Successe il giorno quasi colla stessa febbre della notte, ma la logica venne in aiuto all’immaginazione di Dantès, e potè stabilire un disegno meno incerto e dubbioso. Venne la sera, e con essa i preparativi della partenza: questi erano per Edmondo un mezzo di nascondere la propria agitazione. Un poco alla volta aveva presa l’abitudine di comandare ai compagni, come se fosse stato il padron del bastimento; e siccome i suoi ordini erano sempre chiari, precisi, e facili ad eseguirsi, i compagni non solo l’obbedivano con prontezza, ma anche con piacere. Il vecchio padrone lo lasciava fare, avendo riconosciuta la superiorità di Dantès non solo sui compagni, ma anche su sè stesso; vedeva nel giovinotto il suo successore naturale, ed era dolente di non avere una figlia per stringere questa bella alleanza.
Alle sette di sera tutto fu in ordine, a sette ore e dieci minuti si voltava intorno al faro, al momento che questo veniva acceso. Il mare era placido, con fresco venticello di sud-est. Navigavasi sotto un cielo chiaro, in cui Dio pure faceva risplendere successivamente i suoi fari, ciascuno dei quali è un mondo. Dantès dichiarò, che tutti potevano andare a dormire, e ch’ei s’incaricava del timone. Quando il maltese, che così veniva chiamato Dantès a bordo, faceva una simile dichiarazione, bastava; e ciascuno andava a riposare tranquillamente. Ciò era accaduto qualche altra volta. Dantès rigettato dalla solitudine nel mondo, provava di tempo in tempo un imperioso bisogno di restar solo. Ora qual solitudine più immensa ad un tempo e più poetica, di quella di un bastimento che nella oscurità della notte ondeggia isolato sul mare nel silenzio della immensità, e sotto lo sguardo del Signore? In quella notte però la solitudine fu popolata dai suoi pensieri, la notte illuminata dalle sue illusioni, il silenzio animato dalle sue promesse.
Quando il padrone si svegliò, la navicella correva a vele gonfie: non esisteva un lembo di tela che non fosse gonfiato dal vento: facevano più di due leghe e mezzo l’ora. L’isola di Monte-Cristo s’ingrandiva sull’orizzonte. Edmondo rese il timone al padrone, e andò a sua volta a stendersi sulla branda: ma ad onta della notte vegliata, non potè chiudere occhio. Due ore dopo risalì sul ponte; il bastimento era sul punto di sorpassare l’isola d’Elba; si trovava all’altezza di Marciana, e al di sotto dell’isola piana e verde della Pianosa. Si vedeva luccicare fra l’azzurro del cielo la sommità raggiante dell’isola di Monte-Cristo. Dantès ordinò al timoniere di volgere a sinistra per lasciare la Pianosa a destra; egli aveva calcolato che questa manovra doveva abbreviare la strada di due o tre nodi. Alle cinque di sera ebbero la vista completa dell’isola, mercè quella limpida atmosfera che è particolare alla luce che mandano gli ultimi raggi del sole al tramonto.
Edmondo divorò con gli occhi questa massa di scogli che sembravano tinti di tutti i colori del crepuscolo dal roseo vivo fino al blu scuro; a quando a quando gli salivano al volto ardenti vampe: la fronte diveniva di porpora, una nube rossastra gli passava davanti agli occhi. Giammai giuocatore, la cui fortuna è tutta riposta sur una carta, provò tanta angoscia, quanta ne sentiva Edmondo nei suoi parosismi di speranza. Ritornò la notte. Alle dieci di sera si approdò. La Giovane Amelia era la prima al convegno. Dantès ad onta del suo impero su sè stesso non potè contenersi; egli pel primo saltò sulla riva. Se lo avesse osato, avrebbe come Bruto baciata la terra. Era oscura la notte; ma alle undici la luna sorse di mezzo al mare, e ne inargentò le crespe: quindi i raggi cominciarono a screziarsi di bianche cascate di luce sugli scogli ammassati di quest’altro Pelione. L’isola era conosciuta dall’equipaggio della Giovane Amelia; era una delle sue ordinarie stazioni. Quanto a Dantès, l’aveva veduta in ciascuno dei suoi viaggi in Levante, ma non vi era mai disceso. Egli interrogò Jacopo. — Dove passiamo la notte? — A bordo della tartana, rispose Jacopo.
