Questa vista rassicurò Edmondo: ricondusse allora lo sguardo sugli oggetti che lo circondavano più da vicino: si vide sul punto più elevato della conica isola, piccola statua di questo immenso piedistallo: intorno a lui non v’era un uomo, non una barca: niente altro che l’azzurro mare che veniva a percuotere la base dell’isola, ornandola di una eterna frangia d’argento. Allora discese con passo rapido, ma prudente; temeva troppo in un simile momento un accidente simile a quello [106] che aveva tanto abilmente e felicemente simulato.
Dantès come abbiamo detto, aveva ripercorso il cammino, guidato dai solchi scavati sulle rocce, ed aveva veduto che questa linea conduceva ad un piccolo seno nascosto come un bagno di antica ninfa. Questo seno era abbastanza profondo nel centro, perchè un piccolo bastimento del genere delle Speronare potesse entrarvi, e rimanervi nascosto. Allora, seguendo il filo delle induzioni, quel filo che fra le mani di Faria aveva veduto guidare in una maniera così ingegnosa fra il dedalo delle probabilità, pensò che Guido Spada, nello scopo di non farsi vedere, fosse approdato a questo seno, quivi nascosto il piccolo naviglio, avesse seguita la linea indicata dalle intaccature, e nella estremità di essa sepolto il tesoro. Questa supposizione ricondusse Dantès presso la roccia circolare. Una cosa soltanto lo inquietava, e sconvolgeva tutte le sue idee in dinamica: come erasi potuto, senza impiegare forze considerevoli, innalzare questa roccia, che pesava forse cinque o sei migliaia, sulla specie di base su cui era posta?
D’improvviso fu colpito da un’idea. Invece di farla salire, disse tra sè, l’avranno fatta discendere. Ed egli stesso si slanciò al di sopra della roccia, per cercare il posto della sua primitiva base. Infatto vide ben presto, ch’era stata praticata una leggera inclinazione, la roccia aveva strisciato sulla base, ed era venuta a fermarsi nella direzione in cui un’altra roccia, grossa come una pietra da taglio ordinaria gli aveva servito di base. Erano stati impiegati dei sassolini e delle pietre per far sparire ogni traccia di mancanza di continuità, questo piccolo lavoro da muratore era stato ricoperto di terra vegetabile, vi era nata l’erba, ed il musco vi si era esteso, qualche seme di mirto e di lentischia vi si erano fermati, e l’antico avanzo di roccia sembrava attaccato al suolo. Dantès sollevò con cautela la terra, e riconobbe, o credè riconoscere tutto questo ingegnoso artificio. Allora si accinse a distruggere colla zappa questo muro intermediario, cementato dal tempo; dopo un lavoro di dieci minuti il muro cedè, e rimase aperto un foro pel quale potevasi introdurre un braccio. Dantès andò a troncare l’olivo più grosso in cui si abbattè, lo spogliò dei rami, l’introdusse nel foro, e ne fece una leva; ma la roccia era ad un tempo troppo pesante, e incastrata troppo solidamente sull’inferiore, che forza umana non era bastante a smuoverla, fosse stata pur quella d’Ercole.
Dantès riflettè allora esser necessario assaltar la roccia stessa, ma con qual mezzo? Girò lo sguardo intorno a sè come fanno gli uomini impacciati, e questo cadde sul corno di bufalo pieno di polvere che avevagli lasciato Jacopo; egli sorrise: l’invenzione infernale avrebbe compita l’opera.
Coll’aiuto della zappa, Dantès scavò fra la roccia superiore e quella sopra cui era posta, un condotto di mina simile a quello che fanno i guastatori, quando vogliono risparmiare alle braccia dell’uomo una troppo lunga fatica. Quindi lo riempì di polvere ben compressa e sfilando il fazzoletto, e immergendolo nella polvere, ne fe’ una miccia, e messovi fuoco si allontanò. L’esplosione non si fece attendere; la roccia superiore per un momento fu sollevata dall’incalcolabile forza, quella inferiore andò in pezzi. Dalla piccola apertura, che sul principio aveva praticata Dantès, uscì buon numero d’insetti frementi ed un enorme serpente, guardiano di questo cammino misterioso, il quale strisciando su sè stesso disparve.
