famiglia Borgia, nel solo scopo di assicurarmi se fosse stata aggiunta alla famiglia di questi Principi qualche gran fortuna dopo la morte di Guido Spada, e mai non potei osservare altro se non l’addizione dei beni degli altri condottieri con lui decollati, che furono ben presto esauriti nelle guerre della Romagna.
 
«Ero dunque quasi sicuro che nè Cesare Borgia, nè la sua famiglia si erano impadroniti delle immense fortune di cui si credevano possessori gli Spada, ma che queste, se pur vi erano, rimasero senza padrone, come quei tesori delle favole arabe che dormono nel seno della terra, sotto la custodia di un genio. Io sfogliai, contai, calcolai le mille e mille volte le rendite e le spese della famiglia da trecento anni in poi, e tutto fu inutile. Confrontai questi calcoli colle spese e le rendite prima dell’avvenimento di Guido, e vi trovai una incalcolabile differenza; ciò nonostante tutto riuscì inutile, io restai nella mia ignoranza ed il conte Spada nella sua miseria.
 
«Il mio padrone morì. Dal suo contratto vitalizio egli non aveva eccettuate che le sue carte di famiglia, la biblioteca composta di cinque mila volumi e la famosa Bibbia; mi lasciò legatario di tutto questo, unitamente ad un migliaio di scudi romani che possedeva in denaro contante colla condizione di fargli dire delle messe nell’anniversario della sua morte, di formare un albero genealogico della sua famiglia e di scrivere una storia della medesima, il che ho fatto esattamente...
 
«Tranquillizzatevi, Edmondo, ci accostiamo alla fine.
 
«Nel 1807, un mese prima del mio arresto, e quindici giorni dopo la morte del conte Spada, era il 25 di dicembre, (vedrete in breve in qual modo questa data memorabile mi sia rimasta in mente) io rileggeva per la centesima volta queste carte che metteva in ordine, perchè appartenendo oramai il palazzo ad uno straniero, io stavo per lasciare Roma e stabilirmi a Firenze portando meco una certa quantità di libri, la mia biblioteca e la famosa Bibbia, allorchè stanco da questo continuo studio, e indisposto per un pranzo indigesto, lasciava cadere la testa sopra le mani e mi addormiva. Erano tre ore dopo mezzogiorno: mi svegliai; la pendola batteva le sei: alzai la testa e mi trovai nella più profonda oscurità. Suonai perchè mi si portasse il lume, non venne alcuno. Risolvetti allora di servirmi da me; quest’era d’altra parte un’abitudine da filosofo che mi abbisognava di adottare. Presi con una mano la bugìa che era sul tavolo, coll’altra non ritrovando solfanelli cercai un po’ di carta che mi avvisava di accendere ad un resto di fuoco rimasto nel caminetto; ma nell’oscurità temendo di prendere una carta preziosa invece di un foglio inutile, esitai; allora mi risovvenni di aver veduto nella famosa Bibbia che era sulla tavola, vicino a me, un vecchio foglio tutto ingiallito che sembrava aver servito di segno al luogo ove si cessava la lettura, e che aveva traversato i secoli, mantenuto al suo posto dalla venerazione degli eredi. Io cercai a tastoni quest’inutil foglio, lo trovai, lo contorsi, lo presentai alla fiamma moribonda e lo accesi; ma sotto le dita, come per magìa, a seconda che il fuoco saliva io vidi dei caratteri giallastri uscir dalla carta e comparire sul foglio. Allora fui preso da terrore; serrai fra le mani il foglio, spensi il fuoco, accesi la bugìa alla bracia; riaprii con indicibile emozione il foglio ripiegato, e riconobbi che un inchiostro misterioso e simpatico aveva tracciato quelle lettere apparse soltanto al contatto del vivo calore; poco più di un terzo del foglio era stato consumato dalla fiamma. Egli è quel foglio che voi avete letto questa mattina. Rileggetelo Dantès; poi quando lo avrete riletto io vi compierò le frasi interrotte e il senso incompiuto; — e Faria, trionfante, aprì il foglio a Dantès che questa volta lesse avidamente le parole seguenti, tracciate con un inchiostro color di ruggine;
 
