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XIX. — IL TERZO ACCESSO.

时间:2021-06-29来源:互联网  进入意大利语论坛
核心提示:Ora che questo tesoro, stato per s lungo tempo lo scopo delle meditazioni di Faria, poteva assicurare la felicit di colu
(单词翻译:双击或拖选)
 Ora che questo tesoro, stato per sì lungo tempo lo scopo delle meditazioni di Faria, poteva assicurare la felicità di colui che egli veramente amava come suo figlio, questo tesoro aveva raddoppiato di valore a’ suoi occhi: tutti i giorni si divertiva nel farne le quote, spiegando a Dantès tutto ciò che poteva fare di bene ai suoi amici quell’uomo che ai nostri giorni possedesse una fortuna di 13 a 14 milioni; e allora il viso di Dantès si faceva tetro, perchè il giuramento di vendetta che aveva fatto si presentava al suo pensiero, e rifletteva quanto male poteva fare a’ suoi nemici un uomo che ai nostri giorni possedeva 13 a 14 milioni.
 
Faria non conosceva l’isola di Monte-Cristo, ma Dantès la conosceva, vi era spesse volte passato davanti ed una volta vi avea preso ancora terra. Quest’isola era, è stata sempre, ed è ancora compiutamente deserta; è una roccia di forma quasi conica che sembra essere stata sospinta da qualche cataclismo vulcanico dal fondo dell’abisso alla superficie del mare[1].
 
Dantès faceva il piano dell’Isola a Faria, e questo davagli dei consigli sui modi da impiegarsi per ritrovare il tesoro.
 
Ma Dantès era ben lungi dall’essere così entusiasta e così confidente quanto lo era il vecchio; era al certo ben sicuro che Faria non era pazzo ed il modo con cui era giunto alla scoperta che aveva fatto credere alla sua follia, raddoppiava ancora la sua ammirazione per lui; ma non poteva egualmente credere che questo deposito, supposto che un giorno vi fosse stato, vi fosse tuttavia, e quando non guardava questo tesoro come una chimera, lo guardava come molto lontano. Frattanto, come se il destino avesse voluto togliere ai prigionieri l’ultima speranza, e far loro credere che erano condannati ad un perpetuo carcere, una nuova disgrazia venne a colpirli. La galleria che dava sul mare, minacciando ruina da lungo tempo, era stata ricostruita; furono sostituiti ai pianciti e ai travi degli enormi dadi di roccia sul foro di già per metà interrato da Dantès; senza questa cautela, che fu suggerita dal vecchio al giovine, il loro infortunio sarebbe stato ancora maggiore, perchè si sarebbe scoperto il tentativo di evasione e sarebbero stati indubitatamente divisi.
 
Una nuova porta più forte e più inesorabile delle altre si era chiusa ancora una volta sur essi.
 
— Voi vedete bene, diceva Dantès, con una dolce tristezza a Faria, che Dio vuol togliermi fino il merito di ciò che chiamate mia devozione per voi: vi ho promesso di restare eternamente con voi, ed ora non son più libero di non poter mantener la mia parola; non avrò più il tesoro e non usciremo di qui nè l’uno nè l’altro. Del resto il mio vero tesoro siete voi, amico mio, quello che mi attendeva sotto le tetre volte di questa prigione siete voi, è la vostra presenza, il nostro convivere cinque o sei ore del giorno insieme ad onta della vigilanza dei nostri carcerieri. Sono questi raggi d’intelligenza che voi avete versato nel mio intelletto, queste lingue che voi avete trapiantate nella mia memoria, ove vegetano con tutte le loro ramificazioni filologiche. Queste scienze diverse che voi mi avete rese sì facili colla profondità della conoscenza che me ne avete data, e colla chiarezza dei principi a cui le riduceste. Ecco il mio tesoro, amico; ecco in che modo mi avete fatto ricco e felice. Credetemi e consolatevi; ciò per me val molto più delle verghe d’oro e delle casse di diamanti, quand’anche non fossero così problematiche, come le nubi che si vedono la mattina fluttuare sul mare, che si prendono per terra ferma e che svaporano, svaniscono a seconda che uno si avvicina. Vedervi vicino a me per il più lungo tempo possibile, ascoltare la vostra voce eloquente, ornare il mio spirito, rattemprare l’anima mia, rendere tutta la mia organizzazione capace di grandi e terribili cose, se mai un giorno sarò libero, riempirle così bene che la disperazione alla quale ero sul punto di abbandonarmi, quando vi conobbi, non vi ritrovi più posto; [86] ecco tutta la mia fortuna: questa non è chimerica, io la debbo a voi, e tutti i sovrani della terra, fossero essi ancora tanti Cesare Borgia, non riuscirebbero a togliermela.
 
