— Se io potessi morire, diss’egli, andrei ove è andato egli. Ma come si fa a morire? è ben facile, riprese ridendo. Io resto qui, mi getto sul primo che entra, lo strangolo e sarò ghigliottinato. Ma siccome accade che tanto nei grandi dolori, quanto nelle grandi tempeste l’abisso si trova fra le due sommità dei flutti, così Dantès rinculò all’idea di questa morte infamante, e precipitosamente discese da questa disperazione ad una sete ardente di vita e di libertà.
— Morire! oh! no! gridò egli, a che varrebbe di aver vissuto tanto, di aver tanto sofferto per morire così? Morire era bene, quando avevo presa la risoluzione l’altra volta, sono diversi anni; ma ora ciò sarebbe veramente un aggiunger troppo alla mia miserabile situazione. No, io voglio vivere; no, voglio lottare fino all’ultimo momento, no, voglio riconquistare quella felicità che mi fu tolta. Prima di morire, dimenticava che io ho i miei carnefici da punire, e forse anche qualche amico da ricompensare; ma ora sarò dimenticato qui, e non uscirò dal mio carcere che nello stesso modo di Faria. — A questa parola Edmondo restò immobile, cogli occhi fissi, come colui che viene colpito da una repentina idea, ma però da un’idea che spaventa.
Ad un tratto si alzò, portò la mano alla fronte come se avesse le vertigini, fece due o tre giri intorno alla camera, e ritornò a fermarsi davanti al letto. — Oh! oh! chi m’invia questo pensiero? sei tu, o mio Dio? dappoichè i soli morti escono liberamente di qui, prendiamo il posto dei morti... e senza aspettare il tempo di pentirsi di questa risoluzione, e senza pensarvi più oltre per timore di distruggerla, si chinò sullo schifoso sacco, l’aprì col coltello fatto da Faria, ne tolse il cadavere, il trascinò nel proprio carcere, lo depose sul suo letto, gli mise in testa quella tela di cui egli stesso soleva coprirsi, baciò un’ultima volta quella fronte agghiacciata, tentò nuovamente di chiuderne gli occhi ribelli, che continuarono a rimanere aperti, ne volse la testa dalla parte del muro, affinchè il carceriere, quando gli portava il cibo della sera, avesse creduto che dormisse (il che non di rado accadeva) rientrò nel sotterraneo, tirò a sè il letto contro la muraglia, giunse nell’altra camera, prese dal nascondiglio l’ago e il filo, si tolse i cenci affinchè sotto la tela si sentissero le carni nude, si adattò dentro il sacco, si pose nella stessa situazione in cui era il cadavere, e richiuse il sacco con una cucitura per di dentro. Si sarebbe potuto sentire il battito del cuore, se per disgrazia in quel momento fosse entrato qualcuno. Dantès avrebbe potuto aspettare la visita della sera: ma egli temeva che il governatore cambiasse di risoluzione, e che si trasportasse il cadavere qualche tempo prima. Allora la sua ultima speranza sarebbe stata perduta. In ogni evento il suo disegno era stabilito, ecco ciò ch’egli contava di fare.
Se durante il tragitto i becchini riconoscevano che portavano un vivo invece di un morto, Dantès non lasciava loro il tempo di verificarlo; con un vigoroso colpo di coltello apriva il sacco di alto in basso, approfittava del loro terrore e fuggiva; se avessero voluto fermarlo si sarebbe servito del coltello. Se lo conducevano fino al cimitero e lo depositavano in una fossa, vi si lasciava coprir di terra; quindi, venuta la notte, appena i becchini avessero voltato le spalle, si apriva un passaggio attraverso la terra molle, e fuggiva. Sperava che il peso della terra non sarebbe stato tanto grande da non poterla sollevare. Se poi s’ingannava, se al contrario questo peso era tanto forte da morirne soffocato, tanto meglio: tutto era finito! Dantès non aveva mangiato dal giorno innanzi: nel mattino non avea pensato alla fame, e non vi pensava neppure allora. La sua posizione era troppo precaria per lasciargli l’agio di fermare il pensiero sopra altre idee. Il primo pericolo che correva Dantès, era che il carceriere quando gli portava il vitto alle sette si [91] fosse accorto della sostituzione fatta. Fortunatamente, più di venti volte, tanto per misantropia che per stanchezza, Dantès aveva ricevuto il carceriere, addormentato, e in questi casi, d’ordinario, quest’uomo deponeva il pane e la minestra sulla tavola, e partiva senza dir parola. Ma questa volta il carceriere poteva derogare dalle sue abitudini di mutismo, interrogare Dantès, e vedendo che non gli rispondeva, accostarsi al letto e scoprir tutto.
Allorchè si avvicinarono le sette, cominciarono le angosce di Dantès. Si sforzava di comprimere colla mano il petto per moderare i palpiti del cuore, mentre che, con l’altra si asciugava il sudore della fronte che scorreva lungo le tempie, dei brividi ne agitavano tutto il corpo, e a quando a quando gli stringevano il cuore come fra una morsa ghiacciata. Allora egli si credeva sul punto di morire.
