Non prese che il tempo di respirare, e s’immerse una seconda volta, perchè la prima cautela che doveva prendere, era quella di evitare l’attenzione delle guardie.
Quando ricomparve una seconda volta, era già lontano una cinquantina di passi dal luogo della sua caduta: vide al di sopra della testa un cielo nero e tempestoso, alla superficie del quale il vento faceva scorrere rapidamente le nubi, scoprendo ad intervalli qualche piccolo punto azzurro illuminato da una stella: a sè d’innanzi si presentava la tetra e muggente pianura delle onde, che cominciavano ad accavallarsi, come segno di vicina tempesta, mentre che al di dietro, più nero del mare, e del cielo, s’inalzava, come un fantasma minaccioso, il gigante di granito di cui la tetra punta sembrava un braccio steso per riafferrar la sua preda.
Sullo scoglio più alto vide un lanternone che rischiarava due ombre. Gli sembrava che queste fossero inchinate sul mare con inquietezza. Infatto questi due strani becchini dovevano avere inteso il grido ch’egli aveva emesso nel traversare lo spazio. Dantès s’immerse di nuovo, e fece un lungo tragitto sott’acqua. Questa manovra gli era stata altra volta familiare, e nel seno del Faro gli attirava d’ordinario molti ammiratori che lo avevano soventi volte proclamato il più abile nuotatore di Marsiglia.
Allora ritornò alla superficie del mare, il lanternone era disparso. Gli abbisognava orizzontarsi. Fra le isole che circondano il castello d’If le più vicine sono Ratonneau, e Pomègue; ma esse sono abitate, al pari della piccola isola di Daume. La più sicura era dunque quella di Tiboulen o di Lemaire, distanti una lega dal castello d’If.
Non per questo Dantès si astenne da risolversi a voler raggiungere una di queste due. Ma come ritrovarle in mezzo ad una notte, che s’imbruniva sempre più a sè d’attorno? In questo momento vide brillare come una stella il faro di Planier. Dirigendosi in linea retta ad esso lasciava l’isola di Tiboulen un po’ a sinistra; tenendosi dunque verso quella parte doveva incontrare cammino facendo questa isola. Ma come abbiam già detto, vi era una lega almeno dal castello d’If all’isola.
Faria, nella prigione, aveva spesse volte ripetuto al giovine, vedendolo afflitto ed ozioso: «Dantès, non vi lasciate andare a questa mollezza, voi vi annegherete, se tenterete di fuggire poiché le vostre forze non saranno state in esercizio.» Sotto l’onda pesante ed amara, queste parole erano venute a risuonare alle orecchie di Dantès; egli si era sollecitato allora di risalir e di fendere le onde per vedere, se avesse davvero perdute le forze; e si accorse con gioia che [93] la sua obbligata inazione nulla gli aveva tolto del suo vigore e della sua agilità, convincendosi che era ancor padrone di quell’elemento di cui si era fatto giuoco fin dall’infanzia. D’altra parte la paura, questa rapida persecutrice, raddoppiava il vigore di Dantès. Egli ascoltava, sospeso sulla cima dei flutti, se qualche rumore gli giungesse all’orecchio. Ogni volta che s’innalzava all’apice di un’onda il suo sguardo rapido percorreva il visibile orizzonte, e tentava di fendere la spessezza dell’oscurità. Ogni onda più alta delle altre gli pareva una barca che lo perseguitasse; e allora raddoppiava di sforzi, che sebben lo allontanavano, ripetuti più e più volte dovevano ben presto estenuarne le forze.
Egli ciò nonostante nuotava, e già il terribile castello si perdeva nel vapore notturno. Non lo distingueva più, ma lo sentiva. Passò un’ora nella quale Dantès esaltato dal sentimento di libertà che lo dominava, continuò a fendere i flutti nella direzione che aveva stabilito.