Così i giorni che scorsero in seguito, se non furono giorni felici pei due prigionieri, passarono però molto prestamente. Faria che aveva custodito il segreto del suo tesoro per sì lungo tempo, ora ne parlava ad ogni occasione. Come lo aveva preveduto, egli restò paralizzato dal lato destro ed egli stesso aveva perduto ogni speranza di potersene servire; ma pensava sempre pel suo compagno ad una liberazione o ad una evasione, e ne godeva per lui. Per timore che la lettera potesse un giorno perdersi o cancellarsi aveva obbligato Dantès ad impararla a memoria, di tal che questi la sapeva dalla prima all’ultima parola; allora distrusse la seconda parte, certo che poteva essere ritrovata la prima parte, senza che ne fosse indovinato il vero senso. Qualche volta passava delle ore intere nel dare delle istruzioni a Dantès, istruzioni che dovevano servirgli nei giorni della sua libertà. Una volta libero, dal giorno, dall’ora, dal momento in cui sarebbe stato libero, allora egli non doveva più avere che un solo ed unico pensiero, quello di guadagnare Monte-Cristo in qualunque siasi modo, restarvi solo con un pretesto che non desse sospetto; ed una volta là, una volta solo, cercare di ritrovare le grotte maravigliose e scavare nell’interno della seconda grotta.
 
Aspettando in tal modo, le ore passavano, se non rapide almeno sopportabili: Faria, come dicemmo, senza avere ricuperato l’uso della mano e del piede, aveva ricuperata tutta la chiarezza della sua intelligenza e aveva insegnato al suo giovine compagno un poco alla volta oltre le cognizioni morali, di cui si disse in particolare, quell’arte paziente e sublime del prigioniero che dal niente sa trarre qualche cosa. Faria pel timore di vedersi invecchiare, Dantès pel timore di ricordarsi il suo passato quasi estinto, e che non presente più nel fondo della sua memoria lontana, che come perduto nella notte; tutto camminava come in quelle esistenze ove l’infelicità non ha nulla scomposto, e che passano macchinalmente e con calma sotto l’occhio della Provvidenza. Ma sotto questa calma superficiale esistevano nel cuore del giovine, e fors’anche del vecchio, molti slanci trattenuti, molti sospiri soffocati, che Faria faceva quando era solo, Edmondo quando rientrava nel suo carcere.
 
Una notte Edmondo si risvegliò come scosso, credendo di essere stato chiamato; aprì gli occhi e tentò di squarciare la spessezza dell’oscurità. Il suo nome, o piuttosto una voce di lamento che tentava di articolare il suo nome, giunse fino a lui. Si alzò sul letto, il sudore dell’angoscia gli bagnava la fronte, ed ascoltò. Non v’era più alcun dubbio: il lamento veniva dal carcere del suo compagno.
 
— Gran Dio! esclamò Dantès; sarebbe forse..., e spostò il letto, levò la pietra, si slanciò nella via sotterranea, giunse all’opposta estremità, la pietra era alzata. Alla luce incerta e vacillante di quella lampada di cui abbiamo altre volte parlato, Edmondo vide il vecchio pallido, ancor ritto che si aggrappava al legno del letto. I suoi lineamenti erano sconvolti da quegli orribili sintomi che egli già conosceva, e che tanto lo spaventarono quando apparvero per la prima volta.
 