Dantès si avvicinò. La roccia superiore, rimasta ormai senza appoggio pendeva sull’abisso. L’intrepido cercatore vi girò attorno, scelse il punto più vacillante, appoggiò la sua leva fra gl’intacchi, e a guisa di Sisifo s’incurvò con tutta la forza contro la roccia, la quale di già spostata dall’esplosione traballò. Dantès raddoppiò di sforzi. Si sarebbe detto ch’egli era un nuovo Titano che sradicava le montagne per far la guerra al padre degli Dei. Finalmente la roccia cedè, rotolò, balzò, si precipitò, e disparve immergendosi nel mare. Essa lasciò scoperto un vano circolare che metteva in vista un anello di ferro impiombato nel mezzo di una pietra quadrata.
Dantès gettò un grido di gioia e di stupore. Giammai più magnifico risultato aveva coronato un primo tentativo. Volle continuare, ma le gambe gli tremavano così fortemente, il cuore gli batteva con tanta violenza, una nube gli passava tanto ardente davanti agli occhi, che fu costretto di fermarsi. Questo momento di esitazione però durò quanto un lampo. Edmondo passò la leva nell’anello, l’alzò vigorosamente, e la pietra spostata si aprì, scoprendo il rapido pendìo di una specie di scala infossantesi nell’ombra di una grotta di più in più oscura.
Un altro vi si sarebbe precipitato, avrebbe [107] gettato grida di esultanza e di gioia: Dantès si fermò, impallidì, dubitò.
— Vediamo, diss’egli, siamo uomini. Avvezzi all’avversità, non ci lasciamo abbattere da un disinganno, o senza questo avrei io tanto sofferto? Il cuore si rompe allorchè, dopo essere stato dilatato oltre misura dalla speranza, ritorna su sè stesso e si ricompone nella fredda realtà. Faria non fe’ che un sogno; Guido Spada nulla ha seppellito in questa grotta; forse anche non vi è mai venuto, o se vi venne, Cesare Borgia, l’intrepido avventuriere, l’infaticabile capo ladrone vi sarà approdato dopo di lui, avrà seguiti i medesimi segni che ho seguiti io, avrà come me sollevata questa pietra, e, disceso prima di me, nulla avrà lasciato da prendere a chi veniva dopo lui. — Dantès restò un momento immobile, pensieroso, cogli occhi fissi sopra quest’apertura tenebrosa e continua.
— Sì, sì, questa è un’avventura da trovar posto nella vita, mista di oscurità e di luce, di questo reale bandito. In quel tessuto di strani casi che compose la trama diaspra della sua esistenza, questo favoloso avvenimento ha dovuto incatenarsi invincibilmente ad altri fatti. Sì, Borgia è venuto una notte qui, tenendo in una mano una fiaccola, nell’altra una spada, nel mentre che a venti passi da lui distante, forse a piedi di quello scoglio, stavano cupi e minacciosi due sgherri spiando la terra, l’aria ed il mare, mentre che il padrone entrava, come sto per fare io, in quest’antro scuotendo le tenebre col suo formidabile e fiammeggiante braccio. Sì, ma di quei sgherri ai quali avrà dovuto comunicare il segreto, che ne avrà fatto Borgia? si domandò Dantès. Ciò che fecero, rispose egli stesso sorridendo, dei becchini d’Alarico, che vennero sotterrati col seppellito. Ora che io non calcolo più su nulla, ora che sarebbe pazza cosa il conservar qualche speranza, questa avventura non è più per me che una mera curiosità.
E restò ancora per poco tempo immobile e meditabondo.
— Però se vi fosse venuto, riprese Dantès, se avesse ritrovato e portato il tesoro, Borgia, l’uomo che paragonava l’Italia ad un carciofo, e che la mangiava foglia per foglia, Borgia sapeva troppo bene impiegare il tempo per non perderne a rimettere questa roccia sulla base... discendiamo.
Allora discese, il sorriso del dubbio sfiorava sulle sue labbra che mormoravano quest’ultima parola dell’umana saggezza: — Può darsi!...
