Un vecchio somaro, con gli occhi bendati, moveva un decrepito bindolo, pieno di cigolii di stridi e di schianti.
Mentre girava così, sotto il suo naso correva salterellando un canetto arzillo che sembrava far discreta attenzione a certi filosofici insegnamenti che il savio somaro gli veniva impartendo da tre ore, in mezzo a infiniti sospiri.
L'asino ragionava, come un moralista qualunque, di quella virtù nella quale credeva di eccellere, ponendola, naturalmente al di sopra d'ogni altra.
— Hai ben veduto figlio mio, — diceva — quante legnate m'ha scaricato addosso poco fà quel maledetto garzone! Solo a ripensarci le gambe mi corrono! Sarebbe stato pur facile per me sfondargli la pancia con una coppia di calci ben sortiti... e invece, che cosa ho fatto? Ho parato la groppa e me le son prese tutte, senza nemmeno fiatare!... Oh! la Pazienza! Questa è davvero la più grande virtù dell'anima! Come presto scomparirebbe il Male dalla faccia del mondo, se non con la vendetta si combattesse, ma con la dolce sofferenza, come io faccio!...
A questo punto, il povero somaro, affaticato di gambe e di mente, si provò a rallentare il passo: e poichè non gli arrivò negli scartocci nessuna voce d'uomo nè vicina nè lontana, non senza una lunga e penosa titubanza, finalmente deciso, si fermò; e tacque.
Allora il cane, giovane e pazzerello, per dimenticar la noia di quegli insegnamenti e prendersi innocente gioco del virtuoso filosofo bendato, gli andò pian piano di dietro, gli addentò il fiocco della coda che avea lunghissima, e cominciò a tirare allegramente.
Ma non aveva ancor dato due stratte, quando gli arrivò un piede del somaro proprio nel mezzo del corpo, e così ben posto, che si ritrovò in fondo al fosso tutto stronco.