Le ore passarono senza alcun movimento nel castello, e Dantès si persuase di aver sfuggito il primo pericolo, il che eragli di buon augurio. Finalmente verso l’ora stabilita dal governatore cominciarono a sentirsi dei passi su per la scala, Edmondo capì che era giunto il momento. Si armò di tutto il suo coraggio, trattenne il respiro, e sarebbe stato pienamente contento se avesse potuto trattenere egualmente le pulsazioni precipitate delle arterie.
Fu fatto alto alla porta; il passo era doppio, Dantès dubitò che fossero i due becchini che venivano a prenderlo. Questo sospetto si cambiò in certezza, quando intese il rumore che fecero nel deporre il cataletto. La porta s’aprì, una luce velata giunse fino agli occhi di Dantès; attraverso la tela che lo copriva, vide due ombre che s’avvicinavano al letto. Una terza restava alla porta tenendo in mano un lanternone. I due uomini che si erano accostati al letto afferrarono il sacco dalle due estremità.
— Per bacco! per essere un vecchio magro, è ben pesante! disse quegli che lo sollevava dalla testa.
— Si dice, che ogni anno lo ossa diventino più pesanti mezza libbra, disse l’altro che lo prendeva pei piedi.
— Hai tu fatto bene il nodo? domandò il primo.
— Sarebbe da bestia il caricarci di un peso inutile, rispose il secondo, lo farò quando siamo giù.
— Hai ragione, andiamo dunque.
— Perchè questo nodo? domando Dantès a sè stesso.
Il preteso morto fu trasportato dal letto alla bara. Edmondo s’intirizziva per meglio rappresentare la parte di defunto. Fu posto sul cataletto, ed il corteggio, rischiarato dall’uomo che portava il lanternone, e che camminava avanti, salì la scala. D’un subito fu circondato dall’aria fresca ed aperta della notte. Dantès riconobbe il maestrale. Questa sensazione così momentanea fu per lui ripiena di delizia ad un tempo e d’angoscia. I portatori fecero una ventina di passi, poi si fermarono e deposero al suolo la bara. Uno di essi si allontanò, e Dantès sentì che gli stivali ripercuotevano sulle pietre.
— Dove sono adesso? chiese Dantès a sè stesso.
— Sai tu che non è leggiero niente affatto? disse quello che era vicino a Dantès sedendosi sull’orlo del cataletto.
Il primo sentimento di Edmondo fu quello di allontanarsi da lui; fortunatamente si trattenne. — Fammi luce, animale, disse quello dei due portatori che si era allontanato, non troverò ciò che cerco. — L’uomo dal lanternone obbedì, quantunque l’ingiunzione fosse stata fatta come vedemmo poco convenientemente. — E che cosa cerca? si domandò nuovamente Dantès; una pala senza dubbio.
Una esclamazione di soddisfazione indicò che il becchino aveva trovato ciò che cercava. — Finalmente, disse l’altro, ce n’ha voluto. — Sì, rispose il primo, ma non avrà perduto niente ad aspettare. — A queste parole si ravvicinò ad Edmondo che intese depositare vicino a sè un corpo pesante e sonoro: nel medesimo punto una corda gli circondò i piedi con una viva o dolorosa compressione. — Ebbene! è fatto il nodo? domandò quel becchino che era rimasto inoperoso.
— Ed è fatto bene, disse l’altro, me ne rendo garante.
— In questo caso, avanti. — E sollevato il cataletto si rimisero in cammino. Fecero una cinquantina di passi circa, poi si fermarono per aprire una porta, quindi ripresero il moto: il rumore delle onde che s’infrangevano contro la roccia sulla quale era fabbricato il castello giungeva sempre più distintamente all’orecchio di Dantès a seconda che si avanzavano. — Cattivo tempo! disse uno dei becchini, non è una bella cosa trovarsi in mare con questa nottata.
— Sì, disse l’altro, il sapiente corre gran pericolo di bagnarsi. — Ed entrambi scoppiarono in una risata.
Dantès non capì bene la forza dello [92] scherzo, ciò nonostante non gli si drizzaron meno i capelli sulla testa.
— Va bene! eccoci arrivati, riprese il primo. — Più avanti, più avanti, disse l’altro; tu sai bene che l’ultimo rimase per via infranto sur uno scoglio, e che il governatore ci disse la dimane, che non eravamo buoni a nulla. — Fecero ancora altri quattro o cinque passi sempre salendo, quindi Dantès si sentì preso per la testa e per i piedi; e tutto il corpo venne barcollato. — Una! dissero i becchini; due e tre!...
E nello stesso tempo Dantès si sentì lanciato in un enorme vuoto, traversando lo spazio come un uccello ferito, e cadendo sempre con uno spavento che gli agghiacciava il cuore. Quantunque tirato in basso da qualche cosa di pesante che precipitava ancor più il rapido volo, gli sembrò che questa caduta durasse un secolo. Finalmente, con un rumore spaventoso, entrò come dardo in un’acqua ghiacciata, che gli fece gettare un grido che nel medesimo punto fu soffocato dalla immersione.
Dantès era stato lanciato in mare e veniva tratto al fondo da una palla da 36 legatagli ai piedi....
.... Il mare è il cimitero del castello d’If.