Ma in vece delle tenebre che si aspettava di ritrovare, in vece di un’atmosfera opaca e trista, Dantès non vide che una gran luce decomposta in un chiarore azzurrognolo; l’aria e la luce filtravano non solo dall’apertura da lui praticata, ma ancora per delle screpolature invisibili fra le rocce dalla parte esterna, e attraverso le quali si vedeva il colore turchino del cielo, e ove si congiungevano i rami tremolanti dei verdi cespugli e i ligamenti spinosi e parassiti dei rovi. Dopo qualche secondo di dimora in questa grotta, la cui atmosfera piuttosto odorosa che fetida, stava alla temperatura dell’isola come l’ombra al sole, lo sguardo di Dantès, abituato come si disse, alle tenebre, potè esplorare gli angoli più reconditi della caverna; essa era di granito di cui le faccette sparse di pagliuole risplendevano come diamanti.
— Ahimè! esclamò Dantès sorridendo, ecco senza fallo i tesori che avrà lasciato lo Spada, e il buon Faria vedendo in sogno questi muri risplendenti, si sarà fermato in queste ricche speranze!... — Si ricordò poi le precise parole del testamento che sapeva a memoria. «Nell’angolo più lontano della seconda apertura». Or Dantès non era penetrato che nella prima grotta, gli abbisognava dunque cercare l’entrata della seconda.
Si orizzontò allora. Questa seconda grotta doveva naturalmente internarsi verso il centro dell’isola. Esaminò gli strati delle pietre, e andò a battere sur una delle pareti che gli parve quella ove doveva essere l’apertura, nascosta senza dubbio per maggior cautela. Con la zappa ripercosse le pareti ad intervalli, tramandando la roccia un rumore sì sordo e debole che faceva scorrere il sudore sulla fronte di Dantès. Finalmente sembrò al perseverante minatore che una parte del muro di granito risuonasse, e rispondesse con un eco più sordo e più profondo all’appello che gli veniva fatto. Avvicinò lo sguardo ardente al muro, e ritrovò, col tatto da prigioniero, ciò che niun altro avrebbe forse riconosciuto: cioè che là doveva essere un’apertura. Però, onde non fare un lavoro inutile, Dantès, che, a guisa di Cesare Borgia, aveva studiato il valore del tempo, esplorò le altre pareti colla zappa, percosse il suolo col calcio del fucile, smosse la sabbia nei luoghi sospetti, e non avendo ritrovato nè riconosciuto [108] nulla, ritornò alla parte di muro che rendeva quel suono consolatore. Egli la percosse di nuovo e con maggior forza.
Allora vide una cosa singolare; sotto i colpi dell’istrumento, una specie d’intonaco come quello che si applica sui muri per dipingervi a fresco, si sollevava e cadeva in croste, scoprendo una pietra biancastra e granellosa, come quelle da taglio. L’apertura della roccia era stata chiusa con pietre di altra natura, quindi vi avevano steso l’intonaco, era stata imitata la tinta e la cristallizzazione del granito. Dantès percosse allora colla parte tagliente della zappa, questa penetrò per un pollice nella porta a muro.
Era là che bisognava lavorare.
Per uno strano mistero dell’umana organizzazione, più si avveravano, e si accumulavano le prove che Faria non doveva essersi ingannato, e più il cuore di Dantès indebolito e stanco si lasciava andare in preda al dubbio, e quasi allo scoramento. Questa nuova esperienza, che avrebbe dovuto infondergli forza novella, gli tolse al contrario quella che rimanevagli; la zappa discendendo sfuggivagli quasi dalle mani, la depose al suolo, si asciugò la fronte, e risalì la scala, sul pretesto di vedere se qualcuno lo spiava, ma in realtà perchè aveva bisogno d’aria, perchè si sentiva sul punto di svenire.
L’isola era deserta, e il sole nel suo zenit sembrava coprirla col suo occhio di fuoco; in lontano alcune piccole barche pescherecce spiegavano le vele su di un mare azzurro come il zaffiro.