— Vediamo, diceva tra sè, ecco ben presto un’ora che nuoto; ma siccome il vento mi è contrario, così ho dovuto perdere un quarto della mia rapidità. Frattanto, ammenocchè non abbia sbagliata la linea, ora non devo esser molto lungi da Tiboulen... ma se mi fossi sbagliato! — Un fremito invase il corpo del nuotatore. Egli tentò di fare per un poco il morto, affine di riposarsi; ma il mare diveniva sempre più forte, e così ben presto anche questo mezzo di sollievo, sul quale egli aveva fidato, gli addiveniva impossibile.
— Ebbene! diss’egli, sia; nuoterò sino alla fine, fin che le braccia si stanchino, fin che le gambe s’irrigidiscano, finchè i granchi invadano il mio corpo, ed allora calerò a fondo.
Si rimise a nuotare colla forza e l’impulsione del disperato. D’improvviso gli sembrò che il cielo, di già tetro, si oscurasse ancor più, che una nube fitta, pesante, compatta, si abbassasse verso di lui; nel medesimo punto sentì un forte dolore al ginocchio. L’immaginazione, colla sua incalcolabile prestezza gli disse allora, che quello era l’urto di una palla, e che immediatamente avrebbe sentito l’esplosione del colpo di fucile, ma questa non rintronò. Dantès allungò la mano, e sentì una resistenza. Ritirò l’altra gamba a sè, e toccò la terra: vide allora che cosa era l’oggetto che creduto aveva una nube. A venti passi da lui s’inalzava un mucchio di scogli a forme bizzarre che si sarebbero presi per immenso spazio di fiamme pietrificate al momento della loro più ardente combustione. Era l’isola di Tiboulen.
Dantès si rialzò, fece qualche passo innanzi, e si stese, ringraziando Dio, su quelle punte di granito che gli sembrarono in quell’ora più morbide del più soffice letto. Quindi ad onta del vento, della tempesta, e della pioggia che cominciava a cadere, stanco e affaticato com’era, si addormentò di quel delizioso sonno dell’uomo, il capo del quale diventa inerte, ma di cui l’anima veglia nella conoscenza di una felicità inattesa. Di là ad un’ora, Edmondo si risvegliò all’immenso fragore di un tuono; la tempesta si era scatenata nello spazio, e batteva l’aere col suo volo romoreggiante. A quando a quando un lampo discendeva dal cielo, come un serpente di fuoco, ed illuminava i flutti che si accavalcavano gli uni sugli altri come i vortici di un immenso caos.
Dantès, coll’occhio di esperto marinaio, non si era ingannato: aveva approdato alla prima delle due isole, quella di Tiboulen; la sapeva nuda, scoperta e senza offerire il più piccolo asilo. Ma quando la tempesta sarebbe cessata, egli si rimetterebbe in mare per raggiungere nuotando l’isola di Lemaire, egualmente arida, ma più larga e per conseguenza più ospitaliera. Una roccia che si trovava alquanto sporgente, offrì un momentaneo asilo a Dantès; egli vi si rifugiò, e quasi nel medesimo punto la tempesta scoppiò con tutto il suo furore. Edmondo sentiva tremare la roccia sotto la quale si era messo al coperto, e i flutti che s’infrangevano contro la base della gigantesca piramide giungevano a spruzzarlo. Per quanto fosse al sicuro, era in mezzo a questo profondo fracasso, ed a questi folgoranti bagliori, preso da una specie di vertigine. Gli sembrava che l’isola tremasse sotto di lui, e da un momento all’altro andasse, come un immenso vascello all’ancora, a spezzare il suo fondo, o ad essere inghiottito nell’immensa voragine. Si ricordò allora che non aveva mangiato da ventiquattr’ore: aveva fame e sete! Stese le mani e la testa, e bevè l’acqua della tempesta che colava a rivi dallo scoglio.