«Essendo costretto per lo mio me
di seguire in un con le
gia nella guerra di Romagna, e
parato a qualunque tradimento p
cipe, dichiaro a mio nipote
erede universale che ho
per aver visitato con me
isola di Monte-Cristo, tutto quanto
[84]
preziose, diamanti, argenterie
per il valore circa di due
troverà passando la ventesima
dell’Est in linea retta. Due aper
in queste grotte il tesoro sta nell’angolo
qual tesoro lascio a lui e cedo
solo erede.»
«28 Marzo 1492.
«Guid
— Ora, riprese Faria, leggete quest’altra carta. — E presentò a Dantès un altro foglio, con altri frammenti di righe.
 
— Adesso, diss’egli, veduto Dantès che aveva letto fino all’ultima linea, ravvicinate i due frammenti, e giudicate.
 
Dantès obbedì, ravvicinati i due frammenti, davano il seguente assieme.
 
«Essendo costretto per lo mio meglio
di seguire in un con le mie genti Cesare Bor-
gia nella guerra di Romagna, e dovendo essere pre-
parato a qualunque tradimento per parte di questo prin-
cipe, dichiaro a mio nipote Giulio Spada, mio
erede universale, che ho nascosto in una direzione che egli conosce,
per aver visitato con me, cioè nell’
isola di Monte-Cristo, tutto quanto io possedo in pietre
preziose, diamanti, argenterie, che solo io conosco questo tesoro
per il valore circa di due milioni di scudi romani, e che egli
troverà passando la ventesima pietra della roccia a partirsi dal seno
dell’Est in linea retta. Due aperture sono state praticate
in queste grotte; il tesoro sta nell’angolo
più lontano della seconda, il
qual tesoro lascio a lui e cedo in tutto come mio
solo erede.»
28 Marzo 1492.
«Guido Spada.
— Ebbene! capite finalmente? disse Faria.
 
— È la dichiarazione di Guido Spada, è il testamento che fu cercato per sì gran tempo, disse Edmondo ancora incredulo.
 
— Sì, mille volte sì.
 
— E chi l’ha ricostruito in tal modo?
 
— Io che coll’aiuto del frammento restato, ho indovinato il resto misurando la lunghezza delle linee con quella della carta e penetrando nel senso nascosto col mezzo visibile, come uno si guida in un sotterraneo con un residuo di luce che gli venga dall’alto.
 
— E che faceste quando avete creduto di acquistare questa cognizione?
 
— Voleva partir subito, ed anzi sono partito sul momento, portando meco il principio della mia grand’opera filosofica, ma la polizia imperiale che conosceva i miei principi teneva gli occhi aperti sopra di me. La mia partenza precipitata, della quale non poteva conoscere la causa, svegliò dei sospetti, e al momento in cui io stava per imbarcarmi a Piombino, venni arrestato... Ora, continuò Faria, guardando Dantès con un’espressione quasi paterna, ora, amico mio, voi ne sapete quanto me. Se noi ci salviamo insieme la metà del mio tesoro è vostra; se io muoio qui, e che voi vi salviate solo, vi appartiene in totalità.
 
— Ma, domandò Dantès con esitazione, questo tesoro non ha egli nel mondo possessori più legittimi di noi?
 
— No, no, rassicuratevi; la vera famiglia Spada è estinta compiutamente. D’altra parte l’ultimo dei conti Spada mi ha dichiarato suo erede, e nel lasciarmi per legato questa Bibbia simbolica mi ha pur lasciato tutto ciò che conteneva. No, no, tranquillizzatevi, se noi un giorno potremo metter le mani sopra questa fortuna, potremo goderne senza rimorsi.
 
— E dite voi che questo tesoro racchiude...
 
— Due milioni di scudi romani, circa 13 milioni di franchi.
 
— Impossibile! disse Dantès, spaventato dall’enormità della somma.
 