Dantès non aveva ancora mangiato nulla: ma in questo momento era ben lontano dall’aver voglia di mangiare; trangugiò un po’ di rum, e rientrò nella grotta col cuore serrato. La zappa che gli era sembrata così pesante era ridivenuta leggiera; egli la sollevò come avrebbe fatto di una piuma, e si mise vigorosamente al lavoro. Dopo qualche colpo, si accorse che le pietre non erano cementate, ma soltanto le une poste sulle altre, e ricoperte da quell’intonaco di cui abbiamo parlato; introdusse in una fessura la punta dell’istrumento, gravitò col corpo sul manico, e vide con gioia la pietra girare, come su i cardini, e cadere ai suoi piedi.
Da quel momento Dantès non ebbe più che a tirare a sè col ferro della zappa ciascuna pietra, che a sua volta rotolò vicino alla prima.
Egli avrebbe potuto entrare fin dalla prima apertura, ma ritardando di qualche minuto aveva prolungato la certezza aggrappandosi alla speranza. Finalmente dopo una nuova esitazione di un minuto, Dantès passò dalla prima nella seconda grotta; questa era più bassa, più oscura, e di un aspetto più spaventoso della prima. L’aria, che non vi era penetrata che dall’apertura testè fatta, conservava quello odore mefitico, che Dantès si era meravigliato di non ritrovare nella prima: aspettò allora che l’aria esterna ravvivasse questa morta atmosfera, quindi entrò a sinistra dell’apertura. Eravi un angolo profondo e oscuro; ma, per l’occhio di Dantès non v’erano tenebre. Scandagliò la seconda grotta: era vuota come la prima. Il tesoro, se v’era, stava seppellito in quest’angolo oscuro.
L’ora dell’angoscia era giunta; due piedi di terra da scavarsi era tutto ciò che restava a Dantès fra il sommo della gioia e il sommo della disperazione. Egli si avanzò verso l’angolo, e, come preso da una momentanea risoluzione, si diè al lavoro. Al quinto o sesto colpo di zappa il ferro risuonò sopra un altro ferro. Giammai tocco funebre di campana a stormo produsse un simile effetto su colui che l’intese. Dantès non avrebbe ritrovato altra cosa che lo avesse potuto far diventar più pallido. Egli osservò ai lati del luogo da lui già esplorato, ritrovò lo stesso suono.
— È un baule di legno cerchiato di ferro, diss’egli.
Passò in quel punto un’ombra rapida intercettando la luce: Dantès lasciò cadere la zappa, afferrò il fucile, ripassò per l’apertura, e si slanciò all’aperto. Era una capra selvaggia che aveva saltato la prima entrata della grotta, e mangiava a qualche passo di distanza. Sarebbe stata una bella occasione per assicurarsi il pranzo; ma Dantès ebbe timore che lo sparo del fucile richiamasse qualcuno. Riflettè un momento, tagliò dei rami di un albero resinoso, e andò ad accenderli al fuoco ancor fumante, ove i contrabbandieri avevano cotto il pranzo, e ritornò con questa torcia: non voleva perdere alcuna particolarità di ciò che stava per vedere.
Avvicinò la torcia alla buca informe e non compita, e riconobbe che non si era ingannato; i colpi avevano alternativamente colpito sul ferro e sul legno. Piantò la torcia in terra, e si rimise all’opera. In un momento fu scavata una fossa di tre piedi di lunghezza e due di larghezza, e potè allora riconoscere un baule di legno di quercia con cerchi di ferro cesellato. Nel mezzo del coperchio risplendeva, sopra [109] una placca d’argento che la terra non aveva potuto arrugginire, l’arme della famiglia Spada, cioè una spada messa di piatto sopra uno scudo ovale, come sono gli scudi italiani. Dantès la riconobbe facilmente, perchè Faria l’aveva più volte a lui disegnata. Da quel momento non vi era più dubbio, il tesoro v’era in effetti; non avrebbero prese tante cautele per rimettere in quel posto un baule vuoto.