Quando si rialzò, un baleno che sembrava squarciasse il cielo fino al trono abbagliante di Dio, illuminò lo spazio. Alla luce di questo, Dantès, fra l’isola di Lemaire e il capo Crosoille, a un quarto di lega, vide a guisa di uno spettro [94] scivolare dall’alto di un flutto al fondo di un abisso, una barca pescareccia trasportata ad un tempo dall’uragano, e da l’onda. Dopo un minuto secondo comparve il fantasma sulla cima di un altro flutto avvicinandosi con una celerità spaventevole. Dantès volle gridare, cercò qualche straccio di tela per agitarlo nell’aria e fare loro conoscere che essi stavano per perdersi: ma lo vedevano da sè stessi. Al chiarore di un altro lampo il giovine vide quattro uomini aggrappati all’albero ed alle funi; un quinto si teneva attaccato al manolaio del timone già rotto. Questi uomini che egli vedeva, il videro del pari poichè grida disperate, e trasportate dalla fischiante bufera gli giunsero all’orecchio. Al di sopra dell’albero troncato come un ramoscello, si agitavano a colpi ripetuti e frequenti gli avanzi di una vela in pezzi. D’improvviso le funi che ancora la trattenevano si ruppero, e disparve trasportata sotto la cupa profondità del cielo a guisa di quei grandi uccelli bianchi che compariscono sotto le nere nubi. Nello stesso tempo uno scroscio orribile s’intese, e le grida di agonia giunsero fino a Dantès. Aggrappato allo scoglio di dove guardava l’abisso, un nuovo lampo gli mostrò il piccolo bastimento in pezzi e fra gli avanzi delle teste col viso disperato, delle braccia stese verso il cielo. Quindi tutto ritornò nella notte.
Il terribile spettacolo durò quanto un lampo.
Dantès si precipitò sul pendio sdrucciolevole delle rocce col pericolo di rotolar nel mare. Guardò, ascoltò, ma non intese, nè vide più nulla. Non più grida, non più sforzi umani, la sola tempesta, questo grande spettacolo della natura, continuava a ruggire coi venti, a spumeggiare coi flutti. Un poco per volta il vento si acquetò, il cielo spinse verso occidente i grossi nuvoloni grigi, per così dire, slacciati dall’uragano; ricomparvero le stelle più brillanti che mai, ben presto verso l’est, una lunga striscia rossastra disegnò sull’orizzonte delle ondulazioni di un azzurro nero, queste si commossero, una subita luce corse sulle loro cime, e ne cangiò le vette spumeggianti in criniere dorate. Era giorno.
Dantès restò immobile e muto davanti a così grande spettacolo, come se fosse la prima volta che lo vedeva; difatto egli lo aveva dimenticato pel lungo tempo trascorso nel castello d’If. Si rivolse alla fortezza, interrogando, con un lungo sguardo circolare, la terra ad un tempo ed il mare. Il tetro fabbricato usciva dal seno delle onde con quella imponente maestà propria delle cose immobili che sembrano comandare insieme e vigilare. Potevano essere le cinque del mattino; il mare continuava a calmarsi. Fra due o tre ore, rifletteva Edmondo, il carceriere rientrerà nella mia camera, troverà il cadavere del povero mio amico, lo riconoscerà, mi cercherà invano, griderà all’arme; allora scopriranno il foro ed il passaggio sotterraneo; verranno interrogati quegli che mi slanciarono in mare, che devono avere inteso il grido che gettai. Subito tutte le barche riempite di soldati armati, correranno dietro il disgraziato fuggitivo che sapran bene non potere esser lontano, il cannone avvertirà tutta la costa esser proibito di dare asilo ad un uomo che verrà incontrato errante, nudo, affamato. Le spie e i birri di Marsiglia saranno avvertiti, e percorreranno la costa, nel mentre che il governatore del castello d’If farà percorrere il mare. Allora perseguitato nell’acqua, circondato sulla terra che accadrà di me? ho fame, ho freddo, ho perfino abbandonato il coltello salvatore che mi era d’impaccio per poter nuotare: sono all’arbitrio del primo che vorrà guadagnare 20 fr. per consegnarmi; non ho più nè forza, nè idee, nè risoluzione. Oh! mio Dio! mio Dio! voi sapete se ho sofferto, e se voi potete far più per me di quello che non ho potuto far io stesso!