— Ebbene! amico mio, disse Faria rassegnato.... non ho più bisogno d’insegnarvi altro. — Edmondo gettò un grido doloroso, e del tutto smarrito si slanciò verso la porta gridando: — Soccorso! soccorso! — Faria ebbe ancora la forza di fermarlo per un braccio. — Silenzio, diss’egli, o siete perduto. Non pensiamo più che a voi, caro amico, a rendere la vostra prigionia sopportabile o la vostra fuga possibile. Vi bisognerebbero molti anni per rifare da solo tutto ciò che io ho fatto qui, e che sarebbe distrutto sul momento se i nostri sorveglianti sapessero la nostra intelligenza. D’altra parte siate tranquillo, amico mio, il carcere che abbandono non resterà lungamente vuoto: un altro disgraziato verrà a prendere il mio posto. A quest’altro voi comparirete come un angiolo salvatore. Quest’altro sarà forse giovine, forte, paziente come voi. Quest’altro potrà aiutarvi nella vostra fuga, mentre che io non era ormai in istato che d’impedirla. Non avrete più un mezzo cadavere unito a voi per ostare ai vostri movimenti. Dio fa finalmente qualche cosa per vostro bene: egli vi dà più di ciò che vi toglie, ed è ben ora che io muoia.
 
Edmondo non potè far altro che unire le mani e gridare.
 
— Oh! amico mio, amico mio, tacete. — Quindi riprendendo la sua forza, un momento perduta dal colpo imprevisto, e il coraggio piegato dalle parole del vecchio:
 
— Oh! diss’egli, io vi ho già salvato [87] una volta, vi salverò la seconda. — E sollevando il piede del letto ne cavò la boccettina in cui v’era ancora un terzo del liquore rosso.
 
— Ecco diss’egli, di questa bibita salutare ne resta ancora. Presto, presto, ditemi ciò che devo fare. Questa volta vi sono nuove istruzioni da aggiungere? parlate, amico mio, vi ascolto.
 
— Non v’è alcuna speranza; rispose Faria, scuotendo la testa; ma non importa, Dio vuole che l’uomo da Lui creato, nel cuor del quale ha profondamente scolpito l’amor della vita, faccia tutto ciò che può per conservare questa esistenza, spesse volte penosa, ma sempre cara.
 
— Oh! sì, rispose Dantès, vi salverò; ve lo dico io.
 
— Ebbene! dunque tentate, il freddo mi prende, sento il sangue affluire al cervello; quest’orribile tremito mi fa sbattere i denti, e sembra disgiungere le mie ossa, comincia ad invadere il mio corpo; tra cinque minuti la crisi scoppierà, fra un quarto d’ora non vi sarà di me che un cadavere.
 
— Ah! gridò Dantès, col cuore lacerato dal dolore.
 
— Voi farete come l’altra volta, soltanto non aspetterete sì lungo tempo. A quest’ora tutte le molle della mia vita sono consunte, e la Morte non avrà più (mostrando il braccio e la gamba paralizzata) non avrà più che la metà del lavoro da fare. Se dopo avermi versato dodici gocce in bocca, invece di dieci, vedete che io non rinvengo, versate il rimanente. Frattanto portatemi sul letto perchè non posso più tenermi in piedi. — Edmondo prese il vecchio nelle braccia e lo stese sul letto. — Ora, amico, disse Faria, sola consolazione della mia misera vita, voi, che il cielo mi dette un po’ tardi, ma pure mi dette qual dono inapprezzabile di cui lo ringrazio, nel momento in cui sono per separarmi per sempre da voi, vi auguro tutti i beni, tutte le felicità che meritate. Figlio mio, io vi benedico!
 