In un momento tutti i lati del baule o forziere furono messi allo scoperto, ed ei vide poco alla volta, comparire la serratura nel mezzo, posta fra due cinte di ferro, e le maniglie alle pareti laterali; tutto era cesellato, come si usava in quell’epoca in cui l’arte rendeva preziosi anche i più vili metalli. Dantès prese il baule per le maniglie, e si provò a sollevarlo, era impossibile. Allora tentò di aprirlo: la serratura e le cinte lo tenevano ben chiuso: questi fedeli custodi sembravano non voler rendere il tesoro: Dantès introdusse la parte tagliente della zappa tra il fondo ed il coperchio, gravitò con tutto il corpo sul manico di quella, ed il coperchio, dopo aver prodotto un forte rumore, andò in pezzi. Una larga apertura dell’asse rendeva i ferramenti inutili, caddero anch’essi, stringendo tuttavia con le loro unghie tenaci gli avanzi del coperchio caduto con essi, ed il baule fu aperto. Una febbre vertiginosa s’impadronì di Dantès; egli prese il fucile, lo caricò, e se lo pose vicino. Dapprima chiuse gli occhi come fanno i fanciulli, per scorgere nella notte sfavillante della loro immaginazione più stelle che non possono contarsi in un cielo ancora illuminato, quindi li riaprì, e rimase abbagliato.
Tre divisioni compartivano il baule; nella prima brillavano dei fulgidi scudi d’oro dai gialli riflessi; nella seconda delle verghe d’oro non brunite, ma disposte in buon ordine, esse però non avevano dell’oro che il peso ed il valore; nella terza finalmente, piena a metà, Edmondo rimosse ed alzò a manate i diamanti, le perle e i rubini che qual cascata sfavillante facevano nel ricadere gli uni sugli altri il rumore della grandine sui vetri. Dopo aver toccato, palpato, immerso le mani tremanti nell’oro e nelle pietre, Edmondo si rialzò e si diè a correre attraverso la caverna colla fremente esaltazione di un uomo che sta per diventar pazzo. Saltò sopra una roccia da cui poteva scoprire il mare, e non vide nulla; egli era solo, solissimo con queste ricchezze incalcolabili, inaudite, favolose, che gli appartenevano. Ma sognava o era sveglio?
Aveva bisogno di rivedere il suo oro, e nello stesso tempo sentiva non aver la forza di sostenerne la vista; per un momento si compresse le mani sulla testa come per impedire che la ragione andasse via, poi si slanciò attraversò l’isola senza seguire, non dirò un sentiero, perchè nell’isola di Monte-Cristo non ve ne sono, ma tampoco una direzione stabilita; faceva fuggire le capre selvagge, e spaventava gli uccelli marini colle sue grida e col suo gesticolare. Indi, per un altro giro ritornò, dubitando ancora, e precipitandosi dalla prima grotta nella seconda, e trovandosi al cospetto di questa cava d’oro e di diamanti, cadde in ginocchio, comprimendosi con ambe le mani i moti convulsivi del cuore che balzava, e mormorando una preghiera intelligibile a Dio soltanto. Poco dopo si sentì più tranquillo, e pertanto più felice; poichè in quell’ora soltanto cominciava a credere alla sua felicità. Si mise a contare la sua fortuna; vi erano circa mille verghe d’oro che pesavano ciascuna da due a tre libbre; quindi ammonticchiò venticinque mila scudi d’oro che potevano avere il valore ciascuno di ottanta franchi, moneta di Francia, tutti coll’effigie di Papa Alessandro VI e dei suoi predecessori, e si accorse che il compartimento non era vuotato che a metà; finalmente misurò dieci volte la capacità delle sue due mani in perle, pietre, e diamanti, molti dei quali, legati dai migliori gioiellieri di quell’epoca, presentavano per questo un valore considerevole, oltre quello intrinseco. Dantès vide il giorno abbassarsi ed estinguersi a poco a poco. Temè di esser sorpreso se restava nella grotta, e ne uscì col fucile alla mano. Un po’ di biscotto e qualche goccia di vino furono la sua cena. Quindi rimise la pietra, vi si sdraiò sopra, e dormì appena qualche ora, coprendo col corpo l’ingresso della grotta. Questa notte fu una di quelle terribili ad un tempo e deliziose, come quest’uomo dalle grandi emozioni ne aveva già passate due o tre nella sua vita.