— Non staremmo meglio nelle grotte?
— E in quali grotte?
— Nelle grotte dell’isola.
— Io non vi conosco grotte, disse Jacopo.
Un freddo sudore passò sulla fronte di Dantès. — Non vi sono grotte a Monte-Cristo? domandò egli. — No.
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Dantès rimase per un momento stordito, poi pensò che queste grotte potevano essersi ricoperte per un qualche accidente, od essere state chiuse per maggior cautela dallo stesso Spada. In questo caso tutto stava nel ritrovare la perduta apertura. Era inutile cercarla nella notte; Dantès rimise dunque le sue ricerche alla dimane: d’altra parte un segnale inalberato a mezza lega in mare, ed al quale rispondeva con uno simile la Giovane Amelia, indicò ch’era giunto il momento di accingersi all’operazione. Il bastimento che aveva ritardato, rassicurato dal segnale che doveva far conoscere all’ultimo giunto tutta la sicurezza per potersi abboccare, apparve ben presto bianco e silenzioso come un fantasma, e venne a gettare l’ancora presso la riva. Il trasporto delle merci cominciò in quel punto. Dantès, mentre lavorava, pensava all’hourra di gioia, che con una sola parola poteva provocare in tutti quegli uomini, se diceva ad alta voce l’incessante pensiero che gli rumoreggiava all’orecchio, e lo turbava: ma lungi dal rivelare il suo magnifico segreto, temeva già di aver detto troppo, e di avere risvegliati dei sospetti col suo andare e venire, e colle ripetute domande, colle minuziose osservazioni, e la sua preoccupazione: fortunatamente però che in lui, per questa volta almeno, il doloroso passato riflettevagli sul viso una indelebile tristezza, e che gli slanci d’ilarità intraveduti sotto questa nube non erano che lampi. Nessuno adunque dubitava di cosa alcuna: ed allorchè la dimane prendendo il fucile, i pallini e la polvere, Dantès manifestò il desiderio di andare a tirare qualcuna di quelle numerose capre selvagge che si vedevano saltare di roccia in roccia, non si attribuì questa sua escursione che all’amore per la caccia, ed al desiderio della solitudine! non vi fu che Jacopo che insistè per seguirlo. Dantès non volle opporvisi temendo d’inspirar sospetti, se spingeva tropp’oltre la sua ripugnanza ad essere accompagnato. Ma appena ebbe fatto un quarto di lega, presentatasi l’occasione di tirare ed uccidere un capriuolo, inviò Jacopo a portarlo ai compagni, invitandoli a cuocerlo, e a dargli il segnale quando sarebbe cotto per mangiarlo, col trarre un colpo di fucile. Qualche frutto secco, ed un fiasco di vino di Montepulciano dovevano compiere il pranzo.
Dantès continuò il cammino voltandosi di tempo in tempo. Giunto alla sommità di una roccia, vide mille piedi al di sotto di lui i compagni, che raggiunti da Jacopo, già si occupavano attivamente dei preparativi del pranzo, aumentato, mercè la bravura d’Edmondo d’un piatto principale.
Edmondo li guardò un momento con quel tristo e dolce sorriso proprio delle persone superiori. «Fra due ore coloro partiranno ricchi di 50 piastre, per andare a cercar di guadagnarne altre 50 col rischio della loro vita: poi ritorneranno ricchi di lire 600, per andare a dilapidarle in una città qualsisia coll’orgoglio dei sultani, e la confidenza dei nababi. Oggi la speranza fa che io disprezzi la loro ricchezza, che mi appare profonda miseria: domani forse il disinganno mi obbligherà guardare questa profonda miseria come la maggiore delle fortune... Oh! no, gridò Edmondo: questo non sarà. Il sapiente, l’infallibile Faria non può essersi ingannato su questo solo punto. D’altra parte meglio morire che continuare a condurre questa vita miserabile e vile.»
Così Dantès, che tre mesi prima non desiderava che la libertà, non era più contento di questa, ma voleva eziandio le ricchezze. Il difetto non era di Dantès, ma della nostra natura che ci crea desideri infiniti. Frattanto per una strada che si perdeva fra due muraglie di scogli, lungo il cammino che percorreva il torrente, e che secondo ogni probabilità non era stata mai calcata da piede umano, Dantès si era avvicinato alla direzione in cui supponeva dover essere le grotte. Seguendo la spiaggia del mare, ed esaminando i più piccoli oggetti con una seria attenzione, credè notare sur alcune rocce degli scavi operati della mano dell’uomo.