Dantès si gittò in ginocchio appoggiando la testa sul letto del vecchio. — Ma prima di ogni altro ascoltate bene ciò che vi dico in questo momento supremo; il tesoro di Spada c’è, Dio permette che non vi sia più per me nè distanza nè ostacolo. Io lo vedo nel fondo della seconda grotta, i miei occhi penetrano la profondità della terra e restano abbagliati da tante ricchezze... se voi giungete a fuggire, ricordatevi che il povero Faria da tutti creduto pazzo, non lo era. Correte a Monte-Cristo, approfittatevi della fortuna, voi che avete sofferto abbastanza...
 
Una scossa violenta interruppe il vecchio, Dantès rialzò la testa, e vide che gli occhi si iniettavano di rosso, sarebbesi detto che un’onda di sangue saliva dal petto alla fronte.
 
— Addio! addio! mormorò il vecchio stringendo convulsivamente la mano al giovine, addio.
 
— Oh! non ancora, non ancora, gridò questi. Non mi abbandonate, oh! mio Dio! soccorretelo... aiuto... aiuto!...
 
— Silenzio! silenzio! silenzio! mormorò il moribondo, che non ci separino se volete salvarvi.
 
— Avete ragione. Oh! sì sì, siate tranquillo, vi salverò. D’altra parte quantunque soffriate molto, sembra che soffriate meno della prima volta.
 
— Oh! disingannatevi, soffro meno perchè ho minor forza di soffrire. Nella vostra età si ha fede nella vita, è il privilegio della gioventù di credere e di sperare; ma la vecchiaia vede più chiaramente la morte. Oh! eccola... ella viene... tutto è finito... la vista si perde... la ragione svanisce... la vostra mano Dantès... addio!..., e riunendo tutte le sue forze e le sue facoltà fece un ultimo sforzo per rialzarsi dicendo: — Monte-Cristo... non dimenticate Monte-Cristo!
 
E ricadde sul letto.
 
La crisi fu terribile; membra contorte, pupille gonfiate, schiuma sanguinolenta, un corpo senza movimento, ecco ciò che restò su quel letto di dolore, nel posto ove un momento prima era stato disteso un essere intelligente. Dantès prese la lampada, la posò al capezzale del letto sopra una pietra sporgente, da dove la sua luce tremante rischiarava con uno strano e fantastico riflesso questo viso scomposto e questo corpo inerte e rigido. Là cogli occhi fissi aspettò intrepidamente il momento di ministrare il salutare rimedio. Quando credè fosse giunto, prese il coltello, disserrò i denti, che offrivano meno resistenza della prima volta, contò una dopo l’altra le dodici gocce, e aspettò; la boccettina conteneva ancora il doppio circa di ciò che avea versato. Aspettò dieci minuti, un quarto d’ora, una mezz’ora, niente si mosse. Tremante, coi capelli irti, la fronte ghiacciata dal sudore, contava i secondi coi battiti del cuore. Allora egli pensò che era tempo di tentare l’ultima prova: avvicinò la boccettina alle labbra paonazze di Faria, e senza aver [88] bisogno scostare le mascelle rimaste aperte, versò il rimanente del liquore che conteneva. Il rimedio produsse un effetto galvanico, un violento tremore scosse le membra del vecchio, gli occhi si riaprirono spaventosi a vedersi, gettò un sospiro che sembrava un grido, quindi tutto questo corpo tremante rientrò a poco a poco nella sua immobilità; i soli occhi rimasero aperti.
 
Una mezz’ora, un’ora, un’ora e mezzo passarono.
 
Durante quest’ora e mezzo d’angoscia Edmondo curvato sul suo amico, con la mano applicata sul cuore sentì successivamente questo corpo raffreddarsi, e questo cuore spegnere il suo battito sempre più sordo e profondo. Finalmente nulla sopraggiunse, l’ultimo fremito del cuore cessò, la faccia divenne livida, gli occhi rimasero aperti; ma lo sguardo si fece vitreo.
 