— Impossibile e perchè? rispose il vecchio. La famiglia Spada era una delle più antiche e delle più possenti famiglie del secolo XV. D’altra parte in quei tempi, in cui era sospesa ogni speculazione ed ogni industria, non erano rari questi ammassi di oro e di pietre; anche oggi giorno in Roma vi sono delle famiglie che muoiono di fame, e che hanno quasi un milione in diamanti e pietre preziose trasmesse per maggiorasco, che non possono essere alienate.
 
(Edmondo che credeva sognare, ondeggiava fra l’incredulità e la gioia). — Io non ho custodito per sì lungo tempo tal segreto con voi, continuò Faria, se non perchè prima volessi mettervi alla pruova e poi farvi una sorpresa. Se noi fossimo evasi prima del mio accesso di catalessi, vi avrei condotto a Monte-Cristo; ora, aggiunse egli con un sospiro, siete voi che mi condurrete.... Ebbene! Dantès, non mi ringraziate?
 
— Questo tesoro è vostro, amico mio, disse Dantès; egli appartiene a un solo, ed io non vi ho alcun diritto; io non sono neppure vostro parente.
 
 
— Voi siete mio figlio, Dantès! gridò il vecchio, voi siete il figlio della mia prigionia. Dedito interamente agli studi, mi era condannato al celibato; Dio vi ha inviato a me per consolare l’uomo che non è stato padre, e il prigioniero che non poteva esser libero. — E Faria tese il braccio che gli restava, al giovine, che gli si gettò al collo piangendo.Allorchè Dantès la dimane rientrò nella camera del suo compagno di prigionia, trovò Faria assiso, col viso sereno sotto il raggio che penetrava attraverso la stretta finestra della sua cella. Egli teneva aperto nella mano sinistra, la sola di cui gli era rimasto l’uso, un po’ di carta che per l’abitudine di restare avvolta sempre nello stesso modo aveva preso la forma di un cilindro ribelle a stendersi, e ch’ei mostrò a Dantès senza dire una parola.
 
— Che è ciò? domandò questi.
 
— Guardate bene, disse Faria sorridendo.
 
— Io lo sto osservando attentamente, disse Dantès, ma non vedo altro che un po’ di carta mezzo bruciata e sulla quale sono tracciati dei caratteri gotici con un inchiostro particolare.
 
— Questa carta, amico mio, disse Faria, è, ora ve lo posso confessare perchè vi ho sperimentato, questa carta è il mio tesoro, di cui da questo momento la metà è vostra!
 
Un freddo sudore passò sulla fronte di Dantès. Fino a quel giorno, e per uno spazio sì lungo di tempo, egli aveva sempre evitato di parlare a Faria di questo tesoro, origine dell’accusa di pazzia che gravava sul povero amico. Colla sua istintiva delicatezza, Edmondo aveva preferito di non toccare questa corda dolorosa; e Faria per sua parte si era taciuto; egli aveva preso il silenzio del vecchio per un ritorno alla ragione. Or quelle poche parole sfuggite a Faria, dopo una crisi così penosa, sembravano annunziare una grave ricaduta d’alienazione mentale.
 
— Vostro tesoro, balbettò Dantès. — (Faria sorrise).
 
— Sì, diss’egli; in ogni occasione voi siete un nobil cuore, Edmondo, e dal vostro pallore e dal vostro fremito comprendo ciò che passa per la vostra mente in questo punto. No, siate tranquillo, io non sono pazzo, questo tesoro c’è, Dantès, e se non mi è stato concesso di possederlo, voi lo possederete in mia vece. Nessuno ha voluto darmi ascolto, nè aggiustarmi fede perchè fui giudicato pazzo; ma voi dovete sapere che tal non sono, ascoltatemi, e dopo credetemi se vi piace.
 
— Ahimè! mormorò Edmondo fra sè stesso, il malato ricade; mi mancava questa disgrazia. Indi alzando la voce:
 
— Amico mio, diss’egli a Faria, il vostro accesso forse vi ha stancato, non vorreste un po’ di riposo? domani se voi così desiderate, sentirò la vostra istoria; ma oggi pensate alla vostra salute; d’altra parte continuò egli sorridendo, un tesoro non deve ora importarci gran fatto.
 