Il tempo che cuopre tutte le cose fisiche col manto dell’obblio, sembrava avere rispettati questi segni, tracciati con una certa regolarità, e nello scopo probabilmente di servir di guida, segni che poi sparivano sotto i cespugli di mirto che si univano in grossi mazzi carichi di fiori, o sotto i licheni parassiti. Bisognava allora che Dantès allontanasse i mazzi di fiori o sollevasse il musco per ritrovare i segni che lo guidavano per questo laberinto, segni, che per altro avevan dato buona speranza ad Edmondo. Perchè non potevano essere stati tracciati dallo Spada per poter servire, in caso di catastrofe ch’egli non aveva preveduto così completa, di guida al nipote? Questo luogo solitario era ben quello che conveniva ad un uomo [104] che voleva seppellire un tesoro. Soltanto questi segni visibili avrebbero potuto attirare lo sguardo di qualche altro oltre quelli per cui erano fatti: e l’isola dalle tetre muraglie aveva ella conservato fedelmente il segreto?
Frattanto a cinquanta passi dal porto sembrò ad Edmondo, sempre celato agli sguardi de’ compagni per la ineguaglianza del suolo, che i segni cessassero, senza però metter capo ad alcuna grotta. Una grossa roccia rotonda, posta sopra una solida base era la sola meta a cui sembravano guidare. Edmondo pensò allora che invece d’essere giunto al termine, poteva benissimo non essere arrivato che a scoprire il principio: per conseguenza fe’ un giro in contrario, e ritornò in dietro calcando la stessa via. In questo mentre i suoi compagni preparavano il pranzo, attingevano l’acqua alla sorgente, trasportavano il pane e le frutta a terra, e facevano cuocere il capriuolo: e nel punto in cui lo toglievano dallo improvvisato spiedo scorsero Edmondo, che leggero e ardito come uno scoiattolo, saltava di roccia in roccia: tirarono allora il colpo per avvertirlo. Il cacciatore cambiò subito direzione, e ritornò a loro correndo. Ma nel momento che tutti lo seguivano collo sguardo nella specie di voli che faceva, tacciando di temerità la sua sveltezza; come per dar ragione ai loro timori, gli venne meno un piede, fu visto oscillare sulla vetta di uno scoglio, gettare un grido, e sparire.
Tutti balzarono di un solo slancio, perchè tutti amavano Edmondo ad onta della sua superiorità; Jacopo però fu il primo a raggiungerlo. Egli trovò Dantès steso, insanguinato, e quasi privo di sensi: era rotolato da un’altezza di 10 a 12 piedi. Gli fu introdotto in bocca qualche sorso di rum, e questo rimedio, che altra volta gli era stato di tanta efficacia, produsse il medesimo effetto. Edmondo riaprì gli occhi, e si lagnò di un vivo dolore al ginocchio, d’un gran peso alla testa, e d’un forte spasimo ai reni. Lo volevano trasportare fino alla riva; ma quando fu toccato, quantunque Jacopo dirigesse l’operazione, dichiarò lamentandosi, che non si sentiva la forza di sopportare il trasporto.
S’intende, che di pranzo per Edmondo non si parlò neppure, ma volle che i suoi camerati, non avendo le sue stesse ragioni per fare digiuno, ritornassero al loro posto. Quanto a lui, pretendeva di non aver bisogno di altro che di un poco di riposo, e che al loro ritorno essi lo troverebbero assai meglio. I marinari non si fecero molto pregare; avevano fame, l’odore del capriuolo giungeva fino a loro, e fra lupi di mare non vi sono molte cerimonie. Ritornarono un’ora dopo. Tuttociò che Edmondo aveva potuto fare era stato di trascinarsi per una dozzina di passi per appoggiarsi sur un sasso coperto di musco. Ma lungi dal calmarsi, i dolori di Dantès sembrava che fossero aumentati d’intensità.
Il vecchio padrone che era costretto a partire nella mattinata, per depositare il carico sulle frontiere del Piemonte e della Francia, fra Nizza e Fréjus, insistè perchè si sforzasse ad alzarsi. Dantès fece sforzi sovrumani per arrendersi a questo invito: ma a ciascuno di essi ricadde lamentandosi ed impallidendo.