Erano le sei del mattino, il giorno cominciava a sorgere, il suo raggio malinconico entrava nel carcere e faceva impallidire la luce della lampada vicina a spegnersi. Riflessi strani di luce passavano sul viso del cadavere dandogli di tempo in tempo delle apparenze di vita. Fino a che durò questa lotta tra il giorno e la notte, Dantès potè ancora dubitare, ma da che il giorno la vinse, fu fatto certo che era in compagnia di un cadavere. Allora un terrore profondo ed invincibile s’impadronì di lui; egli non osò più stringere quella mano che pendeva fuori del letto, non osò più fissare gli occhi su quelli immobili e bianchi, che tentò inutilmente più volte di chiudere, e che sempre si riaprivano: spense la lampada, la nascose con ogni cura, fuggì rimettendo alla meglio la pietra al disopra della testa: n’era già tempo, chè il carceriere poteva star poco a venire. Questa volta il carceriere cominciò la visita da Dantès; uscendo da questo carcere, passava in quello di Faria al quale portava la colazione e la biancheria. Nulla faceva conoscere in quest’uomo che fosse al giorno dell’accidente accaduto. Egli uscì.
 
Dantès fu preso allora da un’indicibile impazienza di saper ciò che sarebbe accaduto nel carcere del suo disgraziato amico: rientrò dunque nel passaggio sotterraneo, e giunse in tempo per sentire le esclamazioni del carceriere che chiamava soccorso. Ben presto entrarono gli altri carcerieri, dipoi s’intese quel passo pesante e regolare, comune ai soldati anche quando sono fuori servizio. Dietro i soldati giunse il Governatore. Edmondo intese il rumore del letto sul quale veniva agitato il cadavere, e la voce del governatore che ordinava di gettargli dell’acqua sul viso, e che vedendo quest’aspersione non atta a far rivivere il prigioniero, mandava a chiamare il medico. Il governatore uscì, e giunsero fino alle orecchie di Dantès alcune parole di compassione miste alla risa ed alle facezie dei carcerieri.
 
— Andiamo, andiamo, diceva uno di questi, il pazzo è andato a raggiungere i suoi tesori; buon viaggio.
 
— Ei non avrà, con tutti i suoi milioni, di che pagare la coperta da morto, diceva l’altro. — Oh! rispondeva un terzo, le coperte dei morti del castello d’If non costano molto. Può essere che essendo una persona di distinzione nella scienza, gli vorranno usare qualche riguardo. — Allora avrà l’onore del sacco.
 
Edmondo ascoltava, non perdeva una parola, ma non capiva il significato dei loro detti. Ben presto le voci cessarono, e gli sembrò che i carcerieri lasciassero la camera.
 
Ciò nonostante non osò entrarvi, potevano avervi lasciato qualcheduno a guardia del morto. A capo di un’ora circa il silenzio si animò debolmente, quindi andò crescendo: era il governatore che ritornava seguito da un medico e da diversi ufficiali. Si rinnovò un momento di silenzio; era evidente che il medico si accostava al letto ed esaminava il cadavere. Ben presto il dialogo ricominciò: il medicò analizzò il male del quale era stato vittima il prigioniero; e dichiarò che egli era morto. Domande e risposte si facevano con una noncuranza che indignò Dantès. Gli sembrava che tutti avrebbero dovuto risentire pel povero Faria una parte dell’affetto che ei gli portava.
 
— Sono dispiacente di ciò che voi mi annunziate, disse il governatore rispondendo alla certezza manifestata dal medico, che il vecchio fosse in effetti morto; era un prigioniero docile, inoffensivo, ricreante colla sua follia e soprattutto facile a sorvegliarsi.
 
— Oh! riprese il carceriere, si sarebbe potuto far di meno di qualunque sorveglianza. Garantisco ch’egli avrebbe potuto restar qui cinquant’anni, senza provar di fare il più piccolo tentativo di evasione.
 
— Frattanto, riprese il governatore, non che io dubiti della vostra scienza, ma è necessario di assicurarci se il prigioniere sia in effetti morto. — Si formò un [89] nuovo silenzio, e Dantès sempre in ascolto suppose che il medico esaminasse e palpasse una seconda volta il cadavere.
 