— Deve importarci moltissimo, Edmondo, rispose il vecchio, chi sa che domani o doman l’altro non giunga il terzo accesso; allora tutto sarebbe finito... Sì, è vero, io qualche volta ho pensato con un amaro piacere a queste ricchezze che farebbero la fortuna di dieci famiglie; [81] perdute per coloro che mi perseguitano: quest’idea mi serviva di vendetta ed io l’assaporava lentamente nella oscurità della mia segreta e nella disperazione della mia prigionia: ma ora che vi vedo giovine e pieno di speranza, ora che penso a tutto quel che può resultarne di felicità a voi in conseguenza della mia rivelazione, io fremo pel ritardo, e tremo di non potere assicurare un proprietario tanto degno quanto voi il siete a queste immense ricchezze nascoste.
 
(Edmondo volse altrove la testa sospirando).
 
— Voi persistete nella vostra incredulità, Edmondo, continuò Faria; la mia voce non vi ha convinto. Vedo che vi abbisognano delle prove. Ebbene leggete questo foglio che non ho fatto mai vedere ad alcuno.
 
— Domani, amico mio, disse Edmondo, bramando schivarsi a secondare la follia del vecchio. Io credeva che fosse già stabilito fra noi di non parlarne che domani?
 
— Ebbene, ne parleremo domani, ma oggi leggete questo foglio.
 
— Non l’irritiamo di più, pensò Edmondo. E prendendo la carta di cui mancava la metà, che sembrava essere stata consunta da qualche accidente, egli lesse...
 
— Ebbene? disse Faria, quando il giovine ebbe finita la lettura.
 
— Ma, rispose Dantès, non leggo che righe troncate, che parole senza senso; i caratteri sono interrotti dall’azione del fuoco e restano inintelligibili.
 
— Per voi, amico mio, che li leggete per la prima volta, ma non per me che vi ho impallidito sopra per ben molte notti, e che ho ricostruita ogni frase, e compiuto ogni pensiero.
 
— E credete aver ritrovato questo senso troncato?
 
— Ne son sicuro; ne giudicherete da voi stesso; ma dapprima ascoltate la storia di questa carta.
 
— Silenzio! gridò Dantès; dei passi!... qualcuno si avvicina... io parto... addio! e Dantès, fortunato di poter fuggire alla storia ed alla spiegazione che non gli avrebbero che maggiormente confermato la infelicità del suo amico, fuggì per lo stretto andito, nel mentre che Faria acquistando una specie di attività dal terrore, spinse col piede la pietra che ricuoprì colla stoia, a fine di nascondere allo sguardo la mancanza di continuità che non era stato in tempo di fare sparire.
 
Era il governatore che, essendo stato avvisato dal carceriere dell’accidente di Faria, veniva ad assicurarsi da sè stesso della sua gravità. Faria lo ricevette assiso, evitò qualunque gesto che potesse metterlo a rischio, e riuscì a nascondere al governatore che egli era stato colpito da una paralisi, che aveva fatta morta una metà della sua persona. Il suo timore si era che il governatore mosso a pietà di lui, non volesse farlo trasportare in una prigione più sana e non lo separasse in tal modo dal suo giovine compagno: ma fortunatamente non fu così: il governatore si ritirò convinto che il povero pazzo pel quale sentiva nel fondo del cuore un po’ di affezione, non era affetto che da una leggiera indisposizione.
 