Nel momento in cui Edmondo, in una specie di delirio causato dallo spossamento delle forze, e dal vuoto del cervello, ansiosamente rivolto verso il castello d’If pronunciava quest’ardente preghiera, vide comparir sulla punta dell’isola di Pomègue, spiegando la vela latina un piccolo bastimento, che soltanto l’occhio di un marinaro poteva discernere essere una tartana genovese, sulla linea ancora mezz’oscura del mare. Essa veniva dal porto di Marsiglia e guadagnava il largo cacciando innanzi all’acuta prua una scintillante schiuma che apriva una strada più facile ai suoi arrotonditi fianchi.
— Oh! gridò Edmondo, dire che in mezz’ora potrei raggiungere quel naviglio se non temessi di essere interrogato, riconosciuto per un fuggitivo e ricondotto a Marsiglia! che fare? che dire? qual favola inventare da cui eglino potessero rimanere ingannati? quei marinai là sono tutti contrabbandieri, sono semi-pirati, che colla scusa di fare il cabotaggio corseggiano [95] le coste; essi preferiranno vendermi piuttosto che fare una sterile e buona azione. Aspettiamo... ma l’aspettare è impossibile, morrò di fame fra qualche ora, la poca forza che mi rimane sarà svanita, d’altra parte l’ora della visita si avvicina, l’allarme non è ancor sparso, forse non dubiteranno, posso farmi credere uno dei marinari di questo piccolo legno, che si è infranto la scorsa notte; questa favola non manca di verisimiglianza, e niuno tornerà a contraddirmi perchè son tutti annegati; andiamo.
Dicendo queste parole, Dantès volse lo sguardo nella direzione ove si era rotto il naviglio, e rabbrividì. Sulla cresta di uno scoglio era rimasto attaccato il frigio berretto di uno dei naufragati, e vicino a quello fluttuavano gli avanzi della carena, frantumi inerti che il mare batteva e ribatteva contro la base dell’isola cui ripercotevano come impotenti arieti. In un punto la risoluzione di Dantès fu presa; si rimise in mare, nuotò verso il berretto, afferrò un avanzo di trave, e si diresse per tagliar la linea che doveva percorrere il bastimento.
— Ora son salvo, mormorò egli.
Questa convinzione gli rese le forze. Ben presto s’accorse che la tartana, avendo il vento quasi per diritto, correva di bordo fra il castello d’If e la torre di Planier. Dantès temè per poco che invece di costeggiare, il piccolo bastimento non guadagnasse il largo, come avrebbe dovuto fare, se la sua destinazione fosse stata per la Corsica o per la Sardegna, ma secondo il modo con cui manovrava, il nuotatore riconobbe ben presto che il naviglio come è d’uso di chi fa vela per l’Italia, cercava passare fra l’isola di Jaros, e quella di Calaseraigne. Frattanto il naviglio ed il nuotatore si avvicinavano insensibilmente l’uno all’altro; anzi in una bordata il piccolo bastimento venne ad un quarto di lega circa verso Dantès. Egli si sollevò allora sulle onde agitando il berretto in segno di disgrazia, ma nessuno del bastimento lo vide, che anzi questo girò di bordo, e ricominciò una nuova bordata.
Dantès pensò di chiamare; ma misurando coll’occhio la distanza, capì che la voce non poteva giungere al naviglio, trasportata e coperta come era non solo dalla brezza del mare, ma anche dal rumore dell’onde. Allora si consolò della cautela di aver preso quel trave. Indebolito come era forse non avrebbe potuto sostenersi sul mare fino a raggiunger la tartana, e sicuramente, come era possibile, se la tartana passava senza vederlo, non avrebbe potuto riguadagnare la costa. Dantès quantunque fosse quasi certo della direzione che seguiva il bastimento, lo accompagnava con lo sguardo ansioso fino al momento in cui gli parve che ritornasse a lui. Allora si avanzò ad incontrarlo; ma prima che si fossero raggiunti, il bastimento ritornò a girar di bordo. Tosto Dantès, con un estremo sforzo, si alzò quasi in piedi sull’acqua, agitando il berretto, e mandando uno di quei gridi lamentevoli che si emettono dai marinai negli estremi momenti, e che sembrano il lamento di qualche genio marittimo.