— Voi potete restare tranquillo, disse allora il medico: è morto, e me ne rendo io garante.
 
— Sapete, signore, riprese il governatore insistendo, che noi non ci contentiamo, in casi simili, di un semplice esame; perciò ad onta di tutte le apparenze vi prego di adempiere alle formalità prescritte dalla legge.
 
— Che si faccia arroventare un ferro, disse il medico, ma in verità, questa è una cautela inutile. — Quest’ordine fece fremere Dantès. S’intesero dei passi frettolosi, il cigolio della porta, l’andare e venire interno, e di lì a poco un carceriere rientrò dicendo: — Ecco il braciere con un ferro.
 
Si rinnovò il silenzio per un momento, poi s’intese il frizzio delle carni che bruciavano e di cui l’odore nauseabondo penetrò per fino dietro il nascondiglio di Dantès che lo sentì con orrore. A quest’odore di carne carbonizzata, il sudore scaturì dalla fronte del giovine che per un momento credette di svenire.
 
— Voi vedete, disse il medico, che egli è veramente morto; questa bruciatura al tallone è decisiva, il povero pazzo è guarito dalla follia e liberato dalla prigionia.
 
— Non si chiamava Faria? domandò uno degli ufficiali che accompagnavano il governatore.
 
— Sì, rispose questi: egli pretendeva che questo fosse un nome antico, era però molto dotto e molto ragionevole su tutti i punti che non avevano relazione col suo tesoro; ma su questo, bisogna convenire, egli era intrattabile.
 
— È l’affezione che noi chiamiamo monomania, disse il medico.
 
— Voi non avete mai avuto nulla da lamentarvi di lui? domandò il governatore al carceriere.
 
— Mai, sig. governatore, rispose questi, altre volte anzi mi divertiva molto raccontandomi delle storie; e un giorno perfino che mia moglie era malata, mi scrisse una ricetta che la guarì.
 
— Ah! ah, fece il medico, ignorava di aver che fare con un collega; spero, signor governatore, aggiunse ridendo, che per tal riguardo lo tratterete con considerazione.
 
— Sì, sì, siate tranquillo egli sarà decentemente sepolto nel sacco più nuovo che si potrà ritrovare; siete contento?
 
— Dobbiamo noi adempiere quest’ultima formalità alla vostra presenza, sig. governatore? domandò un carceriere.
 
— Senza dubbio; ma sbrigatevi; non posso restare in questa camera tutta la giornata.
 
Si fece sentire un nuovo andare e venire: un momento dopo il rumore dello stendere di una tela giunse alle orecchie di Dantès, il letto s’incurvò sulle traverse, un andar grave come di chi porta un peso, gravitò sulla pietra sotto di cui stava Dantès, quindi il letto tornò a piegarsi sotto il peso che gli si rendeva.
 
— A questa sera, disse il governatore.
 
— La messa vi sarà? domandò un ufficiale.
 
— Impossibile, disse il governatore. Il cappellano del castello venne ieri a chiedermi un permesso di otto giorni per fare un piccolo viaggio a Thiers. Io gli ho garantito i miei prigionieri durante la sua assenza; il povero Faria non doveva avere tanta fretta, se voleva il suo requiem.
 
Intanto si compieva l’operazione per la sepoltura.
 
— A questa sera, disse il governatore, quando fu finita.
 
— A che ora? domandò il carceriere — Fra le dieci e le undici. — Si deve vegliare il morto? — E perchè fare? si chiuda la prigione come se fosse vivo e nient’altro.
 
Allora i passi si allontanarono, le voci gradatamente cessarono, si fece sentire il cigolio dei cardini della porta che si chiudeva e lo stridere della serratura. Un silenzio più tetro di quello della solitudine, il silenzio della morte, si sparse per tutto, perfino nell’anima agghiacciata del giovine. Allora egli sollevò lentamente la pietra colla testa, e gettò uno sguardo investigatore nella camera: questa era vuota. Dantès allora uscì dal suo nascondiglio.
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