In questo tempo, Edmondo, assiso sul letto e colla testa fra le mani, cercava di riordinare le sue idee; dacchè conosceva Faria avea sempre scorto in lui tanta ragione, e tanta logica, che non poteva comprendere come questa suprema saggezza su tutti i punti, potesse poi collegarsi coll’alienazione di mente sopra un sol punto: era Faria che s’ingannava sul suo tesoro? o erano gli uomini che s’ingannavano sul conto di Faria? Dantès restò nella sua cella tutto il giorno, non osando ritornare a visitare il suo amico. Egli cercava di allontanare così il momento in cui avrebbe acquistata la certezza che il compagno era pazzo; questa convinzione doveva essere spaventosa per lui. Ma verso sera, dopo l’ora dell’ordinaria visita, Faria, non vedendo più ritornare il giovine, tentò di superare lo spazio che lo divideva da lui. Edmondo rabbrividì sentendo gli sforzi dolorosi che faceva il vecchio per trascinarsi: la gamba era inerte: egli non poteva aiutarsi che con un sol braccio: fu perciò obbligato di tirarlo a sè, poichè certamente non sarebbe riuscito ad uscire solo per la stretta apertura che metteva nella camera di Dantès. — Eccomi implacabilmente risoluto a perseguitarvi, disse con un sorriso raggiante di benevolenza; voi avete creduto potere sfuggire alla mia munificenza, ma ciò non vi ha servito a niente. Ascoltatemi adunque. — Edmondo vedendo che non poteva più evitarlo, fece sedere il vecchio sul letto, e si pose vicino a lui sul suo sgabello. — Voi sapete, disse Faria, che io era il segretario, il famigliare, l’amico del conte Spada, l’ultimo dei principi di questo nome. Io devo a questo degno personaggio tutto ciò che ho provato di felicità in questa vita. Egli non era ricco, benchè le ricchezze di sua famiglia [82] fossero proverbiali, e che abbia spesse volte inteso dire: ricco come uno Spada. Ma egli, come la pubblica voce, viveva sotto questa riputazione di opulenza; il suo palazzo fu il mio Eden. Educai i suoi nipoti che morirono, e allora io dedicandomi con devozione a tutte le sue volontà, cercai rendergli quel che aveva fatto per me da dieci anni. La casa del conte non ebbe più segreti per me, io aveva soventi volte visto lo Spada scartabellare dei libri antichi, e sfogliare avidamente dei manoscritti antichi di famiglia tutti ricoperti di polvere. Un giorno che io gli rimproverava queste inutili veglie, e la specie di abbattimento che le seguiva, egli mi guardò sorridendo amaramente, e mi aprì un libro che era la storia d’Italia. Al capitolo XX della medesima stava scritto:
 
«Cesare Borgia prese d’assalto Sinigaglia, che apparteneva a Francesco Maria della Rovere; il giorno stesso della vittoria, chiamò a pranzo tutti i condottieri del suo esercito, ed a seconda che entravano nella sala del convito, non avendo più bisogno di loro e temendo qualche lega che potesse inceppargli la vittoria nella Romagna, fece a tutti l’un dopo l’altro tagliar la testa sul limitare della porta. Così morì Vitellozzo Vitelli signore di Città di Castello, Oliverotto signore di Fermo, Paolo Orsini Duca di Gravina, Francesco di Todi, Guido Spada ecc.»
 
«Dopo questa lettura, egli mi favellò così:
 
«Guido Spada non aveva potuto disimpegnarsi dal collegare le sue bande con quelle di Cesare Borgia, quando si portò ad invadere la Romagna, temendo che un rifiuto non solo gli potesse costar la vita, ma la perdita di quegl’immensi beni di cui era ritenuto possessore, e che, conservava colla più grande importanza per trasmetterli ad un nipote che amava qual figlio. Quando Guido Spada, dopo la vittoria di Sinigaglia, ricevette l’invito al pranzo di Borgia egli sospettò il tradimento che veniva ordito, ed accorgendosi omai che ancorchè non fosse andato al convito la sua vita era sempre in balia del Borgia trovandosi in mezzo alle sue genti, si limitò a spedire un messaggio al nipote in Roma per avvertirlo del luogo ove egli teneva il suo testamento. Il messaggiero, la cui partenza era stata spiata, fu ucciso in cammino, ma non gli fu ritrovato altro foglio se non che uno scritto dello Spada in cui diceva: «Lascio al mio nipote amatissimo le mie stoviglie ed i miei libri, fra i quali la mia Bibbia ad angoli d’oro desiderando ch’egli la conservi quale ricordo del suo affezionatissimo zio.»
 
«Gli eredi cercarono in ogni luogo, ammirarono la Bibbia, fecero man bassa sui mobili, e si meravigliarono che Spada, l’uomo ricco, non fosse in effetti che il più miserabile degli zii; nessun tesoro fu rinvenuto, se pure non vogliansi chiamare tesori le scienze racchiuse nella biblioteca e nel laboratorio chimico.
 