Questa volta fu veduto ed inteso. La tartana interruppe la manovra, e volse capo alla sua parte; nel medesimo tempo vide che si preparava a mettere una scialuppa in mare: un momento dopo la scialuppa con due uomini, si dirigeva alla sua volta battendo il mare a quattro remi. Dantès allora lasciò sfuggirsi il trave di cui credeva non aver più bisogno, e nuotò vigorosamente per risparmiare la metà di cammino a coloro che venivano a lui. Il nuotatore però aveva calcolato su forze che non aveva; capì allora di quanta utilità gli sarebbe ancora stato quell’avanzo di legno che già galleggiava a cento passi da lui lontano. Le braccia incominciavano ad irrigidirsi, le gambe avevano perduto la loro flessibilità, i movimenti divenivano forzati e lenti, il petto era anelante. Gettò un secondo grido, i due rematori raddoppiarono d’energia e l’un di essi gli gridò in italiano: «coraggio!» La parola gli giunse al momento in cui un’onda, che non aveva avuto la forza di sormontare, passava al di sopra della testa e lo copriva di schiuma. Egli comparve battendo il mare coi movimenti ineguali e disperati di un uomo che sta per annegare, mandò un terzo grido, e si sentì approfondire nel mare, come se avesse avuto ancora ai piedi la palla mortale. L’acqua passò al di sopra della testa e attraverso di quella vide il cielo livido con delle macchie nere. Uno sforzo violento lo ricondusse a galla. Gli sembrò allora di esser preso per i capelli, più non vide cosa alcuna, non intese più nulla, era svenuto.
Allorchè riaprì gli occhi, Dantès si ritrovò sul ponte della tartana che continuava il suo cammino; il primo sguardo fu di vedere qual direzione teneva: essa continuava ad allontanarsi dal castello d’If.
Dantès era talmente spossato, che fu preso per un sospiro di dolore l’esclamazione [96] di gioia che fece. Come si disse, egli era steso sul ponte: un marinaro fregavagli le membra con una coperta di lana, un altro che riconobbe per quello che avevagli già detto coraggio, gl’introduceva in bocca l’orifizio di una zucca marina che faceva le veci di fiasco; un terzo, vecchio marinaro che era ad un tempo pilota e padrone, lo guardava con un sentimento di pietà egoista, che provano in generale gli uomini per una disgrazia che essi hanno sfuggita, e che può la dimane minacciarli di nuovo!
Qualche goccia di rum che conteneva la zucca, rianimarono il cuore indebolito del giovine, mentre che le frizioni che il marinaro continuava a fare con la lana, riconducevano l’elasticità alle membra di lui.
— Chi siete voi? domandò in cattivo francese il padrone.
— Sono, rispose Dantès, in cattivo italiano, un marinaro Maltese; noi venivamo da Siracusa carichi di vino e di tele. La tempesta di questa notte ci ha sorpresi al capo Morgiou, e siamo andati ad infrangerci contro quelle rocce che vedete laggiù. — Di dove venite? — Da quelle rocce, dove ho avuto la fortuna di aggrapparmi, mentre che il nostro povero capitano vi batteva la testa. I nostri tre altri compagni si sono annegati: credo di essere il solo rimasto vivo, ho scoperto il vostro naviglio, e temendo di dovere aspettare lungamente su quell’isola deserta, mi sono arrischiato sur un frammento del nostro bastimento per tentare di raggiungervi. Vi ringrazio, continuò Dantès, voi mi avete salvata la vita; io era perduto quando uno dei vostri marinari mi ha afferrato pei capelli.