— Ha rotti i reni, disse a bassa voce il padrone; non importa, è un buon compagno, non bisogna abbandonarlo; cerchiamo di trasportarlo fino alla tartana. — Dantès dichiarò che preferiva morire ove si trovava, piuttosto che sopportare i dolori che gli causava qualunque movimento per quanto piccolo si fosse. — Ebbene! disse il padrone; avvenga ciò che vuole; non sarà mai detto che noi lasciamo un bravo compagno senza aiuto. Non partiremo che questa sera. — Questa proposizione fe’ molta meraviglia ai marinai, quantunque non vi fosse pur uno che facesse obbiezione. Il padrone era un uomo molto rigoroso, ed era la prima volta che lo si vedesse rinunciare ad una impresa, od anche soltanto ritardarla. Dantès del pari non volle sopportare che si facesse in suo favore una infrazione alle regole di disciplina stabilite a bordo. — No, diss’egli, io fui mal cauto, ed io debbo portare la pena della mia poca destrezza: lasciatemi una piccola provvigione di biscotto, un fucile, della polvere e delle palle per ammazzare dei capretti ed anche per difendermi, ed una zappa per costruirmi una specie di casetta, nel caso che voi tardaste molto a ritornare a prendermi.
— Ma tu morrai di fame, disse il padrone.
— Amo piuttosto questo, rispose Edmondo, che di soffrire gli inauditi dolori, che mi fa provare il più piccolo movimento.
Il padrone si volse al bastimento che ondeggiava con un principio di preparativo nel piccolo porto, pronto a riprendere il mare quando gli apparecchi fossero del tutto compiti.
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— Che vuoi tu dunque, o maltese, che facciamo! diss’egli, non possiamo abbandonarti così, e neppure aspettare lungamente.
— Partite! partite! gridò Dantès.
— Staremo assenti almeno otto giorni, e bisognerà eziandio deviare dalla nostra via per venirti a prendere.
— Ascoltate, disse Dantès; se incontrate qualche barca peschereccia che fra due o tre giorni venga in questi paraggi, raccomandatemi al padrone, io pagherò 25 piastre pel mio ritorno a Livorno; e se non ne ritroverete, ritornate.
— Ascoltate, padron Baldi, vi è un mezzo per conciliar tutto, disse Jacopo, partite; io resterò alla cura del ferito.
— E rinuncierai alla tua parte di divisione, disse Edmondo, per restar meco? — Sì, e senza dispiacere, rispose Jacopo. — Tu sei un brav’uomo, disse Edmondo, e Dio ti compenserà della tua buona volontà. Ma io non ho bisogno d’alcuno, grazie: un giorno o due di riposo mi rimetteranno, e spero ritrovare fra questi scogli alcune erbe eccellenti per le contusioni.
Uno strano sorriso passò sulle labbra di Dantès; strinse la mano a Jacopo con effusione, ma rimase irremovibile nella sua risoluzione di rimanere, e di rimaner solo. I contrabbandieri lasciarono ad Edmondo ciò che aveva domandato, e lo abbandonarono, non senza voltarsi molte volte facendogli tutti i segni di un cordiale addio, ai quali Edmondo rispondeva con una sola mano, come se non potesse muovere il restante del corpo. Poi, quando furono disparsi: — È strano, mormorò Dantès ridendo, che in mezzo ad uomini di tal fatta si trovino prove di amicizia e di devozione. — Allora trascinossi con cautela fino alla sommità di una roccia, che gli nascondeva la vista del mare, e di là vide la tartana compiere i preparativi, levar l’ancora, librarsi come una lodola che sta per spiccare il volo, e partire. In capo ad un ora ella era disparsa del tutto, o almeno era impossibile di più vederla dal luogo ove era rimasto il ferito. Dantès si alzò più lesto e più leggiero di un capriuolo fra i mirti e le lentische, su quelle rocce selvagge, prese il fucile con una mano, coll’altra la zappa, e corse a quella roccia presso la quale finivano i segni che aveva notati sulle altre.
— Ed ora, gridò egli ricordandosi la storia dell’arabo pescatore raccontatagli da Faria, ora, apriti o Sesamo!