«Il messaggiero che era stato assassinato in viaggio, ebbe tempo prima di morire, di dire ad un sacerdote, che prestavagli gli ultimi uffici di religione innanzi la chiesetta presso la quale fu aggredito, che facesse sapere al nipote di Guido Spada in tutta secretezza, che vi avrebbe certamente trovato il testamento. Il sacerdote eseguì questo estremo desiderio del trafitto: e fu dopo questo annunzio che si raddoppiarono più attivamente ancora le ricerche: ma tutto fu invano. Non restarono al nipote che due palazzi, ed una villa dietro al Palatino, ed un migliaio circa di scudi in argenteria, ed altrettanto in moneta contante. La famiglia Spada non riprese più il lustro di prima e rimase dubbia la loro fortuna; un mistero eterno pesò sopra questa faccenda, e la pubblica fama fe’ credere, che Cesare Borgia avesse ritrovato i tesori della famiglia Spada nella tenda di Guido sotto le mura di Sinigaglia.»
 
— Fin qui, interruppe Faria, sorridendo, non vi sembrerà che questo racconto sia privo di senno?
 
— Oh! amico mio, disse Dantès, mi sembra, al contrario, di leggere una cronaca importantissima, continuate.
 
— La famiglia si accostumò a questa oscurità, gli anni si successero. Fra i discendenti, alcuni furono soldati, altri diplomatici; alcuni furono ecclesiastici, altri banchieri; alcuni si arricchirono, altri finirono di rovinarsi. Ma veniamo all’ultimo della famiglia, a quello di cui io fui segretario, al conte Spada. Io lo aveva spesso sentito lamentarsi della sproporzione del suo grado colla sua fortuna, per cui lo aveva consigliato di porre i pochi beni che gli restavano in rendita vitalizia; ascoltò il mio consiglio, e per tal modo raddoppiò le sue rendite. La famosa Bibbia ad angoli d’oro era rimasta in famiglia, ed il conte Spada la possedeva: fu conservata di padre in figlio, perchè la clausola bizzarra del solo testamento che si conobbe, ne aveva formata una vera reliquia custodita con una superstiziosa venerazione [83] in famiglia. Era quel libro illustrato da magnifiche miniature gotiche e così pesante per l’oro, che vi voleva un leggio per poterne far uso. Alla vista delle carte di ogni specie, titoli, contratti, pergamene, che venivano custodite negli archivii della famiglia e che derivavano da Guido Spada, io mi misi a mia volta al par di venti servitori, di venti intendenti e venti segretarii che mi avevano preceduto, ad esaminare queste filze formidabili. Ad onta dell’attività e della precisione delle mie ricerche, io non ritrovai assolutamente niente. Frattanto aveva letta ed anche scritta una storia esatta delle effemeridi della famiglia Borgia, nel solo scopo di assicurarmi se fosse stata aggiunta alla famiglia di questi Principi qualche gran fortuna dopo la morte di Guido Spada, e mai non potei osservare altro se non l’addizione dei beni degli altri condottieri con lui decollati, che furono ben presto esauriti nelle guerre della Romagna.
 
«Ero dunque quasi sicuro che nè Cesare Borgia, nè la sua famiglia si erano impadroniti delle immense fortune di cui si credevano possessori gli Spada, ma che queste, se pur vi erano, rimasero senza padrone, come quei tesori delle favole arabe che dormono nel seno della terra, sotto la custodia di un genio. Io sfogliai, contai, calcolai le mille e mille volte le rendite e le spese della famiglia da trecento anni in poi, e tutto fu inutile. Confrontai questi calcoli colle spese e le rendite prima dell’avvenimento di Guido, e vi trovai una incalcolabile differenza; ciò nonostante tutto riuscì inutile, io restai nella mia ignoranza ed il conte Spada nella sua miseria.
 
«Il mio padrone morì. Dal suo contratto vitalizio egli non aveva eccettuate che le sue carte di famiglia, la biblioteca composta di cinque mila volumi e la famosa Bibbia; mi lasciò legatario di tutto questo, unitamente ad un migliaio di scudi romani che possedeva in denaro contante colla condizione di fargli dire delle messe nell’anniversario della sua morte, di formare un albero genealogico della sua famiglia e di scrivere una storia della medesima, il che ho fatto esattamente...
 