— Sono io, disse un marinaro con una figura franca ed aperta, ed un viso circondato da lunghe barbette nere, n’era ben tempo, chè voi calavate a fondo. — Sì, disse Dantès, stendendogli la mano, sì, amico mio, vi ringrazio una seconda volta. — In fede mia! disse il marinaro, ho quasi esitato; con quella barba lunga sei pollici, e quei capelli lunghi un piede, avevate piuttosto l’aspetto di un brigante che di un galantuomo. — Dantès si ricordò allora che dal momento che era entrato nel castello d’If, non si era più tagliali i capelli, e non si era fatta più la barba. — Sì, diss’egli, è un voto che aveva fatto alla Madonna di Piedigrotta, in un momento di pericolo, di stare cioè dieci anni senza tagliarmi nè barba, nè capelli. Oggi si compie l’espiazione del mio voto, e poco ha mancato che non mi anneghi nell’anniversario.
— Ma ora che faremo di voi? domandò il padrone.
— Ahimè! rispose Dantès, ciò che vorrete. La nostra filuga si è perduta, il capitano è morto. Come vedete, sono sfuggito alla medesima sorte, ma assolutamente nudo: fortunatamente sono abbastanza buon marinaro. Gettatemi nel primo porto in cui prenderete terra: ed io ritroverò sempre impiego su qualche bastimento mercantile. — Conoscete voi il Mediterraneo? — Vi navigo fino dalla mia infanzia.
— Sapete voi ove sono i buoni ancoraggi? — Vi sono pochi porti, anche dei più difficili, dai quali io non possa entrare ed uscire ad occhi bendati. — Ebbene! dite adunque padrone, domandò il marinaro che aveva gridato coraggio a Dantès, se il camerata dice il vero, chi impedisce che resti con noi? — Sì, se egli dice il vero, rispose il padrone con aria incredula, ma nello stato in cui si trova questo povero diavolo ci promette molto, e ci mantiene poco.
— Io manterrò più di quel che ho promesso, disse Dantès.
— Oh! oh! fece il padrone ridendo, vedremo.
— Quando vorrete, riprese Dantès, alzandosi; dove andate?
— A Livorno. — Ebbene! allora, invece di correre bordate che vi fanno perdere un tempo prezioso, perchè non serrate semplicemente il vento da più presso?
— Perchè allora andremmo a dar dritto sull’isola di Riou.
— Vi passerete a più di venti braccia di distanza.
— Prendete adunque il timone, disse il padrone, e giudicheremo del vostro sapere.
Il giovine andò a sedersi al timone, si assicurò con una leggiera pressione che il bastimento era obbediente, e vedendo che, senza essere di prima finezza, non si rifiutava, gridò: — Alle braccia e alle boline. — I quattro marinari che formavano l’equipaggio corsero al loro posto, nel mentre che il padrone li guardava fare. — Tirate, continuò Dantès. — I marinari obbedirono con molta precisione. — Ora annodate, bene. — Quest’ordine fu eseguito come i due primi, e il piccolo bastimento, invece di continuare a correre bordate, cominciò a dirigersi verso l’isola di Riou, presso la quale passò, come aveva predetto Dantès, lasciandola a dritta per una ventina di braccia.
[97]
— Bravo! disse il padrone.
— Bravo! ripeterono i marinari.
E tutti guardarono meravigliati quest’uomo il cui sguardo aveva ripresa un’intelligenza e il corpo un vigore, che erano ben lontani dal supporre in lui.
— Vedete, disse Dantès lasciando il timone, che potrò esservi di qualche utilità, almeno durante la traversata; se giunti a Livorno non mi volete più, mi lascerete, e su i primi mesi di soldo vi rimborserò il mio nutrimento fin là, e gli abiti che vi piacerà prestarmi.
— Sta bene! sta bene! disse il padrone, potremo accomodarci, se sarete ragionevole. — Un uomo vale un altr’uomo, disse Dantès; ciò che date ai camerati, lo darete a me pure, e tutto è stabilito. — Non è giusto, disse il marinaro che aveva salvato Dantès, perchè voi ne sapete più di noi.
— Ciò non riguarda te, Jacopo, disse il padrone; ciascuno è libero d’impegnarsi per quella somma che più gli conviene.
— È giusto disse Jacopo; io non faceva che una semplice osservazione.