«Tranquillizzatevi, Edmondo, ci accostiamo alla fine.
 
«Nel 1807, un mese prima del mio arresto, e quindici giorni dopo la morte del conte Spada, era il 25 di dicembre, (vedrete in breve in qual modo questa data memorabile mi sia rimasta in mente) io rileggeva per la centesima volta queste carte che metteva in ordine, perchè appartenendo oramai il palazzo ad uno straniero, io stavo per lasciare Roma e stabilirmi a Firenze portando meco una certa quantità di libri, la mia biblioteca e la famosa Bibbia, allorchè stanco da questo continuo studio, e indisposto per un pranzo indigesto, lasciava cadere la testa sopra le mani e mi addormiva. Erano tre ore dopo mezzogiorno: mi svegliai; la pendola batteva le sei: alzai la testa e mi trovai nella più profonda oscurità. Suonai perchè mi si portasse il lume, non venne alcuno. Risolvetti allora di servirmi da me; quest’era d’altra parte un’abitudine da filosofo che mi abbisognava di adottare. Presi con una mano la bugìa che era sul tavolo, coll’altra non ritrovando solfanelli cercai un po’ di carta che mi avvisava di accendere ad un resto di fuoco rimasto nel caminetto; ma nell’oscurità temendo di prendere una carta preziosa invece di un foglio inutile, esitai; allora mi risovvenni di aver veduto nella famosa Bibbia che era sulla tavola, vicino a me, un vecchio foglio tutto ingiallito che sembrava aver servito di segno al luogo ove si cessava la lettura, e che aveva traversato i secoli, mantenuto al suo posto dalla venerazione degli eredi. Io cercai a tastoni quest’inutil foglio, lo trovai, lo contorsi, lo presentai alla fiamma moribonda e lo accesi; ma sotto le dita, come per magìa, a seconda che il fuoco saliva io vidi dei caratteri giallastri uscir dalla carta e comparire sul foglio. Allora fui preso da terrore; serrai fra le mani il foglio, spensi il fuoco, accesi la bugìa alla bracia; riaprii con indicibile emozione il foglio ripiegato, e riconobbi che un inchiostro misterioso e simpatico aveva tracciato quelle lettere apparse soltanto al contatto del vivo calore; poco più di un terzo del foglio era stato consumato dalla fiamma. Egli è quel foglio che voi avete letto questa mattina. Rileggetelo Dantès; poi quando lo avrete riletto io vi compierò le frasi interrotte e il senso incompiuto; — e Faria, trionfante, aprì il foglio a Dantès che questa volta lesse avidamente le parole seguenti, tracciate con un inchiostro color di ruggine;
 
«Essendo costretto per lo mio me
di seguire in un con le
gia nella guerra di Romagna, e
parato a qualunque tradimento p
cipe, dichiaro a mio nipote
erede universale che ho
per aver visitato con me
isola di Monte-Cristo, tutto quanto
[84]
preziose, diamanti, argenterie
per il valore circa di due
troverà passando la ventesima
dell’Est in linea retta. Due aper
in queste grotte il tesoro sta nell’angolo
qual tesoro lascio a lui e cedo
solo erede.»
«28 Marzo 1492.
«Guid
— Ora, riprese Faria, leggete quest’altra carta. — E presentò a Dantès un altro foglio, con altri frammenti di righe.
 
— Adesso, diss’egli, veduto Dantès che aveva letto fino all’ultima linea, ravvicinate i due frammenti, e giudicate.
 
Dantès obbedì, ravvicinati i due frammenti, davano il seguente assieme.
 
«Essendo costretto per lo mio meglio
di seguire in un con le mie genti Cesare Bor-
gia nella guerra di Romagna, e dovendo essere pre-
parato a qualunque tradimento per parte di questo prin-
cipe, dichiaro a mio nipote Giulio Spada, mio
erede universale, che ho nascosto in una direzione che egli conosce,
per aver visitato con me, cioè nell’
isola di Monte-Cristo, tutto quanto io possedo in pietre
preziose, diamanti, argenterie, che solo io conosco questo tesoro
per il valore circa di due milioni di scudi romani, e che egli
troverà passando la ventesima pietra della roccia a partirsi dal seno
dell’Est in linea retta. Due aperture sono state praticate
in queste grotte; il tesoro sta nell’angolo
più lontano della seconda, il
qual tesoro lascio a lui e cedo in tutto come mio
solo erede.»
28 Marzo 1492.
«Guido Spada.
— Ebbene! capite finalmente? disse Faria.
 
— È la dichiarazione di Guido Spada, è il testamento che fu cercato per sì gran tempo, disse Edmondo ancora incredulo.
 
— Sì, mille volte sì.
 
— E chi l’ha ricostruito in tal modo?
 
— Io che coll’aiuto del frammento restato, ho indovinato il resto misurando la lunghezza delle linee con quella della carta e penetrando nel senso nascosto col mezzo visibile, come uno si guida in un sotterraneo con un residuo di luce che gli venga dall’alto.
 
— E che faceste quando avete creduto di acquistare questa cognizione?
 
— Voleva partir subito, ed anzi sono partito sul momento, portando meco il principio della mia grand’opera filosofica, ma la polizia imperiale che conosceva i miei principi teneva gli occhi aperti sopra di me. La mia partenza precipitata, della quale non poteva conoscere la causa, svegliò dei sospetti, e al momento in cui io stava per imbarcarmi a Piombino, venni arrestato... Ora, continuò Faria, guardando Dantès con un’espressione quasi paterna, ora, amico mio, voi ne sapete quanto me. Se noi ci salviamo insieme la metà del mio tesoro è vostra; se io muoio qui, e che voi vi salviate solo, vi appartiene in totalità.
 
— Ma, domandò Dantès con esitazione, questo tesoro non ha egli nel mondo possessori più legittimi di noi?
 
— No, no, rassicuratevi; la vera famiglia Spada è estinta compiutamente. D’altra parte l’ultimo dei conti Spada mi ha dichiarato suo erede, e nel lasciarmi per legato questa Bibbia simbolica mi ha pur lasciato tutto ciò che conteneva. No, no, tranquillizzatevi, se noi un giorno potremo metter le mani sopra questa fortuna, potremo goderne senza rimorsi.
 
— E dite voi che questo tesoro racchiude...
 
— Due milioni di scudi romani, circa 13 milioni di franchi.
 
— Impossibile! disse Dantès, spaventato dall’enormità della somma.
 
— Impossibile e perchè? rispose il vecchio. La famiglia Spada era una delle più antiche e delle più possenti famiglie del secolo XV. D’altra parte in quei tempi, in cui era sospesa ogni speculazione ed ogni industria, non erano rari questi ammassi di oro e di pietre; anche oggi giorno in Roma vi sono delle famiglie che muoiono di fame, e che hanno quasi un milione in diamanti e pietre preziose trasmesse per maggiorasco, che non possono essere alienate.
 
(Edmondo che credeva sognare, ondeggiava fra l’incredulità e la gioia). — Io non ho custodito per sì lungo tempo tal segreto con voi, continuò Faria, se non perchè prima volessi mettervi alla pruova e poi farvi una sorpresa. Se noi fossimo evasi prima del mio accesso di catalessi, vi avrei condotto a Monte-Cristo; ora, aggiunse egli con un sospiro, siete voi che mi condurrete.... Ebbene! Dantès, non mi ringraziate?
 
— Questo tesoro è vostro, amico mio, disse Dantès; egli appartiene a un solo, ed io non vi ho alcun diritto; io non sono neppure vostro parente.
 
 
— Voi siete mio figlio, Dantès! gridò il vecchio, voi siete il figlio della mia prigionia. Dedito interamente agli studi, mi era condannato al celibato; Dio vi ha inviato a me per consolare l’uomo che non è stato padre, e il prigioniero che non poteva esser libero. — E Faria tese il braccio che gli restava, al giovine, che gli si gettò al collo piangendo.
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