— Ebbene! tu farai molto meglio ancora prestando a questo bravo giovinotto un paio di pantaloni ed una giacca, se pure ne hai di più. — No, disse Jacopo; ma ho un pantalone ed una camicia. — Ciò è quanto mi abbisogna, disse Dantès; grazie, amico mio. — Jacopo se ne scese giù dal boccaporto, e risalì un momento dopo cogli abiti che Dantès indossò con una gioia indicibile. — Ora vi occorre altro? chiese il padrone. — Un tozzo di pane ed un altro sorso di questo eccellente rum che ho di già assaggiato, essendo gran tempo che non ho mangiato. — Infatto erano circa quarant’ore che non aveva toccato cibo. Fu portato a Dantès un po’ di pane, e Jacopo gli presentò la zucca.
— Timone a basso-bordo, gridò il capitano volgendosi verso il timoniere. Dantès volse lo sguardo alla stessa parte portandosi la zucca alla bocca, ma la zucca rimase a mezz’aria.
— Osserva, domandò il padrone; che cosa accade nel castello d’If?
Di fatto, una piccola nube bianca, la quale aveva fermata l’attenzione di Dantès, sembrava coronare il ciglione del baluardo al sud del castello d’If. Dopo un secondo, il rumore di una lontana esplosione venne ad estinguersi a bordo della tartana. I marinari alzarono la testa guardandosi l’un l’altro.
— Ma che vuol dir ciò? domandò il padrone.
— Questa notte sarà evaso qualche prigioniero dal castello, disse Dantès, ed ora tirano il cannone per dare l’allarme.
Il padrone fissò lo sguardo sul giovinotto, che dicendo queste parole si era portata la zucca alla bocca; ma lo vide assaporare il liquore con tanta calma e soddisfazione, che se pure ebbe un qualche sospetto, questo non fece che attraversargli lo spirito, e tosto svanì.
— Ecco un rum che è diabolicamente forte, disse Dantès, asciugandosi con la manica della camicia la fronte che grondava sudore.
— In ogni caso, mormorò il padrone guardandolo, tanto meglio, perchè così avrò fatto acquisto di un brav’uomo. — Sotto pretesto d’essere stanco, Dantès chiese allora di assidersi al timone. Il timoniere ben contento di essere sollevato dalle sue funzioni, consultò coll’occhio il padrone, che gli fe’ segno colla testa che poteva rimettere nelle mani del nuovo compagno la sbarra. Dantès così situato potè restare cogli occhi fissamente rivolti alla parte di Marsiglia.
— Oggi quanti ne abbiamo del mese? domandò Dantès a Jacopo che era venuto a sedersi vicino a lui dopo aver perduto di vista il castello d’If. — 28 febbraio: rispose questi.
— Di qual anno? domandò ancora Dantès.
— Come! di qual anno?... voi domandate di qual anno?
— Sì, rispose il giovine, vi domando di qual anno.
— Avete dimenticato in che anno siamo?
— Che volete? È stata sì grande la paura di questa notte, disse ridendo Dantès, (per cui poco ha mancato non perdessi la vita) che la mia memoria n’è rimasta interamente sconvolta: vi domando dunque di qual anno siamo noi ai 28 febbraio?
— Dell’anno 1829, disse Jacopo.
Erano giusto 14 anni che Dantès era stato arrestato. Egli era entrato nel castello d’If di 19 anni, e ne usciva di 33. Un doloroso sorriso passò sulle sue labbra; domandavasi che fosse avvenuto di Mercedès durante questo tempo, in cui ella lo aveva dovuto credere morto. Quindi un lampo d’ira s’accese ne’ suoi occhi pensando a quei tre uomini ai quali doveva una sì lunga e penosa carcerazione, e rinnovò contro Danglars, Fernando e [98] Villefort quel giuramento d’implacabile vendetta che aveva già pronunciato in prigione; giuramento che non era più una vana minaccia, poichè a quell’ora, il più abile veleggiatore del Mediterraneo non avrebbe certo potuto raggiungere la piccola tartana che navigava a gonfie vele alla volta di Livorno.